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mercoledì 9 dicembre 2015

Emmanuel Levinas contro Emmanuelle Bercot. Mon Roi e quel che sta succedendo in Francia oggi dopo il trionfo del Front National




Roberto Silvestri

Dopo il successo parziale del Front National nelle elezioni regionali di Francia, e le copertine dei quotidiani e dei settimanali transalpine che raffiguravano la biondissima Madame Le Pen come una novella Giovanna d’Arco, soldato della cristianità in armi contro pagani, infedeli e eretici, ci si chiede, analizzando un film che è nei nostril cinema in questi giorni, Mon roi,  cosa c’è questa volta dietro una grande donna di destra, che senza il suo uomo dominante non è nulla. Certo. C’è un papà illustre, come mon roi, anche se è stato messo provvisoriamente da parte perché più impresentabile del boss Trump. C’è lo Spirito della Francia cattolica. Ma io credo che ci sia qualcosa di più. Non l’Europa, che è sostantivo femminile e che andrebbe messa in epoché, secondo la signora col tricolore sbandierato.
C’è l’Idealismo come inguaribile mon roi delle nostre destre, dai Salvini agli Orban. C’è l’Io. C’è il solipsismo che di tanto in tanto riemerge a cancellare ogni vizio cosmopolita. C’è l’incapacità di definire l’altro se non alieno, differenze e anche un po’ pericoloso.

Emmanuelle Bercot in Mon Roi di Maiwenn

Secondo il filosofo fenomenologo Emmanuel Levinas, le cui origini ebraiche certo, secondo i Le Pen, compromettono la sua francesità, scriveva che “l’Io non è né soggetto, né amore attraverso i quali tenderebbe all’essere. Il dialogo non riassume la società, perché non include il terzo. La condizione di un io nel mondo non si definisce né con la sua struttura di soggetto – che pensa il mondo come oggetto – né con la sua struttura d’essere che ama scegliendo un essere ma dimenticando gli altri. L’Io si definisce, a differenza che nell’Idealismo, con la giustizia. Il rapporto tra uomini non va da me a te, o da me al mio alter ego, ma passa attraverso gli altri, l’apparizione degli altri. Io=io dono agli altri”. Tradotto in politica non c’è sinistra senza donare agli altri. Lo ha fatto Roosevelt I e II. Kennedy e Obama. Tradotto in cinema è il grande insegnamento etico che, dalla costituzione Americana, quella che punta alla felicità di tutti, è diventata nel cinema l’individualismo democratico, da Frank Capra a Spielberg, Dante, Zemeckis e Landis. Un quartetto composto dai valori che guidano il comportamento non degli europei ma di tutto il mondo anti fascista. Libertà, eguaglianza, fraternità e giustizia. Invece il cinema francese degli ultimi anni sta emanando cattivo odore e pubblicizzando cattivi umori.
Prediamo Mon Roi.  
     
