Laura Dern e Scarlett Johansson in Marriage Story di Noah Baunbach |
Roberto Silvestri
Dopo un terzo di festival,
favorito da un inusuale grande caldo e da un clima festoso e
rilassato, e una volta reso omaggio a Pedro Almodovar colonna culturale e pansessuale della nostra Nuova Europa, e premiato oggi per
la carriera, abbiamo appuntato, tra i film da consigliare agli amici,
prima di tutto un frammento. Il monologo da premio (applausi a scena
aperta) di Laura Dern in Marriage Story di Noah Baumbach,
commedia sul ri-divorzio, prima amichevole, poi tutto un duello
rusticano tra avvocati losangelini da far morire di invidia Woody
Allen per le sue punte comuco-tragiche, nel quale si sintetizzano in
due ore e poco più 135 episodi di una intera serie tv sulla guerra
tra la cultura viva di New York e quella “morta” e “materialista”
della California, e si permette a Adam Driver di esibirsi in un
booking mozzafiato, a tutto campo, tonalità medie, comiche,
tragiche, guittesche, melodrammatiche e canore, con Scarlett
Johansson che sa tenergli testa punto su punto, in questa acida
parodia di La La Land, con il
teatro d'avanguardia al posto del jazz da ascensore. Il
piccolo grande monologo di Laura Dern, avvocata “squalo” di
Scarlet, che entra nella testa dei suoi 'nemici da pelare', si
introduce nel loro pensieri più reconditi e nei loro piaceri
colpevoli più fino a estrarne la “scatola nera” capace di
vivisezionarne ogni sfumatura comportamentale, chiarisce bene quel
che è il nemico attuale del movimento “me too” e spiega perfino
ai sassi perché sull'affidamento dei figli alle madri piuttosto che
ai padri i tribunali per lo più non hanno dubbi. Altro caso di
affermative action. La donna deve dimostrare sempre di essere
perfetta. L'uomo mai. Donna=Madonna, secondo l'equazione mariana che
un brutto papa del Novecento regalò a Hitler e Mussolini per
degradare la donna a madre e moglie non tanto di un uomo quanto di
una idea, di uno spirito, di una “tradizione culturale”
superiore. Altro pezzo interssante il gioco utilizzato da James Gray
nella space opera Ad Astra per imbruttire Brad Pitt con la
complicità del produttore del film, Brad Pitt. Se non ci si
imbruttisce un po', vedi Charlize Theron, nessuna super star glamour
vincerà mai un premio Oscar. E qui ci si serve di tutto il materiale
utilizzabile, dalla teoria della Frontiera versione spaziale,
all'individualismo esasperato a Tommy Lee Jones anche lui
invecchiato, per impiastricciare di arty un film di fantascienza
pomposo, pretenzioso e noiosamente lineare. E passiamo ai film
interi.
Il restauro di Estasi
di Machaty, il film ceco del 1932, del nudo di Hedi Lamarr in campo
lungo, dell'orgasmo di Hedi Lamar in un primo piano sineddochico e di
una sequenza di inno al lavoro proletario che nemmeno nei film
stalinisti di quegli anni. In quietante. Ha fatto bene
l'attrice-.scienziata a fuggire dall'Europa nazistoide.
Poi Gli spaventapasseri
del grande cineasta tunisino Nouri Buzid, su una giovane
jihadista venduta allo stato islamico come schiava sessuale che fugge
dalla Siria ma subirà al ritorno in patria una triplice violenza da
parte della nuova Tunisia post Ben Alì che la mette al bando e la
vuole morta (nonostante la difesa di una avvocata combattiva) come
traditrice per gli islamisti di Ennadha, puttana per i democratici
conservatori (gli ex di Ben Alì travestiti), disonorata per la sua
famiglia patriarcale e “ambigua” per gran parte dell'opinione
pubblica, perfino di sinistra e anche gay. Un monumento al povero
italiano ignoto, non necessariamente milite, è il documentario sulla
storia bellica italiana, dalla caccia al brigante a piazzale Loreto,
basato su una ricca e splendidamente montata selezione di materiali
di repertorio e di canti popolari, Scherza con i fanti di
Gianfranco Pannone, con scene di cadaveri carbonizzati dai gas
italiani sul fronte etiopico che avrebbero fatto piangere Montanelli.
J'accuse di
Polanski, sul caso Dreyfus, che non a caso indaga sul 1894-95 come
anno cruciale per l'Europa e le sue radici culturali cristiane meno
nobili, perché, mentre si spartisce l'Africa aizza all'odio
antisemita come inevitabile necessità identitaria di chi senza
classifica generale razziale, non può commettere i suoi primi
abominevoli eccidi in nome di dio padre.
