venerdì 30 settembre 2022

"Ti mangio il cuore" di Pippo Mezzapesa. Il bidone come western puro

Roberto Silvestri
Condurre una vita con dignità non è facile. Impariamo qualcosa da Rosa di Fiore, tradire è eticamente più che corretto. Indigo Film che produce non voleva assolutamente (e giustamente) una replica di Gomorra (e simili) ormai gioiello alla moda cannibalizzato fino all’osso. Anche se il cognome del montatore semiesordiente, Vincenzo Soprano, parrebbe sospetto. Ma il suo lavoro free jazz basato sulla “fonologia della pausa” (come avrebbe detto Umberto Eco) e sul silenzio dello skratching, è mozzafiato. Da David di Donatello. Scrive con acutezza da Venezia il critico indiano Akash Deshpande: “Il modo in cui Soprano bilancia i silenzi con i raccapriccianti omicidi pieni di rabbia è geniale. L'intelligente mix di elementi della sceneggiatura rende il film costantemente coinvolgente e infinitamente avvincente. Cattura la tua totale attenzione. Anche i momenti di attesa destinati a concludersi con una nota tragica sono presentati con la necessaria suspense”.
Proprio come la fotografia dalle mille sfumature di grigio, di nero e di bianco di Michele D’Attanasio. Se le sue inquadrature suggestive e significative rendono il film un'esperienza cinematografica che vale la pena vivere su grande schermo cinematografico ricordiamoci che Mezzapesa non ci siede sopra soddisfatto. Ma crea un’inedita atmosfera mai calligrafica, anzi aniconica, nel senso che non si affida mai a repertori standard cui alludere (la scena d’amore bianco-su-bianco nella salina; le esecuzioni; i dibattito da circolo cittadino, la stessa processione e ‘fuga’…). Questo può generare noia, inquietudine. Inoltre. Ma. Attenzione alla personalità dei pantaloni scelti via via da Ursula Patzak (che rifanno la storia del cinema, da Germi a Russ Meyer) ai quali Theo Teardo dà sostanza sonora vibrante e obliqua.
Dunque bisognava far slittare sensazione, percezione, immaginazione, memoria dello spettatore fuori dalle icone ripetitive del thriller malavitoso nazionale, a sfondo neorealista. Il baricentro simbolico del film viene così consegnato interamente a Marilena (Elodie) che entra nella storia del cinema italiano con la grinta e la furia e gli occhi (truccati come nel cinema muto affinché ipnotizzi lo spettatore) di una Tura Satana. I suoi due antagonisti, Francesco Patané e Francesco Di Leva, sono pedine del suo romanzo di formazione, verso la libertà dell’amore (Andrea Malatesta la spinge naturalmente al doppio tradimento, di sangue e di talamo) e la libertà della ragione (quando capisce dai suoi falsi movimenti di far parte di un gioco doppiamente miserabile) e oltre: l’esodo, una seconda vita. Mezzapesa la tratta come Lev Kuleshov. Funziona.
Così Lidia Vitale e Tommaso Ragno, che sono membri della famiglia mafiosa, i Malatesta, ma più da Bob Wilson o Pina Bausch che da Sollima jr. E Nicola Davide, Mauro Lamanna o Kalysie Pagan, i loro rivali Camporeale, che si spingono verso la commedia stracult e l’ibridazione scandalosa. Il prete, Massimo Iannantuoni, poi, dimostra definitivamente che non esistono piccole parti ma solo piccoli attori che Maria Teresa Monco (casting director) sa come evitare. Qui introvabili. Lo spettatore italiano ne sarà molto disorientato se non disturbato. Proprio come in un western epico di William Wellman o di Glauber Rocha. Già. Siamo nel West mentale, senza legge e senza dio.
