roberto silvestri
Un uomo e due donne misteriosamente
naufraghi su una barca a remi in alto mare raccontano attraverso immagini
ambigue e metaforiche, sensuali e inquietanti, tra tempeste e ricordi, incubi e
fantasie, le loro esperienze interiori più estreme. Una sola delle due donne
sopravviverà all’ennesimo, violento uragano…
E’ Limite il film brasiliano girato nel 1930, con Olga Breno, Taciana Rei,
Raul Schnoor, dalla trama irraccontabile, ma di potenza fisica e visionaria
sorprendente.
Circa due ore di esperimenti
psico-ottici, scritti, diretti, montati e anche interpretati da Mario Peixoto, che
verrà presentato al Detour di Roma domenica 6 dicembre alle ore 19 denudato
delle sue musiche originariamente annesse (di Satie, Strawinski, Debussy, Borodin,
Frank, Prokoviev, Ravel) e rivestito con le armonie free style di un duo, il
chitarrista e musicista elettronico inglese Mike Cooper e il sassofonista new
thing brasiliano Alipio Carvalho Neto.
Considerato da Sergei
Eisenstein “più o meno geniale” e da Pudovkin “espressione di una mentalità
nuova, però magistrale”, amato da Welles e Sadoul e dai brasiliani post cinema
novo come Walter Salles jr., è certamente uno dei film latinoamericani più
atipici, anche se resta, tra gli oggetti mitici, il più longevo. Il festival di Cannes nel maggio scorso ha presentato la copia restaurata dalla fondazione Scorsese.
E i critici di
San Paulo lo hanno appena eletto il miglior film della storia brasiliana.
Ma Limite film d’esordio del diciannovenne Mario Peixoto, e
praticamente la sua ultima opera, e San
Paolo, la metropoli del futuro e dell’industria, hanno molto, troppo in comune.
Anche se Peixoto nel 1928 aveva fondato
il cineclub Chaplin proprio a Rio de Janeiro, con Octavio de Faria e Plinio
Sussekind Rocha che programmava film dell’avanguardia europea e si batteva per
un cinema come esperienza puramente visuale, sganciato da ogni servitù letteraria
o teatrale e semmai più vicino come arte alle immagini musicali e pittoriche.
Non credo però che la critica
carioca, per esempio, o tropicalista bahiana, sarebbe in disaccordo con quella
paulista, questa volta. Anche se il più ambizioso tra i cineasti geniali, anche
politicamente, Glauber Rocha, che nella classifica è al secondo posto con Il dio nero e il diavolo biondo, trattò
questo film con il disprezzo che riservava ai borghesi imbelli, che lui voleva
disarcionare dal potere. “Arte per l’arte”: “Peixoto sarebbe diventato un
artista al servizio delle classi dominanti”.
Un altro pioniere del cinema
brasiliano invece, Humberto Mauro, contemporaneamente cineasta d’azione e
antropologo del profondo, sarebbe invece d’accordo con Amir Labaki e compagni
paulisti. Vedeva in Limite qualcosa
che a Rocha sfuggiva. Il disinteresse per ogni realtà sociale del Brasile era solo
apparente. Certamente Peixoto era nato in un ambiente della borghesia
intellettuale, tra poeti e letterati raffinati, e, studente in Europa, si era
accostato anche alle arti plastiche più estreme, affascinanti e complesse.
Il copione del film voleva
affidarlo in un primo momento al produttore e regista di fama Adhemar Gonzaga,
che lo trovò però disinteressante e poco commerciale. Peixoto prese così in
prestito una macchina da presa, e con l’autorizzazione di Gonzaga, utilizzò gli
studi Cinédia per girare direttamente la prima opera d’avanguardia autonoma del
continente sudamericano nelle sue prime decadi di esistenza.