Citizen K di Alex
Gibney distrugge Putin ed è un bene, anche perché è un
supercapitalista russo Mikhail Khodorkovsky, molti anni imprigionato
in Siberia e attuale leader di “Oper Russia” e della dissidenza
tutta a raccontarcene le imprese, in un doc prodotto dalla Gran
Betannia da un documentarista statunitense. Infine Il sindaco del
rione sanità di Mario Martone, di cui parliamo qui sotto. I
cattivi vanno alla grande. E aspettiamo Joker che li
consacrerà. Intanto si capisce come mai il fumetto è al centro
dell'immaginario non solo hollywoodiano ma anche anti-hollywoodiano.
Da La véritè a Il 5 è un numero perfetto, all'abietto
Seberg
dell'australiano Benedict Andrews, a mal partito su argomenti con non
maneggia, che conferma la versione di Edgar J. Hoover, capo dell'FBI
sulla pericolosità esiziale del Black Panther Party, comunisti e
violenti, con un Bobby Seale mai sentito così volgare e avido, e
dove l'eroe che non è Huey Newton o Fred Hampton e neanche la divina
Jean (Kristen Stewart, perché lo hai fatto?) ma l'agente Fbi
pentito, ma in fondo buono perché fan di Captain America
e collezionista dei suoi numeri
storici. E poi se furono commesse ingiustizie, il corpo sano
dell'America le riconobbe subito e le sanò. Ah si? Insomma. Oggi c'è
un summit su fumetto e cinema, qui all'Excelsior. Non è un caso.
La grande tradizione del
fumetto americano, underground e commerciale, o meglio per dirla alla
Antonioni il “vizioso” Crumb e il “virtuoso” Marvel/DC, e di
quello francese da Metal Hurlant a Michel Vaillant di
Jean Graton, ha regalato negli ultimi anni sostanza
grafica e umori innovativi alle rispettive industrie
cinematografiche, che si sono divise negli ultimi decenni il business
(occidentale e non solo), sia bloockbuster che d'essai con opere
intelligenti e pop, ad alto quoziente comunicativo. Il mercato
francese, infatti, tiene ancora, nonostante la crisi della forma film
in sala. Nella prima metà del 2019 attraverso commedie e drammi di
qalità sempre più alta (senza tutelare i piccoli film di ricerca
mantiene il 39,3% del mercato cinematografico (contro il 48,1% degli
Usa) e riesce a finanziare la produzione nazionale audiovisiva
attraverso il prelievo del 10,7% sul costo del biglietto e cospicue
percentuali sui profitti di brodacaster, dvd e piattaforme streaming
e video di ogni tipo, Netlix, per esempio, portando annualmente ben
788 milioni di euro nelle case del Centro Nazionale Cinematografico.
Se Franceschini tornerà ministro cercherà di avvicinarsi a questo
modello, anche se a noi non è mai stato permesso di finanziare i
film erodendo profitti dal Re Leone e Avengers.
Comunque è stata una bella idea di Baratta & C. quella di
affidare al disegnatore Lorenzo Mattotti, uno del pool di “matite
pulite” anni 70, la sigla e il manifesto coloratissimi e
“narrativi” (un set, come l'incontro tra Jean Vigo, Fellini e
Disney) di Venezia 76. Come dire. Ripartiamo dagli illustratori della
controcultura a 360°, da Frigidaire a Diabolik, da Igort a
Fulci-Vivarelli, dalla grande stagione del cinema di genere che
conquistò il mondo (non solo gli “Europa di notte”, gli
horror-spaghetti, ma anche il cinema civile di Rosi, il grande
'documentarismo critico' e perfino dal produttore simbolo della
simbiosi tra creatività dionisiaca e apollinea, cioé Alberto
Grimaldi di Per qualche dollaro in più e Ultimo tango a
Parigi) per ripensare a ricostruire un'industria cinematografica
compatta, che era in prima fila, fino al 1977, e che da allora è
sprofondata. Non siamo più nemmeno un mercato appetibile. Eppure gli
scienziati dell'illusionismo reale sono nati qui, dal rinascimento in
poi. E così il simbolo del cinema, la prima Mostra d'Arte di
Venezia.