Lunga parentesi
Nel western classico nordamericano, alle scaturigini dello sviluppo capitalistico, antropofagico per definizione, sono tre le “famiglie”, da sfida all’Ok Corral, che si combattono cioè all’ultimo sangue per la supremazia nei nuovi territori: i piccoli coltivatori indipendenti e “democratici”, ma dall’estremismo puritano pericolosamente ambiguo; gli allevatori, ossessionati dai muri e dai fili spinati (L’uomo senza paura di King Vidor); gli speculatori terrieri “federalisti” e molto atei, collegati con i poteri forti ferroviari e bancari dell’Est. Edgar Allan Poe ne fa una perfida satira nel 1843 in Didling Considered as One of Exact Science cioè “La bidonata come scienza esatta”.
Quest’ultima famiglia, la più organizzata e famelica, e ben spalleggiata dall’esercito di Washington, sempre pronto a tenere a distanza i quarti incomodi alieni (nativi nervosi, francesi, sudisti impazziti, messicani, californios come Zorro, schiavi insorti…), completerà la “conquista wasp del West”. Secondo un’interpretazione della costituzione americana (sintomo della rivoluzione anti-inglese tradita o almeno incompiuta) che tende piuttosto (“In God We Trust” leggiamo sui dollari) all’eguaglianza e alla tutela religiosa dei grandi proprietari che non dei semplici cittadini. Dei redditi più che delle persone.
Il western del crepuscolo (Furia selvaggia di Arthur Penn, 1958; Solo sotto le stelle di David Miller, 1962…) che anticipa l’autocritica New Hollywood a proposito di ideologia della Frontiera, e del divorare i pesci piccoli come comandamento unico e obbligatorio, non a caso inizierà a raffreddare l’entusiasmante epopea progressista, utilizzando un bianco e nero più riflessivo e saggistico, visto che anche di genocidio si trattava. L’ultimo John Ford e l’ultimo Howard Hawks ci piacquero molto, ma erano “diversamente classici”, e furono accolti gelidamente da critica e pubblico, come fossero opere di registi pentiti. La semplificazione, di classe e di etnia, attuata invece dal western spaghetti italiano anni 60-70, gioconda e umoristica parodia di un complesso snodo storico-politico altrui, rende più gigantesca e cruciale la ferocia del conflitto, zoommata secondo una sensibilità sia terzomondista che Pop Art (almeno nei suoi esiti più alti, da Leone-Eastwood a Questi, da Lizzani a Sollima e Corbucci). Il contesto filologico importava molto poco ad Almeria (dove il nostro cinema era stato militarmente cacciato dall’occupazione Usa di Cinecittà) e non ricordo, infatti, un solo western spaghetti in bianco e nero.
Se non uno. L’improprio, obliquo, contadino, metaforico Fuoco! di Gian Vittorio Baldi, troppo sottovalutato film del 1968 - e che del 1968 è drammatica allegoria, visto che la rivolta sociale obbligatoria degraderà nella psicosi familiare e infine nella follia individuale - aperto dalla sequenza di una statua della Madonna in processione, devastata dalle fucilate. Adesso non si osa più sparare direttamente alla Madonna, ma, obliquamente, o di sponda. Ci pensa Pippo Mezzapesa a farlo. Sangue indiretto che ne imbratta la scultura. Sangue indiretto che ci ricorda famose e controverse stimmate, un’icona potente della zona scelta come set, il Gargano, nel foggiano, ma dell’est, del film Ti mangio il cuore….
E Padre Pio vuol dire per me soprattutto ristabilire una triangolazione: il millenarismo populista (“il santo di Pietralcina ha combattuto il male tutta la vita” secondo Papa Francesco, ma non secondo Papa Giovanni XXIII che lo trattò piuttosto da “bidonista”); lo strapotere capitalistico dei latifondisti pugliesi, appoggiati dai carabinieri di stato; infine i braccianti - oggi transnazionali - perennemente presi a fucilate. E poi i Di Vella e il Caradonna nonno, la legge privata nella zona imposta con le armi perché di appalto si vive nelle repubbliche imperfette…Come nei villaggi western. E infatti agli attori del film foggiano – terra della quarta mafia - è stato consigliato di vedere molti western.