Louis Garrel in Mon Roi
"Tu, tu. Mio tetto, mio tutto, mio re" canta l'idolo pop uruguagio Elli Mederios in questo emblematico film dei nostril tempi. E’ nelle nostre sale, dopo la prima mondiale a Cannes e l’enigmatico trionfo in Costa Azzurra, il film-Eurocanzone Mon Roi, love story diretta da Maiwenn, genere sentimentale, quello che i registi e le registe transalpine sanno maneggiare con maggiore perizia e sfoggio di nuances - ma qui è più che altro idolatria da matrimonio che non ammette sfumature - e che ha permesso alla attrice e regista Emmanuelle Bercot (nonché collaboratrice alla sceneggiatura di Naiwenn in Polisse che fu a Cannes qualche anno fa e fu miracolosamente fu premiato) di aggiudicarsi ex aequo la Palma d’oro per per migliore sposina del festival.  Inspiegabile, anche se un riconoscimento ex aequo. Ma non va confuso (anche se i maligni lo hanno fatto) con il riconoscimento semiserio assegnato al cane di Le mille e una notte di Miguel Gomes, "miglior animale recitante" del festival.
Eppure Bercot, nel ruolo di una donna autodistruttiva, non smania forse a 360°, e con la gola e con la lingua, guaisce perfino, per essere o tornare ad essere "la più fedele adoratrice del maschio latino"?
Questi problemi d’identità sessuale, di riconquista del genere, più che una epidemia misteriosa da suicidio-omicida che colpisce i ventenni d’ambo i sessi, spiegano l’attrazione fatale di uomini molto barbuti verso il califfato molto fascista. E quella di donne inquiete in cerca di una collocazione più precisa, dentro un burka, e al fianco (e un po’ sotto) dei loro uomini tornati, grazie a dio, definitivamente machi padroni.
Mi sa che per la Bercot, in questa commedia deprimente serissima, "Je suis Charlie" vuol dire, approfittando del doppio senso in francese, "io seguo Charlie", vengo sempre dopo di lui... Se sono rotta dentro mi riaggiusto e ne riconquisterò la tenerezza che so nascondersi dentro la scorza del duro... Inquitante davvero se fosse così.
Il film (del genere rimatrimonio, ma per nulla screwball) è un inspiegabile duetto d'amore e odio, un'odissea di liberazione che dura estenuanti 2 ore e più, dopo una relazione decennale complicata da scenografie coi colori pop sparatissimi e oggettistica kitsch sbandierata ovunque, dentro e fuori gli interni domestici.
L'idea centrale è quella che il super macho smetta a un certo punto di esser solo attratto da donne-manichino, sempre tutte uguali e noiose. E a quel punto una donna che sa giocare di contro balzo e mettere nel sacco un paio di battute spiritose e inaspettate (aiutata da un fratello, Louis Garrel, per la prima volta davvero brillante, quasi lubitschiano) che riescano a sorprenderlo, a scoprirne le zone dark, intime e pornografiche del "sentimento", lo farà suo.
Non troppo originale, vero, questa apologia della donna con le palle che sa sottomettersi?


Così lei, Tony, in un night riadesca nel giorno giusto (letto sull'oroscopo?) un lui, Georgio, Vincent Cassel, che già l'aveva fulminata da studentessa-lavoratrice. Ora è un imprenditore farfallone di effimero successo (ristoratore) e, non lo manda a dire, da sempre un impenitente sciupa femmine. Ma la fa tanto ridere.  Tony e Georgio in effetti sembrano nomi scelti per rendere universale il film, e farlo piacere non solo fuori dalla Francia ma anche dalle coppie gay e lesbiche. Georgia on my mind.... Mon Roi Cassel (piacionissimo, che si compiace di farsi vedere, come al solito, dall'epoca di L'odio non riesce mai a portare se stesso in un viaggio schermico avventuroso e inquietante, fuori dall'ammirazione obbligatoria), il disinvoltone, miracolo, se la sposa. E prende tutti in contropiede. Poi il figlio. E le corna. Scandalo, urla, separazione. Forse un ritorno.. Più probabilmente un suicidio (di lei). Il pubblico dice: approfittane! scappa! scappa!


Il film inizia dalla fine, e poi fa un lungo flashback, con l'incidente di sci che rompe la gamba, malamente a Tony, ricoverata in un centro di riabilitazione dove la ritroveremo nel corso della storia tra le mani sapienti di un fisioterapista. Una paziente in via di guarigione, attorniata da una assistenza di lusso (congratulazioni per il ministero della sanità) e soprattutto da una rosa multiculturale e sorridente di riabilitati, che neanche Benetton.  
Cassel, Maiwenn e Bercot a Cannes 2015
La bionda Bercot, intimamente complice della regista, suo alter ego castano scuro, si è fatta confezionare una partitura rococò (merito anche di Etienne Comar) per sfogare narcisisticamente tutto il suo repertorio di smorfie, gesti di mano e sguardi ululanti, un po' come fa Mag Ryan o Camern Diaz quando producono un film con sé stesse super star.
Il suo personaggio si nasconde dietro il ben dire, ma non riesce mai a catturare una sonorità charming o la postura sexy e impudica di chi sa indagarsi dentro e rappresentare un orginale bersaglio del desiderio. Tony non è una donna problematica a tal punto da giustificare un approccio così  tecnicamente variegato e costantemente sopra le righe. E' una masochista moderata che ha perso la gioia di vivere, da quando il suo uomo, Giorgio l'ha abbandonata, facendole perdere l'equilibrio interno ed esterno. E soprattutto si è fatto pignorare maldestramente un mobile di famiglia a cui teneva profondamente.
Così assistiamo all'ascesa e alla caduta  e alla ricucitura di un personaggio senza essere mai "trascinati dal vento", senza esserne travolti. Piuttosto sfogliamo un saggio da scuola di recitazione. Bercot è manierata nel pianto, nel riso, nell'urlo di disperazione; se la cava così così nei litigi, nella seduzione, nell'amplesso, nell'amore filiale, sfuma lo sbigottimento, accentua la perplessità... come soltanto una professionista da sit-com sa fare, stile Giorgio Albertazzi nella parodia di Carmelo Bene.
Non è, purtroppo, un robot commuovente che cresce tra le mani del dottor Frankenstein. E' Bercot. Al naturale. Rappresenta solo i bordi estremi di un personaggio (non standogli mai "un po' accanto", secondo il saggio metodo brechtiano di Margherità Buy in Mia madre) memorizzato anche nei gesti più improvvisati, sempre conditi con tic e orpelli. Insomma passeggia sullo schermo come su un marciapiede. Diciamola tutta. E' tremendamente, oscenamente disinvolta. O è solo tutta colpa degli anti dolorifici? 