Alberto Barbera che nel
2020 chiuderà il suo ciclo di direzione (forse) ci ha suggerito come
leggere la bussola per addentrarci nella giungla immaginaria della
rassegna 2019. I migliori film del Lido sono “back to the future”,
guardano agli snodi cruciali della storia come un passato da
riesumare per capire meglio il presente e ipotizzare le forme di un
altro futuro possibile. Theodor Roosevelt e la dottrina sociale del
liberalismo alla fine dell'800, il caso Dreyfuss e le radici profonde
del razzismo europeo, lo sgretolamento del wahabismo, la teoria della
frontiera fin dentro la saga spaziale, le radici delle attuali lotte
a Hong Kong, il sistema dei conti offshore, l'ingresso nell'alta
finanza delle strutture mafiose, le riforme agrarie negate, i
dissidenti cubani, sono solo alcuni degli argomenti della
competizione di quest'anno. Seguiremo con maggiore attenzione quel
cinema che sa aggiungere all'indagine storica minuziosa e
dettagliata, basata sui fatti e non sul manicheismo cieco della
propaganda, una sostanza emotiva che altri arti non sanno cogliere
con la stessa forza. Il cinema infatti per la sua natura ibrida e
contaminante aderisce meglio a ciò che arte non è. Si annoia del
propria specialismo e penetra fluidamente nei territori del costume,
della politica, dello sport, della vita quotidiana, del gioco
d'azzardo, della sessualità e perfino del pettegolezzo. Oltre che
nei media immersivi (e qui alla realtà virtuale è dedicata da anni
una fertile sezione) che poi sono quelli che consumano più film ma
nelle maniere meno ortodosse e disintegrando lo spettacolo di massa
in sala buia. Il Leone di Venezia, macchia d'inchiostro fluido,
quella disegnata da Piergiorgio Maoloni, è rimasto così per decenni
il simbolo vitale della Mostra d'Arte da quando la rassegna, con Gian
Luigi Rondi, è tornata competitiva. E dunque si deve vincere quel
Leone con ogni mezzo necessario. E far parlare di sé anche
indipendentemente dai film che sono gli addetti ai lavori studiano
amano e odiano con passione e che i mass media prediligono (il caso
Polanski, perennemtne riaperto da 50 anni, per esempio). In un luogo
come il Lido che non è ancora adeguato all'entusiasmo di cinefili,
fan e studenti che affollano le sale.
La vérité di
Kore-eda Hirokazu
Il
libro di memorie di Fabienne, star del cinema francese (Chaterine
Deneuve), un best seller che ha venduto 50 mila copie, scatena
conflitti familiari imprevisti nella villa dell'attrice e sul set di
un ridicolo film commerciale di fantascienza (di imitazione
americana, anzi sembra Interstellar)
che Fabienne sta interpretando. La figlia sceneggiatrice Lumir
(Juliette Binoche), rientrata da New York con il marito attore tv e
la vispa figlioletta per festeggiare l'evento, e il segretario di una
vita della diva, che assomiglia tanto a John Gielgud, polemizzano
duramente e diversamente con la donna che ha raccontato
nell'autobiografia molte menzogne, tralasciando errori e aspetti
dolorosi, cancellando personaggi chiave e gelosie inconfessabili.
Perfino la bimba entra in campo, recitando battute scritta dalla
mamma e innomandosi di una grossa tartaruga nel giardino della villa,
vicino alla prigione... Perché? Perché per un artista il miglior
modo per arrivare al cuore delle cose, alla realtà, è saper fare un
bel cocktail a base di verità crudeli e bugie a fin di bene, le
scale a chiocciola della vita che vanno giù verso l'inconscio e su
verso il rispetto e l'amore.
Il
bel cinema insegna questo alla vita? Mah. Molti grandi registi
giapponesi, statunitensi e iraniani, da qualche anno, sono attirati
dalla Francia (e dai suoi generosi finanziamenti) per rendere omaggio
non solo alla nouvelle vague e a quel certo stile libero di fraseggio
e recitazione che ha contaminato il globo ma anche alla specialità
della casa, la commedia familiar-sentimentale, arguta e di piccante
umorismo, che adora vivisezionare le emozioni più profonde e
penetrare nei pensieri più reconditi di madre e figlia, moglie e
marito, nonna e nipote, suocera e genero, divorziata ed ex marito....
Affascinante dunque poteva essere l'incontro, attraverso un copione
che mescola Eva contro Eva,
Viale del tramonto e
la storia di Francoise Dorleac che della Deneuve è stata la sorella,
morta giovanissima, tra
un regista che alla famiglia borghse ha dedicato tutta la sua vita,
Kore-eda, smascherandone meschinità e mostruosità, per la prima
volta al lavoro in Francia con un cast, una troupe e delle voci quasi
interamente francesi e a timbri davvero differenti e la coppia di
attrici che di questo cinema sono il simbolo, da Truffaut a Carax,
più ancora di BB. Non mancano i momenti esilaranti e ironie più
grossolane e scontate riguardo a Hollywood (rappresentata da Ethan
Hawke nel ruolo del marito attore di Binoche), senza le quali niente
finanziamenti.