Fine parentesi
Lì, in Fuoco!, la tragedia individuale che portava alla follia scaturiva dalla disoccupazione atavica, qui, in Ti mangio il cuore (che diventa nel titolo internazionale un più mélo Cuori ardenti) la follia collettiva è frutto dell’orgoglio e della gloria di due famiglie potenti e criminali che scatenano un gioco di vendetta ciclica e reciproca per imporre a pallettoni la propria supremazia. Più bestiame. Più estorsioni. Più taglieggiamenti. Più licenze balneari… Ma di droga e prostituzione e ludopatie si parla poco. L’umorismo feroce e macabro di questo copione di Mezzapesa (Antonella Gaeta e Davide Serino), già sbandierato nella saga del becchino Pinuccio Lovero, e del libro inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini (sulla vera storia di Rosa Di Fiore, prima pentita della mafia garganica …) non solo si dilunga sul matriarcato come macchina machista del potere (cinematograficamente non si può non pensare a James Cagnery di La furia umana o a De Niro e Bruce Dern di Il clan dei Barker, pupazzi nelle mani delle loro mamme Margaret Wycherly e Shirley Winters, disposte a tutte le peggiori aberrazione proprio come Lidia Vitale pur di trattenerli a sé, satellizzati) fa capire che, in questo paese di segreti e di “bidoni” di stato, bisogna tenere sempre ben presente il fuori campo. E’ lì che si manovra, astutamente, cinicamente e per il bene gattopardesco. Tutto deve cambiare per essere diversamente uguale.
Si macinano sentimenti coriacei: rispetto, coerenza, orgoglio, vendetta. Quelli che fanno vincere elezioni. Ma c’è ancora chi è capace di tirarsi fuori da un set mentale psicotico e di cambiare gioco. Bisognerà solo attuare piccoli gesti cannibalici, di cancellazione materialistica, di bontà non buonistica, secondo l’indicazione postsadica di Luca Guadagnino (Bones and All) o del suo maestro Naghisa Oshima L’impero dei sensi. Dove il cannibalismo è segno di una ingiustizia tangibile, di un disequilibrio fertile nel rapporto erotico, estremo come programma minimo. E di una serie di film che oggi andrebbero rivisti: Nobi di Kon Ichikawa (1959), sbranarsi per sopravvivenza e fino a I sopravvissuti delle Ande di René Cardona jr (1976); I giovani cannibali (1960) di Michael Anderson (1960),il divorarsi perbene. L’urlo di Tinto Brass (1968), mangiato vivo dalla censura. I cannibali di Liliana Cavani (1969), dove vince il divorarsi moderato. Duetto per cannibali di Susan Sontag (1969), racconta come i vecchi mangiano i giovani per draculismo congenito. Poi gli hippies di Week-end di Godard e Pierre Clementi di Porcile (meglio il sesso cannibale che quello zoofilo). In Macunaima, per tornare al cinema novo brasiliano e a Glauber Rocha, Joaquim Pedro de Andrade ne fa l’allegoria del tropicalismo e dell’antropofagia, cioè di quella forza ibrida e contaminativa che creò il nuovo uomo brasiliano, al di là del nero schiavo, dell’indio perseguitato e del portoghese povero e sfruttato (quello che fu sterminato dalla repubblica brasiniana appena nata perché diventato movimento millenarista ribelle). Ovviamente La notte dei morti viventi di George Romero (1969) che, e non solo per il bianco e nero della cupissima fotografia alla quale Michele D’Attanasio “ruba” quel senso d’orrore ancestrale. Ps. Se si parla di Michele Placido (qui perfetto) si racconta troppo la trama .... Le foto 8 e 9 sono tratte da Fuoco! di Gian Vittorio Baldi. Qui sotto il regista Pippo Mezzapesa

martedì 13 settembre 2022

Prénom Godard. Chi scriverà più le immagini ora che la "politica dell'autore" è morta?