martedì 26 maggio 2015

Georgio on my mind. "Mon Roi". Perché non siamo d'accordo con il premio a Emmanuelle Bercot

Emmanuelle Bercot e Vincent Cassel  in "Mon Roi" di Maiwenn
Roberto Silvestri 

dopo Cannes

Per farla finita con Cannes 68, anno 2015, ritorniamo su alcuni film che non abbiamo avuto il tempo di recensire nei giorni del festival. O perché sono particolarmente brutti, come questo di cui scriviamo, o troppo complessi, ed è bene pensarci sopra più a lungo, o perché sono sfuggenti, come quell'oggetto d'arte formato da sole lamette da barba acuminate di La collezionista di Rohmer....Purtroppo per difficoltà indipendenti dalla nostra volontà non siamo riusciti a vedere né i due film diretti dai Garrel, figlio e nipote, Philippe e Louis,  né Desplechin, né Gaspar Noé, né Jaco van Dormael, e neanche il film colombiano che ha vinto la Camera d'or. L'irrazionale palinsesto di Cannes, abitualmente sadico con gli addetti ai lavori, quest'anno era particolarmente mal congegnato.

"Tu, tu. Mio tetto, mio tutto, mio re" canta l'idolo pop uruguagio Elli Mederios. Inizierei proprio dal film-Eurocanzone Mon Roi, love story di Maiwenn, il genere sentimentale è quello che i registi e le registe transalpine sanno maneggiare con maggiore perizia e sfoggio di nuances - ma qui è più che altro idolatria da matrimonio - e che ha permesso alla attrice e regista Emmanuelle Bercot (nonché collaboratrice alla sceneggiatura di Naiwenn in Polisse che fu a Cannes misteriosamente qualche anno fa e miracolosamente premiato) di aggiudicarsi ex aequo il premio per la migliore sposina del festival. Con Vincent Lindon miglior attore maschile (per il film politico di sinistra Le leggi del mercato) la Francia prende tutto e manda giù dal podio il cinema italiano anche nel genere d'impegno civile, suo ex cavallo di battaglia. La giuria ha giudicato evidentemente le sue allegorie fiacche, compiaciute e formaliste. Bisognerà tenere d'cchio questo Alain Attal, il produttore, che ha portato a Cannes anche Les Cowboys (alla Quinzaine)  perché cerca di mixare gusti popolari all'appoggio della critica meno autocritica, e ama gli indipendenti amati da France 2 Cinema che, cioé, sanno fare mercato. E' infatti vero che l'ispirazione sembra quella operaia di Una moglie di Cassavetes capovolta per renderla masticabile al grande pubblico. Ma si sente troppo la puzza del format. E se si mima la struttura del film-jazz è solo a quello da ascensore che ci si aggrappa.

La regista, sceneggiatrice e attrice Maiwenn
 

La palma d'oro a Bercot però resta inspiegabile, anche se ex aequo, ma non si deve assolutamente confonderla con il riconoscimento scherzoso assegnato al cane di Le mille e una notte di Miguel Gomes, "miglior animale recitante" del festival. Eppure Bercot, nel ruolo di una donna autodistruttiva, non smania forse per essere o tornare ad essere "la più fedele adoratrice del maschio latino". Mi sa che per lei "Je suis Charlie" vuol dire "io seguo Charlie", vengo sempre dopo di lui... Se sono rotta dentro mi riaggiusto e ne riconquisterò la tenerezza che so nascondersi dentro la scorza del duro... Inquitante davvero se fosse così.