Francesco Di leva (a destra) e Massimiliano Gallo in "Il sindaco del rione Sanità" di Mario Martone |
Il Sindaco del Rione
Sanità di Mario Martone
Saper distinguere i
“criminali per bene” dai “criminali carogna” è una grande
arte. Di utilità quotidiana. Quasi come inventare una carrellata
sublime invece di tracciarne una abietta. Rispettare un primo piano
invece di sbatterci dentro il “mostro”, liquefare un volto
negandogli il fuoco o renderlo grottesco con l'uso del grandangolo.
Chi osserva male pensa male, parafrasando Nanni Moretti. Sul filo di
questa difficilissima, doppia camminata etica si esibisce Mario
Martone con i suoi attori nel film in concorso finora più
impressionante del concorso veneziano, Il Sindaco del Rione
Sanità, probabilmente il
culmine di una appassionante e ormai lunga ricerca drammaturgica e
performativa, mai ortodossa e sempre collettiva. Dopo averlo messo in
scena per il teatro (come nel caso del suo Leopardi) Martone
riscrive un classico del teatro
di Eduardo, restituendo intanto al testo, con alcune interessanti
deviazioni, quella sostanza conoscitiva implicita all'epoca (di
camorra si trattava, ma non si poteva certo esplicitarlo, la parola
“mafia” era proibita perfino in tv, negli anni 50) e collocandola
nella Napoli marginale di oggi, alle falde di un Vesuvio sempre più
basso nel profilo - s'è proprio dimezzato nel corso dei secoli - ma
non meno, sotterraneamente, minaccioso.
Il
boss Antonio Barracano (un Francesco Di Leva di potenza e fascino
seduttivo nietzchiani) non è più il settantacinquelle uomo d'onore,
nato nell'ottocento, di moralità più consapevole e umorismo più
compassionevole di altri, e che ha saputo sfruttare meglio l'economia
sommersa e parallela della metropoli, pur tollerata e controllata dal
Potere, imponendosi come l'unico magistrato (e capo della
polizia-ombra) riconosciuto dal popolo ignorante, dai sottoproletari
più fragili e indifesi. E diventato ormai proprio come un monumento
della zona, come il cortile di un palazzo barocco dei Quartieri
Spagnoli, decadente, sublime e “senza aperture”. De Filippo
aggiungeva al personaggio una capacità non comune di comunicare
istantaneamente con il linguaggio non verbale, o un uso del corpo
come lettrismo vivente, che pochi - Carmelo Bene tra loro - sapevano
maneggiare con la stessa maestria per eseguire, e non esprimere, in
un decimo di secondo, una sentenza di morte o di assoluzione.
Barracano
è invece un giovane boss di oggi, altrettanto rispettato, ma
soprattutto temuto, perfino dai suoi feroci cani da guardia, che si è
costruito - con i proventi della coca, e non solo più delle
sigarette di contrabbando, del gioco d'azzardo clandestino e della
prostituzione- una villona strafottente, in zona vistosamente
proibita, super-protetto da guardie armate. Ovvio che ha bisogno di
un sistema lessicale e gestuale più rituale e contorto, eppure
d'efficacia identica per amministrare la pace sociale e attutire i
conflitti. Il dilemma che deve affrontare è: ha ragione il figlio di
un boss diseredato a uccidere il padre che lo ha cacciato di casa?
Rifiluccio Santanillo sembrerebbe avere torto, ma il fornaio Don
Antonio, il papà infame, non è proprio quel lavoratore onesto e
integerrimo che vuole apparire... Qui è la lezione anti recitativa e
anti rappresentativa di Straub e Huillet, la “cacofonia” di
tecniche interpretative differenti e non portate mai a omogenità
accademica di suono e gesto che viene come sciolta nell'acido per
tirare fuori dal respiro naturale dei corpi sigoli e dai ritmi motori
differenti degli attori, le indicazioni critiche su ciascun
personaggio. Grazie alla partecipazione di tutti i perfomer e di
Massimiliano Gallo (il nemico di Barracano) prima di tutti, si
ricompone come un puzzle collettivo quello che Eduardo riusciva a
sintetizzare in un corpo solo.
