Salmo rosso di Miklos Jancso |
di Roberto Silvestri
"Non c'è oggi niente di nuovo per quanto riguarda la forma, che è l'unica cosa che conta" (Miklos Jancsco)
Allegro barbaro (1979) |
E’ morto un mito del cinema moderno, della controcultura e della rivoluzione sessuale interrotta, il regista
ungherese Miklos Jancso. L’autore di film celebri sulla storia magiara e sulla
microfisica del potere, come ‘L’Armata a cavallo’, ‘Scirocco d’inverno’ e
‘Agnus dei’, è stato lo scopritore del ‘piano sequenza’ che ha arricchito
l’esperienza schermica e dinamizzato i movimenti e il gioco ricettivo. In
Italia per molti anni ha girato “La Pacifista” con Monica Vitti, "Vizi privati e pubbliche virtù" e “Roma rivuole
Cesare”
Venti lucenti (Confrontation, 1969) |
Beniamino Placido con l’aria
da vecchio saggio, scherzando, sentenziò, dopo aver contemplato, alla Mostra di
Venezia, un lungo poema epico in cinemascope di Miklos Jancso - eravamo
all’inizio degli anni 70 - “bisognerebbe proibirlo per legge il piano
sequenza!”.
Una battuta geniale, perché
colpiva al cuore il segreto del cinema di Jancso. Ma anche un pizzico
conservatrice. Placido adorava il classicismo rooseveltiano… Chi invece non ama
Jancso non ama nessun tipo di cinema. E’, direbbe Godard, “un ultrà del
visuale”. Cioè della visione come parola d’ordine da lanciare o da subire.
Propaganda. La tv ne fa spesso un brutto uso.
I disperati di Sandor (1969) |
L’immagine invece è …l’invito
a un viaggio interiore, ludico e iniziatico. E proprio la forza visuale delle
immagini, quasi scolpite nel nitrato argento, l’impressionante controllo dei
movimenti di macchina e uno sguardo fisso alle radici della propria terra, alla
pustza magiara, a un passato senza rigenerare il quale nulla si può
dire del presente, e figuriamoci del futuro ("per il futuro prevedo la terza guerra mondiale, non credo che si possa evitare"), sono le caratteristiche del cinema
di perpetua indagine di Miklos Jancso, il cineasta ungherese più celebre del
secondo dopoguerra (assieme alla ex moglie Marta Meszaros) che ha sviluppato in
modo originale tutte le potenzialità filosofiche, coreografiche e meccaniche
del piano sequenza. Non fu certo un vizio ‘formalista’, come gli rimproveravano
i funzionari del partito. Anzi Adrzej Waida analizzando una sua celebre sequenza (un uomo, anzi una canna di fucile, mira a un altro uomo che fugge lontanissimo, lo colpisce, ma non si vede il viso del moribondo, commenta: "guardiamo questo film con tristezza perché per un attimo Jancso ha fatto di noi un Dio impietoso e colpevole". E si dichiara avvinto per sempre ai suoi personaggi che non parlano quasi mai, ai grande spazi aperti, che collegano un film all'altro. Anzi decise anche lui di diventare, da allora, un cineasta "che ha il diritto e il dovere di parlare a nome del suo popolo".
Salmo rosso (1972) |
Jancso è morto oggi, a 93 anni. E negli ultimi tempi
l’Ungheria post comunista aveva cominciato a amarlo e rispettarlo. Soprattutto
dopo il 1999 e il successo di The Lord’s
Lantern in Budapest. Simpatizzante del partito Alleanza dei democratici
liberi (Szdsz), di tendenza liberale e radicale, si è battuto per la
legalizzazione delle droghe leggere. Fu Leone d’oro alla carriera nel 1990 e vinse
la Palma d’oro per la migliore regia con Salmo
rosso nel1971. Ma alzi la mano il
ventenne-trentenne che ha visto un suo film… Se il servizio pubblico non mostra
i classici nell’ora di maggiore ascolto, che servizio pubblico è?
Lunga la sua carriera di sceneggiatore e regista, iniziata con gli studi in legge in Romania (sua mamma era romena) e poi alla scuola di cinema di Budapest. Dopo una serie di documentari tv e cortometraggi, dal 1951, il successo internazionale nel 1965 con il lungometraggio Sono venuto così da un copione di Gyula Hernadi (che sarà sua fedele collaboratrice fino al 2005), a cui sono seguiti isuoi famosi musical politici obliqui in piano sequenza: Scirocco d'inverno (1969, su Horty e il fascismo croato, in 80 minuti solo 12 sequenze) e Elettra, 1974, 12 piani sequenza in 70 minuti.