Emmanuelle Bercot
Il film è un inspiegabile duetto d'amore e odio, un'odissea di liberazione di oltre 2 ore, dopo una relazione decennale complicata da scenografie coi colori pop sparatissimi e oggettistica kitsch sbandierata ovunque, dentro e fuori gli interni domestici. L'idea centrale è quella che il super macho smetta a un certo punto di esser solo attratto da donne-manichino, tutte uguali e noiose. E a quel punto una donna che sa giocare di contro balzo e mettere nel sacco un paio di battute spiritose e inaspettate (aiutata da un fratello, Louis Garrel, per la prima volta davvero brillante, quasi lubitschiano) che riescano a sorprenderlo, a scoprirne le zone dark, intime e pornografiche del "sentimento", lo farà suo. Non troppo originale, vero, questa apologia della donna con le palle che sa sottomettersi?

Così lei, Tony, in un night riadesca nel giorno giusto (letto sull'oroscopo?) un lui, Georgio, Vincent Cassel, che già l'aveva fulminata da studentessa-lavoratrice. Ora è un imprenditore farfallone di effimero successo (ristoratore) e, non lo manda a dire, da sempre un impenitente sciupa femmine. Ma la fa tanto ridere.  Tony e Georgio in effetti sembrano nomi scelti per rendere universale il film, e farlo piacere non solo fuori dalla Francia ma anche dalle coppie gay e lesbiche. Georgia on my mind.... Mon Roi Cassel (che si compiace di farsi vedere, come al solito, dall'epoca di L'odio non riesce mai a portare se stesso in un viaggio schermico avventuroso e inquietante, fuori dall'ammirazione obbligatoria), il disinvoltone, miracolo, se la sposa. E prende tutti in contropiede. Poi il figlio. E le corna. Scandalo, urla, separazione. Forse un ritorno.. Più probabilmente un suicidio (di lei). Il pubblico dice: scappa! scappa!

Il film inizia dalla fine, e poi fa un lungo flashback, con l'incidente di sci che le rompe la gamba, malamente. Fatto sta che Tony viene ricoverata in un centro di riabilitazione dove la ritroveremo nel corso della storia. Una paziente in via di guarigione, attorniata da una assistenza di lusso (congratulazioni per il ministero della sanità) e soprattutto da una rosa multiculturale e sorridente di riabilitati, che neanche Benetton.  

La bionda Bercot, intimamente complice della regista, suo alter ego castano scuro, si è fatta confezionare una partitura rococò (merito anche di Etienne Comar) per sfogare narcisisticamente tutto il suo repertorio di smorfie, gesti di mano e sguardi, un po' come fa Mag Ryan o Camern Diaz quando producono un film con loro stesse super star.
Il suo personaggio si nasconde dietro il ben dire, ma non riesce mai a catturare una sonorità charming o la postura sexy e impudica di chi sa indagarsi dentro e rappresentare un orginale bersaglio del desiderio. Tony non è una donna problematica a tal punto da giustificare un approccio così  tecnicamente variegato e costantemente sopra le righe. E' una masochista moderata che ha perso la gioia di vivere, da quando il suo uomo, Giorgio l'ha abbandonata, facendole perdere l'equilibrio interno ed esterno. E soprattutto si è fatto pignorare un mobile di famiglia a cui teneva profondamente.
Così assistiamo all'ascesa e alla caduta  e alla ricucitura di un personaggio senza essere mai "trascinati dal vento", senza esserne travolti. Piuttosto sfogliamo un saggio da scuola di recitazione. Bercot è manierata nel pianto, nel riso, nell'urlo di disperazione; se la cava così così nei litigi, nella seduzione, nell'amplesso, nell'amore filiale, sfuma lo sbigottimento, accentua la perplessità... come soltanto una professionista da sit-com sa fare, stile Giorgio Albertazzi nella parodia di Carmelo Bene.
Non è, purtroppo, un robot commuovente che cresce tra le mani del dottor Frankenstein. E' Bercot. Al naturale. Rappresenta solo i bordi estremi di un personaggio (non standogli mai "un po' accanto", secondo il saggio metodo brechtiano di Margherità Buy in Mia maadre) memorizzato anche nei gesti più improvvisati, sempre conditi con tic e orpelli. Insomma passeggia sullo schermo come su un marciapiede. Diciamola tutta. E' tremendamente, oscenamente disinvolta. O è tutta colpa degli anti dolorifici? 