Di Roberto Silvestri
Prima di lui si andava comodamente nel cinema sotto casa, soprattutto in famiglia. Da almeno tre decenni (1920-1950) la settima arte era regredita – più ancora in Europa che in America - a poco a poco a tempio del conformismo calligrafico, della narrazione compiaciuta di sé, della recitazione pompier e tossica, tra codici Hays e censure bigotte, in molti casi fasciste, terrorizzate dalle immagini. Ma dopo lo tsunami Godard, dopo la scomposizione che lui ha attuato, come un gioco contagiante, su tutti gli elementi del linguaggio visivo, sonoro, non verbale, gestuale, comportamentale, involontario, e della memoria combinatoria che attiva la ricezione (se era vietato fare un primo piano con un grandangolo ebbene lui lo faceva, se il montaggio deve essere invisibile ecco il jump cut continuo), andare al cinema è diventato certo un gran lavoro ma anche un vero piacere, un divertimento da parco giochi, un’avventura dell’occhio-mio-dio, un gesto chic e snob e sovversivo. Ti sentivi uscire dal tuo corpo, essere Belmondo e Karina allo stesso tempo. Solo contro il mondo. Estasi.
Avevi scoperto finalmente qualcosa che non avresti mai trovato nella letteratura, nella musica, nella pittura, nell’architettura. “La verità 24 fotogrammi al secondo”, parafrasando Cocteau (“il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo”) vuol dire poter cogliere le cose vere, cioè mutanti e conflittuali, che il visuale paralizza nell’ideologia, e “trasformare la notte in luce”, come scrive nel suo virtuale libretto rosso mai pubblicato, perché noi, fuori dalla sala buia, non vediamo di non vedere. Pochi registi erano riusciti prima di Godard a liberarsi dai lacci e legacci imposti dai produttori – e, ricordiamolo, un film è un rapporto a due: regista e produttore, e Godard preferiva Thalberg a von Stroheim - mandando segnali segreti a critici ribelli e spettatori perspicaci. Les années Cahiers lo vedono alla macchina da scrivere a liberare nelle sue recensioni le immagini vitali incastonate nei mélo di Sirk, nei thriller di Hitchcock, nelle tragedie femministe di Mizoguchi e nelle commedie di Tashlin e Blake Edwards.
Ecco perché Godard - e anche i suoi critofilm più incomprensibili, i suoi film-saggio più rivoluzionari e filosofici - piace nel subconscio a Hollywood. Ma quell’Oscar alla carriera lui l’ha rifiutato sdegnosamente, per non essere da meno di Marlon Brando (e per farsi premiare di più). Il suo decennale lavoro sulle unità spazio-temporali della sequenza ha vivisezionato funzioni e procedimenti di un film, e perennemente fatto rinascere il cinema, che se non sconvolge tutte le funzioni, logiche e emozionali, del nostro cervello, non c’è. Non esiste. E da neo-formalista (adorava Eisenstein e come era indignato con Kenneth Anger quando osò rimontare Que Viva Mexico) ha attivato in tutta la sua ultracentenaria opera sensazioni, intellezioni, immaginazioni e memoria, anche rianimando forme antiche e dimenticate: ecco “il bello”, che non è la copia di un modello, ma di un monello. Ecco la funzione estetica, attivare la costituzione d’oggetto e la formulazione di immagine. Abbassando il più possibile i costi di produzione. Lavorando sodo, come un falegname, un operaio. Senza guadagnare di più. Si tratta di psicosi egualitaria? No. Di come si intende democrazia. Lui la intende come Thoreau, Whitman e gli altri trascendentalisti americani dell’800 romantico e utopistico, pur con le sue origini calviniste, da dio cattivo che punisce, sono pochi i non peccatori. La intende come priorità delle persone e non dei proprietari. Prendiamo una sequenza western normale (non alla Monte Hellman, che adorava tanto quanto non sopportava Woody Allen). Arriva il cowboy a cavallo, attacca il cavallo alla sbarra entra nel saloon e la cinepresa lo segue. Ebbene Godard non lascia mai il cavallo. Resta con lui. Il cinema è atto, movimento, tragitto, mai personaggio….