Elektra amore mio (1974) |
La sua attività, intervallata
da un lungo soggiorno da quasi esule all’estero (soprattutto in Italia) è stata
intensa e combattiva fino alla fine dei suoi giorni. L’ultimo suo film è un
episodio nell’opera collettiva, dall’emblematico titolo di Magyarorszag 2011 (Ungheria, 2012).
Elettra amore mio |
La Storia, in quei suoi film
più pregiati e rivoluzionari, mai manichei, e uno diverso dall’altro, al di là
dello stereotipo (Il rosso e il bianco ’67; Scirocco
d’inverno ’69; Salmo rosso,’71; Agnus dei, '71; L’armata a cavallo, 67…),
girati sul tempo dell’ ‘andante maestoso’,
veniva spogliata, resa scheletro, restituita alla Storia e alle sue
ombre, senza la deviante presenza delle Grandi personalità, degli eroi che
cancellano chiarosuri e sfumature, fingendo di risucchiarle tutte, della piatta
cronologia, degli apici delle battaglie.
Elettra amore mio |
Era il risultato alchemico,
questa densa storia patria (e non) dei lenti movimenti corali nel paesaggio,
dei lunghi dialoghi nelle stalle, delle interferenze bandistiche o di canti e
danze popolari improvvise in un bosco, in una pianura ondulata o in una
stazione (la musica era sempre rigorosamente diegetica nelle sue opere, cioè mai una colonna sonora esterna
all’azione, e molto prima di Lars von Trier), con un treno e dei passeggeri
inquadrati come in una sequenza fissa dei fratelli Lumière. In una intervista dei primi anni ottanta a Silvana Silvestri Jancso affermava: "Negli anni 60 il cinema in un certo senso era tornato alle origini, a parlare per immagini. Era legato all'idea che il mondo potesse cambiare. Ora la speranza è finita e si ricomincia.Ma da noi non c'è più immaginazione, c'è racconto"...
Jancso sul set, senza sigaro toscano e senza il tipico bicchiere di vino rosso |
E la storia (il quattrocento
ungherese e i suoi tiranni; la guerra antinazista; la rivoluzioni ungheresi del 1848 e del 1919; la guerra tra i rossi e i bianchi dopo l’ottobre; gli anarchici
croati e l’attentato a re Giorgio di Jugoslavia del 1930, gli ustascia…) veniva raccontata, in opere antieroiche di
ribellioni e repressioni, tradimenti e coraggio come I disperati di Sandor (1966), Silenzio
e grido (1968), Venti lucenti (1969), Rapsodia ungherese (1978), , Allegro barbaro (1979), Il
cuore del tiranno (1981), con Ninetto Davoli buffone di corte di un despota del 400, La
stagione dei mostri (1987), senza
trucco, depurata da ogni effetto suggestivo e ipnotico sul ‘pubblico’, senza finish avventuroso o
dolcificante sentimentale, senza superstar, senza ricatto populista, senza racconto scandito a ritornello, quasi senza dialoghi, senza
happy end posticcio, ridotta ai nodi concettuali, agli enigmi morali,
all’analisi della microfisica del potere e del dominio, alle divisioni di
classe mai rimosse, allo straniamento brechtiano - che obbliga lo spettatore a
prendere una posizione e lo rende nemico giurato del suo vicino -, alla
tipizzazione profonda, al realismo, non solo critico, lukacsiano ma anche criptico,
kafkiano. E poi attenzione: "l'avvenire non arriva mai dal cinema. Il cinema è uno specchio in ritardo".
Il bianco e il rosso (1967) |
Notte e nebbia del Giappone di Nagisa Oshima (1960), manifesto di un’altra ‘nuova
onda’, aveva già usato quel metodo per
scavare ben dentro le radici di una sinistra nipponica votata al suicidio ed
era stata una illuminazione estetica, dunque politica, folgorante. Il cinema moderno non solo inquadra il
pensiero, ma anche il pensiero in azione, in lotta, in lotta di classe, in
lotta futura. E’ praxis. Uno deve scegliere da che parte stare. E nelle immagini di Jancso, in quella sua speciale 'atmosfera dei contrasti', è piuttosto difficile stabilire dove collocarsi. Come in quelle del suo maestro riconosciuto, Michelangelo Antonioni, 'il mio stile è una derivazione dell'invenzione di Antonioni", ci teneva a precisare.
Era consapevole però,
Beniamino Placido, che il metodo Jancso,
come quello di tutti i registi che amava di più (Don Siegel o Luis Bunuel),
stava spacciando immaginario libertario, sovversivo, dagli effetti vertiginosi
perché incensurabile. Insomma era pericolosissimo, inquietante, troppo
avanzato.