giovedì 14 maggio 2015

Il Racconto dei Racconti e A testa alta. Cannes, prima giornata

Apertura francese. Rod Paradot in La Tete Haute
di Roberto Silvestri


Cannes. Dal 1980 un film d'apertura mai così naif e istituzionalmente abietto (nel senso del cinema di stato eseguito alla lettera) come La Tete Haute. Neanche quel polpettone nazionalista di Fort Saganne, tanti anni fa. Con Gerard Depardieu legionario giovane, quello.  Interpretato proprio dall'attore preferito della regista di questo, con l'altra gloria nazionale e leggenda vivente, Catherine Deneuve, nel ruolo di un giudice minorile, sempre con quell'aria distratta, sufficiente, appagata compunta ed “eternamente giovanile. Non mi meraviglierebbe la presenza del ministro della giustizia all'anteprimna mondiale.
A testa alta, fuori competizione, è diretto anzi riportato all'ordine da una messa in scena squadrata dall'attrice-sceneggiatrice-regista, figlia di chirurgo e di psicologa, Emmanuelle Bercot (già semiresponsabile di quell'elogio lepenniano alle forze dell'ordine che era “Polisse”, 2011 di Maiwenn, di cui temiamo molto anche “Mon roi”, in gara a Cannes 68, con la Bercot protagonista assoluta). E comunque si avvale di due attor giovani, il biondo protagonista Malony (Rod Paradot) e la sua amata ragazzina skinhead Tess (Sara Forestier) che sarà bene tener d'occhio perché sembrano sarcasticamente distaccati dall'atmosfera nella quale sono costretti a muoversi come - si immagina – facciano gli strafattoni adolescenti di oggi. Cinici maleducati arroganti e indemoniati.
Rod Paradot e il suo giubbotto Los Angeles East Redskins (catena di ristoranti)
La polemica sotterranea del film è contro l'ispirazione giuridica imposta dai rooseveltiani nordamericani nel 1945 e nonostante tutte le sei sette riforme del settore postbelliche ancora valida, e che pretende rieducazione e non più severa punizione per i delinquenti (e non solo minorenni). I film americani ci dicono che negli Usa quella ispirazione giuridica è stata già tradita (anche in Vizio di forma ce ne siamo accorti, e si era attorno al 68). Cosa aspetta l'Europa a girare pagina e privatizzare le carceri minorili e trasformarle in ditta che ricicla i fusi di testa a pagamento ributtandoli sul mercato del lavoro perché siano sfruttati al 100%?
Rod Paradot e Benoit Magimel
Il nostro protagonista quindicenne-sedicenne guida senza patente e quasi non manda in paradiso il fratellino; si immagina che si faccia di tutto; distrugge macchine; ruba e rapina; lavora più che svogliatamente, altro che art.18; urla a perdifiato sempre; butta un tavolo contro la pancia di una donna incinta di 7 mesi; tenta di picchiare gli educatori (perfino il buon Benoit Magimel) appena possibile; evade dal correzionale più volte (e, non essendo né nero né maghrebino, non verrà rispedito mai in carcere)... Ma è buono dentro, perché invoca sempre, quando è alle strette, la mamma e considera l'aborto il peggiore dei crimini. Ci fossero più schiaffoni paterni in famiglia, e manette più strette, tutto sarebbe risolto, sembra suggerirci la regista. E magari aboliamo anche il divorzio che ha davvero distrutto nel profondo la sacra famiglia... Oltre al matrimonio gay (non mancano battute omofobe di Malony a questo proposito) e alla marjiuana come erba curativa.
Liberation definisce “A testa alta” un “film sociale sarkoziano”. Ed è un eufemismo. Si finge di far pubblicità al sistema giudiziario francese e agli sforzi immani e commuoventi di un magistrato (donna) e di un rieducatore dai femminei soprassalti emotivi (e dei carcerieri, mai così ridicolmente sensibili e comprensivi) per riportare, con faticosa abnegazione, ai sommi valori (la compostezza dei gesti, la paternità, l'ideologia del lavoro) un ragazzino francese di colore bianco (truccato e shakerato come fosse Brad Dourif da cucciolo), disadattato e nevrastenico, bisognoso piuttosto di una buona schiera di psicologi, perché a disagio perfino nella doom, X, no future e black block generation. Insomma. Una scarica di cattive vibrazioni adrenaliniche, addomesticate da uno sguardo paramilitare preoccupante, quello della regista sergente maggiore Bercot che pure ha come film preferito in assoluto Ordet di Dreyer, come droga d'affezione la cocaina (intervista a Le Journal des femmes, 19-9-2013) ed è laureata alla Femis. Cosa ribolle allora di malsano dentro la pancia della Francia?
Sara Forestier e Rod Paradot in A testa alta
L'edizione 68 (13-24 maggio) del più “grande festival del mondo” inizia così molto male, a parte il bel tempo. Alberto Barbera gode (ma intanto prende appunti). Sono stati visionati oltre 1500 di film per sceglierne una cinquantina da glorificare sulla Croisette, tra concorso Certain Regard e fuori gara. Ma già il film inaugurale (visto) e quello annunciato di chiusura, “La Glace et Le Ciel” di Luc Jacquet (virtualmente imposti da un grosso neo-sponsor, il primo perché ben rappresentativo della campagna “Women in motion”, il secondo perché ambientalisti si è anche se capitalisti) fanno capire che il Festival di Cannes sta cambiando pelle nel primo anno dell'era Pierre Lescure (il manager, ex creatore e boss di Canal Plus dal 1984, ora nuovo presidente al posto del critico di cinema Gilles Jacob).
Emmannuelle Bercot, profumo preferito? Muschio
Sono due opere impresentabili o evidenziate molto scorrettamente. Molta stampa e molti critici è sono stati respinti dal film in concorso dell'interessante regista giapponese Koreda, stipato in una saletta minuscola, alla Bazin, mentre nel grande cinema Debussy una sala vuota restava stupefatta e a capo chino di fronte a “A testa alta”. A meno di ritenere questo film una pre-apertura, ricorrendo al trucco della finta inaugurazione, me ne ricordo una con Greggio, che da qualche tempo accontenta, a Roma e a Venezia, i capricci dei partner privati che finanziano ormai tutte le manifestazione d'alto prestigio mercantil-culturale per oltre un terzo del budget. In questo caso la responsabilità è del conglomerato di generi di lusso e accessori Kering (la multinazionale francese di Francois-Henri Pinault, il marito di Selma Hayek, proprietaria dei marchi Bottega Veneta, Gucci, Yves Saint Laurent, Fnac...) e che affianca da quest'anno, con Mastercard, gli sponsor principali di Cannes 68, cioé Air France, Renault, Canal +, L'Oreal, Europcar e Chopard (che fa gioielli, di lusso ed è produttore, per il 40%, di un altro doc presente a Cannes, “La leggenda della Palma d'oro”, che magnifica la qualità dell'oro impiegato per la confezione dei premi, che proviene dalle miniere colombiane e si avvale della certificazione “miniere eque e sostenibili”).