Il movimento modernista
brasiliano degli anni trenta del secolo scorso, di cui Limite è il manifesto nobile e mobile, catturato dal nitrato
d’argento, mise a soqquadro la musica, la letteratura, la pittura, la scultura,
il teatro, il cinema, la poesia, la politica, il motto di spirito, le regole
estetiche, le rigide manie comportamentali, la gerarchia dei sessi e delle
classi e la loro messa a fuoco, il marxismo e anche la psicoanalisi. Ma non era
un movimento in ritardo rispetto alle avanguardie europee degli anni dieci e venti.
Breton, di origine, era addirittura psicoanalista…La punta di colore differente
e originale rispetto al dadismo, al surrealismo, al costruttivismo,
all’espressionismo e al futurismo era infatti l’antropofagismo, quella istigazione a divorare insaziabilmente
proprio il meglio della cultura coloniale, francese, inglese, portoghese,
olandese, russa, italiana ereditata o ancora attiva…da digerire, immagazzinare,
metabolizzare e anche espellere ove necessario, secondo le buone abitudini
degli indios locali…
Il rapporto modernismo-cinema
novo-cinema udigrudi di Bressane e Sganzerla (che rappresentò la fertile
continuazione-rottura dei novissimi, al di là di ogni Limite) è ben spiegato infatti da due film del cinema novo del 1969
e del 1981, l’allegoria Macunaima dal romanzo di Mario de
Andrade e la cinebiografia di Oswald de Andrade che è O Homen do Pao Brasil, diretti entrambi da Joaquim Pedro de Andrade
(e non c’è nessuna parentela tra i tre de Andrade). Quest’ultimo è dedicato
alla celebre Settimana d’arte moderna di San Paolo, e all’inaugurazione del
Museo d’Arte Contemporanea che negli anni venti aveva scandalizzato i
conservatori e i benpensanti ma consacrato San Paolo non solo capitale industriale
dell’America Latina ma anche gioiello culturale inarrivabile.
Per tornare a Limite sono espliciti i debiti di
riconoscenza dunque rispetto al clima paulista e rispetto alla tradizione
d’avanguardia francese, tedesca e russa. Già Sao Paulo, sinfonia da metropole di Adalberto Kemeny e Rodolfo Rex
Lustigg, immigrati ungheresi, nel 1929, si era ispirato, troppo esplicitamente
però, al lavoro berlinese futurista-metropolitano di Walter Ruttman.
Qui
invece, Gance e Epstein, per i valori luministici, Vertov e i sovietici
(soprattutto nel montaggio ad attrazione multipla) e le atmosfere dark degli
espressionisti non solo convivono inspiegabilmente senza litigare, ma il tutto
è messo in rigoroso controllo plastico grazie a una concezione spaziale
dell’inquadratura che deve molto all’astrattismo fotografico equilibrato di
Lazlo Moholy-Nagy.
Il pessimismo esistenziale
(che è anche polemica romantica contro la paralisi neocoloniale della borghesia
brasiliana asservita ai nuovi padroni yankee) è espresso dalle angolazioni
curiose e capricciose della camera, che giocano e fanno la parodia del
naturalismo (negli anni trenta alla moda ovunque), dalla cadenza lenta e sobria
del montaggio, dal tono sinfonico che culmina nel grandioso movimento finale
“maestoso fortissimo” della tempesta. Il film uscì al Cine Capitolio di Rio il 17
maggio del 1931, grazie all’iniziativa del Chaplin club ma poi solo nel
circuito culturale, con accoglienza tiepida.
Ma a Parigi e Londra ebbe un
successo enorme, prima che Pixoto togliesse la pellicola dalla circolazione
frustrato per la pessima accoglienze delle sue opere successive, Onde a terra acaba e Maré Baixa, realizzate nel 1931, Mario
Peixoto abbandonò così definitivamente il cinema. E se non fosse stato per il
suo amico Saulo Pereira de Mello, che conservò premurosamente una copia
positiva di Limite, il film sarebbe
andato perduto per sempre. Restaurato una prima volta nel 1958 e una seconda
volta nel 1971, questa opera unica è stata riscoperta dagli storici e dai
critici di tutto il mondo e oggi permette di inserire il nome di Peixoto tra i
maestri latinoamericani del cinema mondiale.