E con La pacifista (con Monica
Vitti e Pierre Clementi), 1970, e con Vizi privati e pubbliche virtù (1976,
con Laura Betti e Ilona Staller) quel metodo lo avrebbe applicato anche a un saggio
sull’Italia dell’insurrezione sfiorata che oggi ci restituisce molto meglio la
scultura interiore del paese - ancora fragile democraticamente, ma inossidabile
nella sua fosca rete di arbitrario dominio - di una intera annata di Correva l’anno a cura di Paolo Mieli. E
questo grazie anche all’intenso sodalizio con la cineasta Giovanna Gagliardo. E a una certa propensione per le temachice reichiane che condivideva con Dusan Makavejev e con gli azionisti austriaci.
La pacifista (1970) |
Gli stalinisti lo accusavano
anche di ‘nazionalismo’, per deviare le loro pulsioni sessuofobiche. Ma le sue figure nel paesaggio, spesso italiano,
francese, croato… sono state un contributo notevole alla tendenza, del tutto
cosmopolita, della ‘land art’.
Se il campo/controcampo
infatti imprigiona, ritaglia i corpi e li espelle dalla vita vera, il piano
sequenza restituisce l’atmosfera, il respiro, i movimenti ma lancia nel vuoto
la ricezione, che diventa incontrollabile. Bisognerebbe applicare le leggi speciali anche agli occhi…
Placido era un americanista
finissimo (in questi giorni, tra 12 anni
schiavo e The Butler, ma anche di
Lincoln e Django unchained in blue-ray, è indispensabile tornare al suo
saggio sui sudisti, Le due schiavitù) e non sopportava, giustamente, i ghirigori
estetizzanti di troppo cinema europeo ‘governativo’.
Le lezioni americane di Calvino gli avrebbero dato ragione. E
soprattutto l’evoluzione del gioco
schermico che ci avrebbe portato di lì a poco alla poco jancsiana
(apparentemente) epoca dl videogame.
Vizi privati e pubbliche virtù |
Eppure, noi ci chiedevamo,
esisterà un altro modo di raccontare delle storie con le immagini, diversamente
swing, che rispetti la dignità e
l’originalità di ogni paese, anche piccolo e pesantemente condizionato come
l’Ungheria e la Grecia, visto che odiamo le superpotenze e siamo in piena
epoca, politica e culturale, di ricerca e di cambiamento, totally free?
Quei film magnifici, unici,
tesi, concentrati, saggistici, da oratorio sacro, mai spensierati anche se non
privi di umorismo sottile (a prova di burocrate o di militare) ci affascinavano
perché andavano oltre la sfuggente nozione di autore e esprimevano una
differente idea del cinema, piuttosto
che un’idea di cinema.
Inoltre, dopo Godard, Oshima
e Rossellini, attorniati come eravamo dalle rovine del manierismo in todd-ao,
della cosiddetta epoca cool, e dunque
della fine – lo diceva il botteghino di Cleopatra
- della rappresentazione
storico-spettacolare in costume, lussuosa, embedded
ai generi ferrei, e consolatoria -
la vita stessa doveva esplodere dalle immagini e tornare nelle strade in
rivolta - erano apparsi i giovani turchi
della New Hollywood, come Coppola e Scorsese che, freschi e di studi accademici
e di classici da riverire, anche extraoccidentali, invitavano alla
sperimentazione totale, compresa quella più dolorose, che noi, massenzienti di allora, chiamavamo
‘quaresimale’.
Eh, sì. … Tutte le regole
saltavano nei suoi film lunari. Le nostre abitudini di gioco spettatoriale.
Dov’era il buono? Dov’era il cattivo? Boh. Erano un attentato terroristico ai
limiti dell’attenzione umanamente consentiti in sala buia. Insomma. Immaginario
fuorilegge uscito dalla clandestinità solo dopo che la Grecia aveva chiuso il
capitolo colonnelli (nel caso di un altro adepto del piano sequenza, Anghelopulos)
e solo dopo che l’Ungheria aveva metabolizzato il tabù del ‘56 e della
rivoluzione più pericolosa della storia, perché più a sinistra ancora di quella
comunista.
Non c’era niente di hollywoodiano in quelle incursioni di
Jancso nel passato. Eppure il quoziente horror era alto. E anche quello
erotico. Infatti l’apparizione
sessantottina dei film, nelle sale d’essai, del cineasta ungherese ebbero lo
stesso effetto stordente e spaesante dei Wakamatsu e che hanno oggi quelli di
Bela Tarr o Pedro Costa. Non si era mai visto niente di simile. Non c’era un
prestito, un’imitazione, una citazione, una lezione
in quei film, pure così contigui per potenza e per gusto della deformazione
materica, a quelli coevi di Sam Peckinpah o Gyongyossy (come Pasque fiorite). Si assisteva a pezzi di storia direttamente rubati al tempo e
allo spazio, non allo studio o al set.