Matteo Garrone sul set di Il racconto dei Racconti
In questo momento all'Hotel Majestic una nutrita schiera di attrici e dive (anche la nostra Jasmine Trinca, la produttrice Sylvie Pialat, Isabella Rossellini) sta lanciando il programma “Women in Motion”, per la valorizzazione del ruolo delle donne nell'industria Naomi Kawase. Di tutto si può però rimproverare Cannes tranne che di insensibilità rispetto all'importanza delle donne nel cinema contemporaneo. In giuria ci sono 5 uomini e 4 donne. E poi ne sanno qualcosa Jane Campion, Alice Rorhwacher e Naomi Kawase. O le due cineaste in gara in questa edizione, Valerie Donzelli e la famigerata Maiween... Madrina della manifestazione femminista è comunque proprio Selma Hayek che giganteggia anche nel cast del primo film italiano, ma in lingua inglese - ormai diventato l'esperanto del cinema visto che è utilizzato anche da Sorrentino, dal messicano Michael Franco, dal norvegese Joachim Trier, dal greco Yorgos Lanthimos, dal quebequoise Denis Villeneuve - presentato in concorso, Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, trasposizione di tre delle 50 fiabe, in napoletano del seicento (reso comprensibile per fortuna dall'inglese), di Giambattista Basile, Cunto de li Cunti, miniera letteraria datata 1636, per i successivi e geniali scrittori di racconti fantastici, dai Grimm a Perrault e ad Hans Christian Andersen.