Proprio
come in Hotel Aramis (uscito
giorni fa nelle sale) poi, nella villa opera l'amico e consigliere di
Barracano, il medico che cura i malavitosi feriti, impossibilitati a
raggiungere gli ospedali. E un gigantesco Roberto De Francesco a
interpretarlo, con il suo stile “intensivo”, il suo lessico
ambiguo e colto, i suoi sguardi feroci e addolorati, che ci fanno
complici di chissà quali misteriose connotazioni emotive. E l'unico
attore che non faceva parte del cast teatrale originale di Martone ed
è probabilmente stato scelto per la sua presenza non indifferente,
anche se così misurata e “in levare”. Vorrebbe partire e
lasciare per sempre quel mondo, e questo suo deviare, aprire spazi,
“attaccare la profondità”, come si dice in gergo calcistico di
un attaccante che inventa sentieri invisibili ai difensori, intacca
progressivamente l'identità dell'amico, costretto a risolvere via
via i piccoli e gravi conflitti dell'ambiente, secondo una certa idea
di giustizia che lui e Martone costruiscono usando certi
avvicinamenti di macchina, gli sfocati, il raddoppiamento tramite
specchi o l'incarceramento tramite grate. Insomma con i mezzi che il
cinema ha a disposizione e il teatro no. Jonathan Demme in A
Master Builder da Ibsen aveva
raggiunto la stessa tensione da tragedia greca. E le variazioni del
finale rispetto al testo di De Filippo aumentano invece di attenuare
il clima tragico della piece. La lacerazione che non può più
rimarginarsi. Il detournement finale dell'etica camorrista.
Jean Dujardin e Louis Garrel in "J'accuse" di Roman Polanski |
J'accuse
di Roman Polanski
Nascondere
la propria altissima cultura visiva o regalarla a frammenti
impercettibili, i due Renoir, Seurat, Lautrec, Ford, Hawks,
Minnelli... in questo film che immobilizza il corpo ma fa giocare la
mente e che avrebbe commosso Rossellini per la sua appassionata
tensione didattica, dove si spiega che Zola è un grande italiano che
sapeva battere un altro tipo di calci di punizione, è la sorpresa
aurea di un Polanski maturo, mai domo e leggiadro che si dedica alle
pratiche stregonesche dei servizi segreti di uno stato democratico
(colonie a parte), analizzando i 12 anni del clamoroso “caso
Dreyfus”. Come si aizzano i linciaggi materiali e morali degli
innocenti. Lui ne sa qualcosa. Come Jean Seberg. E di come proprio la
cultura repubblicana, radicale e laica di metà Francia e di mezzo
mondo permise di combattere e vincere quella battaglia. Un alto
militare dell'esercito fu condannato alla degradazione e all'esilio,
alla fine del XIX secolo, ma innocente, per alto tradimento - avrebbe
consegnato documenti segreti al nemico tedesco - e utilizzato come
capro espiatorio, perché ebreo, dal governo conservatore e clericale
francese dell'epoca. Utilizzare la macchina dello stato, dalla stampa
ai tribunali, dagli attentati alle minacce, dai documenti falsi al
pedinamento 24 ore su 24, per aizzare alla caccia al nero, all'ebreo,
al clandestino, al rosso, al sindacato, alle Ong è il normale
funzionamento di uno stato che moltiplica le iniquità in nome degli
interessi nazionali presunti. Storia che conosciamo bene, da Valpreda
a Regeni. Ma Polanski aggiunge qualcosa di più succoso. Gli eroi del
film, chi combatte per la libertà di Dreyfus, sono altrettanto
razzisti, anti semiti, ufficiali dell'esercito e papaveri dei servizi
segreti come i loro nemici. Combattono esponendosi, andando in
carcere, ma lo fanno nascondendosi dietro i principi repubblicano
soprattutto per prendere il posto dei funzionari di destra e poi
applicare i loro stessi metodi. Certo che Dreyfus (un impeccabile
Louis Garrel, quasi irriconoscibile per cipiglio marziale) sarà,
alla fine dell'odissea tragica scagionato, liberato e promosso. Ma il
nuovo ministro Georges Picquart (Jean Dujardin, ambiguo come ogni spia di livello), un generale che si è molto esposto
per lui, quando si tratterà di riconoscergli il grado che gli spetta
di tenente colonnello dirà: no. Per antisemitismo. E il suo leader
politico, il capo del partito radicale Georges Clemenceau sarà pronto per
gli eccidi in massa di sindacalisti e socialisti. Da Dreyfus a Jaures. La
via per Vichy è aperta.