Non era tanto il realismo che incantava,
quanto la carrellata in avanti o indietro, l'ornato grafico alla Busby Berkeley. Quanto la
soluzione di quella idea del cinema
che è la distribuzione dei poteri non
dentro la storia che si racconta (come fa il cinema politico dozzinale) ma
tra ciò che è dentro e ciò che è fuori l’inquadratura. Tra ciò che è sotto (e
quanto sotto? Per esempio la linea dell’orizzonte dov’è in un film di John
Ford?) e quanto è sopra (quanta porzione di cielo pesa sulla terra in una sequenza di Straub-Huillet?) nell’immagine (mai giusto, giusto un'immagine).
Salmo rosso |
Jancso e la fantascienza |
Ed
ecco che quando ‘il metodo’ addita troppo alla scoperta teorica (nei ‘perfetti’
Armata a cavallo, Disperati di Sandor) la battuta di Placido diventa pregnante, ma
quando il metodo non cambia a livello di ripresa, uso degli attori,
sonorizzazione, sfruttamento dello spazio, i critici pigri direbbero ‘rigore’, eppure viene estremizzato e si rompe, come nel trotto il destriero, ecco Sirocco d’hiver (sugli
ustascia), che ha tredici piani sequenza che sono tredici film, tredici mondi, uno
diverso dall’altro. Niente accademia, niente ripetizioni, niente manierismi.
Niente perfezione. Anzi. Errori, imprecisioni, arbitrarietà, accordi, casaualità, alea regnano.
Marina Vlady a un certo punto si ferisce con il calcio del fucile sulla fronte,
ma non può interrompere il piano sequenze e soffre, e noi con lei… E’ una
mischia libera con e contro il proprio film. Siamo dentro un ‘film suspense’ a
più livello: narrativo, estetico e teorico. Perché non riusciamo mai a
rispondere alla domanda: quando finisce un piano sequenza? E la fine ci
sorprende sempre. Siamo in un mistero.
Marina Vlady |
Ecco perché la sua idea del cinema era la possibilità di
sfruttare uno spazio che non è supplementare a quello delle immagini, ma che ne
è un naturale complemento. Seguire i personaggi quando stanno fermi e fermarsi
quando si muovono. Questa è stata la scoperta di Jancso. Farli entrare e uscire
da ogni lato dell’inquadratura , inseguirli e sfuggirli, abbandonarli e
riprenderli. Finalmente lo schermo lungo, allora il cinemascope- panavision
oggi addirittura raddoppiato in altezza l’Imax,
grazie alle ricerche dello scienziato ottico Jancso sa come popolarsi e
ottimizzare al massimo se stesso.
Vi ricordate la battuta di Billy Wilder? “Il
cinemascope serve solo per inquadrare un serpente in tutta la sua lunghezza?”.
Oppure la seconda battuta che Billy Wilder ha dedicato ai dilettanti
dell’inquadratura originale, quella dall’alto in basso, cioè “dal punto di
vista dell’elettricista di studio”? Ebbene Jancso ha attraversato come in un
walking movie di oggi (che sono quei film silenziosi, operosi, inquadrati di nuca, che seguono deambulazioni concentrate ma non geometriche e che sono firmate da cineasti come l'argentino Lisandro Alonso, o il belga Bruno Dumont )
non i deserti, non la
pusza, non la pampa, ma l’inquadratura. E ci ha insegnato a farne nuove mappe
dell’immaginario.
I disperati di Sandor (1966) |
Un film del 1969 |
La scoperta di Miklos Jancso è
utilizzata ancora oggi nei film più tecnologici e fantascientifici, che sono i
più politici in senso formale, da Matrix
a Kill Bill vol 1 e 2 da Guerre stellari ai Tim Burton. Però, parola di Jancso, "Bazin ha detto giustamente che quando il costo del film si sarebbe abbassato e si sarebbero trovate camere leggere da utilizzare come macchine da scrivere, si sarebbe appreso un linguaggio comune. Oggi il linguaggio è già comune, i registi sanno tutto della tecnica. Qui i popoli non cercano niente, forse il terzo mondo...L'arte utilizza la tecnica ma la tecnica non serve a cambiare il mondo . Lo stato attuale del cinema è imparare la tecnica, giocare un poco. Questo non porta niente per l'avvenire. Forse sarebbe il caso di cambiare lavoro. Oggi i film non danno niente. Raccontano solo favole, anche belle".