Il racconto dei racconti di Matteo Garrone
Il regista romano è ormai un beniamino, pluripremiato, della Croisette e certamente non si è avvalso della raccomandazione di ferro di Pinault per essere selezionato da Fremaux. Era molto atteso anzi il suo cambio di marcia, di atmosfera, di stile, di costumi e di ispirazione, rispetto agli aspri e sconvolgenti affreschi sulla “grandezza” della malavita e sugli “orrori” dell'immaginario contemporanei, con non pochi tocchi misogini che inebriarono la “critica d'epoca Shreck”, la cultura alla moda, politicamente scorretta e inguaribilmente “cattivista”. Un film in costume. Un taglio fantasy. Un'opera a episodi come nell'epoca decameronistica anni 70. Pasquale Festa Campanile e Una Vergine per il Principe, anno 1965, è la citazione principale che cogliamo, anche in ricorrenza del cinquantenario. Con Cassel al posto di Gassman, Toby Jones invece di Buazzelli e Selma Hayek alias Virna Lisi. In più una spolveratina di mostriciattoli sparsi, provenienti dal magazzino horror-colto di Cronenberg, tipo “Il pasto nudo”. Non a caso il direttore della fotografia, capace di catturare da ogni paesaggio le tonalità pittoriche scelte dal regista, siano El Greco o Dante Gabriele Rossetti, Caravaggio o Arcimboldo, è Peter Sushitzky, artista delle luci di Cronenberg. La cosa serve anche a confondere , dati i riferimenti culturalmente sicuri, le necessarie incongruenze, ripetizioni, errori, disattenzioni, scene troppo prolungate o troppo ellittiche che una intelaiatura barocca esigono. E qui la citazione è per Sergio Corbucci fine carriera e per le sue imprecisioni geometriche di cinepresa, beccate come Trivia ingiustificabili, da un implacabile Marco Giusti (Il Patalogo).

Selma Hayek, crudele voglia di maternità
Scendono in campo questa volta, e il budget è così alto da coinvolgere nel progetto perfino Jeremy Thomas e riferimenti, da scompaginare, al classicismo horror di Mario Bava e Roger Corman, non sicari spietati, ragionieri del crimine, sadismo da sergenti maggiori, trafficanti di cocaina servili, prostitute nigeriane arrendevoli o schiavi docili di Canale 5, ma i loro archetipi millenari: re crudeli e goduriosi, donne che vogliono rimanere eternamente veline, fortezze sull'orlo del baratro, castelli da film commission, negromanti imprecisi, acrobati generosi, clown sfortunati, orchi indistruttibili, streghe involontarie e sortilegi inspiegabili.

Un grande regista del passato, Don Siegel, affermava che servono “tre soggetti di film per fare un buon film”, e qui sono necessarie almeno tre donne, una ragazzina che sogna l'amore perfetto, una donna che sogna un figlio che non potrebbe avere e una vecchia che sogna la giovinezza eterna, per realizzare un affresco sulla “donna moderna” passiva secondo Garrone, che comunque meglio perderla che trovarla. Women in Motion, anche qui. Ma chi le osserva, non è George Miller, ma è più che perplesso Pulci addomesticate e in metamorfosi mostruosa, donne che partoriscono “tutto e subito”, vecchie capaci di scorticarsi vive pur di imitare quelle pulci, arrampicatrici sociali opportuniste che pur di fare la loro ascesa sociale chiuderebbero un occhio davanti al fatto che chi sposa le ha precedentemente fatte scaraventare nel vuoto.

E' insomma colto anche qui quel “masochismo della sinistra” che manda ai pazzi non solo i politici ma anche gli artisti che hanno rispetto alla costruzione del piacere schermico una fretta sadica, una voglia di cambiamento che irride ad altre strategie di potere più consapevoli e rispettose della memoria (Mencken a questo proposito già fu usato, inascoltato, per dare una calmata a Reagan). Insomma se “metafora barocca” deve essere che sia davvero bizzarra e stravagante, che prenda in contropiede, che spaventi e che terrorizzi, che sia di cattivo gusto, che abbia il primo piano. Barocco è parola che deriva dal portoghese, ed esattamente da “barroco”, che significa perla irregolare. Invece il film è equilibrato, classico e regolare. Non uno “sformatino” a volta acido e indigesto come negli horror comici di Bava e Corman. Sfiorati solamente nelle citazioni.
Vincent Cassel in Il raconto dei racconti