Mariuccia
Ciotta
La
La Land infuoca i social d'amore e d'odio e viaggia
trionfalmente verso l'Oscar (26 febbraio). L'abbaglio nostalgico
aveva già stregato la statuetta d'oro con The
Artist, e ora i francesi colpiranno ancora con il simulacro
di una Hollywood perduta (per loro).
Un
americano a Parigi o un francese a Hollywood? Damien
Chazelle, 31 anni, nato a Providence, Rhode Island, porta il cognome
del padre nato in Francia e studia cinema a Harward dove si insegna
Minnelli e il musical fiammeggiante degli anni 50 a giochi cromatici
perfetti (Oscar a John Alton), con Gene Kelly che piroetta avvinto a
Leslie Caron mentre le fontane zampillano luci e la Senna è un
tappeto di acqua ricostruito in Studio.
Los
Angeles vista dall'università di Boston ha gli stessi cieli dipinti,
panorami vertiginosi dall'alto di Muholland Drive e tramonti rossi
sul Sunset Boulevard. In questo cinema “amatoriale” si sente il
profumo delle origini, il silent-movie che piaceva a un altro
temibile e premiato regista francese, Michel Hazanavocius di The
Artist, tanto che Chazelle usa il mascherino di Méliès per
inquadrare Ryan Gosling e Emma Stone in La La Land (visto a Venezia).
Valanga
di sovrimpressioni con il musical dalle origini a oggi, mappa delle
star per turisti cinephiles e un po' jezzofili, così amabile e
nostalgico da valere un Oscar, anzi 14. Fotografia che gioca ai
colori incrociati di Linus Sandgren. Lui bianco lei nera, e viceversa
(come in Grease), lei calda di rosso, lui azzurro cool, e
viceversa... Ma nel dittico Jacques Demy i colori pastello danzavano
liberi, qui le macchie marroni del completo di Gosling imprigionano,
indicano, segnalano.
L'entusiasmo
di molti risente della passione per i principianti, prediletti anche
da Chazelle, il regista pluripremiato per Whiplash, storia di
un giovane batterista ginnasta e militarizzato, qui sostituito da un
ambizioso pianista jazz, Sebastian (Gosling), quasi un
fondamentalista monkiano, e da un'aspirante attrice del jet set, Mia
(Stone).
Il
film inizia su una freeway di Los Angeles con un numero di ballo
collettivo irrealistico e vitalistico che si rifà ai numeri
acrobatici all'aperto, al contagio della joie de vivre di Cantando
sotto la pioggia e prima ancora del Mamoulian di Amami
stanotte, ma finisce come uno spot pubblicitario della CocaCola
con l'orchestrina dixieland in agguato dentro un furgone.
Chazelle
sforna cartoline d'epoca – abiti e decappottabili sono vintage –
da ogni angolo della città e del cinema, l'Osservatorio di Griffith
Park, per esempio, dove Nicholas Ray inquadrò James Dean e Nathalie
Wood. Ambienta negli Studios Warner, là sotto la finestra di
Casablanca, e attenzione al finale strappalacrime.
In
La La Land (La sta per Ellei, e il titolo è una cantilena-presa
in giro della città degli angeli) si sente il rumore farraginoso
della macchina da presa che tenta invano la ginnastica ritmica di
Stanley Donen e incolla performance romantiche su paesaggi
cine-leggendari, tipo l'ex locale dei divi, Musso & Frank,
sull'Hollywood Boulevard, tutto legno e poltroncine.
I
due cantano e ballano, anche loro principianti, senza rompere il
tessuto narrativo, one show man e woman, assenti le geometrie corali
del musical, assente la jam sassion contagiosa e collettiva
dell'amato jazz. Gosling pensa al suo locale e alla sua musica e
quando si esibisce in una grande orchestra di jazz rock eretico è
solo per denaro. E' l'individuo che deve farcela, proprio come il
ragazzino di Whiplash dalle mani sanguinanti. Ma musical e
jazz richiedono caos multipli e melodie asincroniche e non l'assolo
che porterà la coppia a dividersi. Una miete successi sotto la tour
Eiffel, l'altro strimpella il piano in solitudine nel club tutto per
lui.
Un
rapido resumé finale ci dice come sarebbe stata felice la vita di
Mia e di Sebastian se a dirigerli fosse stato un regista che non
considera il cinema un gesto atletico né una marea di citazioni
irriverenti... non si esce dalla sala dove proiettano Gioventù
bruciata, anche se a bruciare è (digitalmente) un fotogramma.
Il
mondo posticcio di Chazelle, però, piace per la sua innocente
visione del cinema, che fa brillare Los Angeles e Hollywood di una
luce ancor più sinistra del Maps to the Stars di Cronenberg.
E in quanto ex jazzista fallito (“perciò sono passato al cinema”),
il regista si prende la rivincita e spara il suo jazz light,
ammiccante, melodico e canzonettistisco, come il suo cinema. Niente a
che fare con il pluri-evocato, dannato Thelonious Monk.