Con Godard il cinema tornò quell’avventura sulfurea, delle origini, quel montaggio delle attrazioni da circo che trasforma le nostre parti basse in general intellect. Il teatro in documentario e viceversa. Strano che Guy Debord, criticandolo da sinistra lo definisse “il tipico cineasta borghese". Anche se si riferiva al Godard primo periodo, quello della modernità di fraseggio, della soggettività desiderante, dell’anarchia come programma minimo, quello che lo stesso Godard poi ha autocriticato reinventandosi – chi non ha vissuto quei momenti non riuscirà a comprendere l’ovvietà di quella decisione, tra stragi di stato e Vietnam, polizia assassina e mostri prepotenti al poyere ovunque - come militante rivoluzionario maoista, e assieme a Gorin fondando il gruppo Dziga Vertov per realizzare dal 1968 al 1974 non film politici ma film fatti politicamente, ovvero applicando correttamente la politica dell’autore (che non è come si crede erroneamente sovranità del regista, ma sovranità della politica, committente le masse). Godard "ha giusto delle idee di cinema, più che delle giuste", e senza indipendenza e piena libertà, dunque senza basso costo e senza il costante aggiornamento sulle tecnologie audio, suono, video e digitali da dominare teoricamente ("bisognerebbe pagare chi vede la tv, non chi la fa"; oppure "i telereporter sono criminali di guerra", infine "i bambini sono prigionieri politici") Godard non sarebbe un pedagogo, come Rossellini gli ha insegnato ad essere e Serge Daney (il critico francese "di fase" più stimolante alla fine del secolo scorso) ha confermato che fosse. Da Ici et Ailleurs, Numéro deux e Comment sa va in poi, insomma dal 1974, prima a Grenoble poi nel villaggio svizzero di Rolle, cantone di Vaud, Godard mette in scena solo "persone che si fanno la lezione". Il Godard di questa "parte seconda" è soprattutto quello elettronico, che lavora per le sue società "Sonimage" e poi "JLG Film", assieme alla fotografa, artista multimediale e cineasta e storica dell’arte Anne-Marie Miéville. Ha gelato l'amicizia con Francois Truffaut, ha avuto un orribile e traumatico incidente di moto (nel 1972, in piena militanza maoista, quando ha abbandonato la totalizzante "unità di produzione Dziga Vertov" e il suo alter ego Jean-Pierre Gorin, ma metterà alla prova il metodo marxista-leninista non solo rispetto alla lotta di classe in Occidente e nei paesi dell’Est Europa o alle insorgenze anticoloniali in Mozambico e in Palestina, ma alla costruzione di un’immagine, e alle questioni interiori e sotterranee del privato, alla crisi ambientale, all’uscita dall’antropocene. Insomma il suo è un surplus di cinema politico, mai riflusso. Solo Godard (e Straub e pochi altri) combatte, con raffinata tecnica pugilistica, contro la televisione e il visuale virale e brutto di certo cinema (a volte contro Spielberg e Bertolucci) e di certa televisione, ma sul loro stesso terreno, campo contro campo. Truffaut diceva che Godard "ha sempre pensato al di sopra dei propri mezzi", ma certo molta tv e molta Hollywood pensano ben "al di sotto dei loro mezzi"... Ponendosi, per esempio in Je vous salue, Marie, non problemi di verginità della Madonna, ma di purezza/sporcizia dell'immagine. Il critico Alberto Farassino, scomparso troppo presto, grande studioso di Godard a cui ha dedicato un fondamentale Castoro, ricorda nella versione ampliata del 1996 una sua frase bellissima: "Dato quel che è accaduto in Cile, il fascismo, Pinochet, la mia vita prende di conseguenza una direzione piuttosto che un'altra. Quando incontro qualcuno non mi interessa dirgli che il fascismo è buono o cattivo, o che Pinochet è un imbecille. Gli parlo di me e di lui".
“La macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente al confine tra il visibile della nostra vita quotidiana e l'invisibile di un aldilà inconoscibile”, insomma il cinema secondo Cocteau, diventa per Godard sempre qualcosa d’altro, di differente, di contraddittorio, il contrario di prima. E’ la sensibilità postmoderna, ovvero soggettività drastica coniugata a altissima etica politica che lo invita al nomadismo, alla deriva, al continuo cambio di set mentale. Ancora una volta. Il lago, le montagne, il cane, quei certi quadri adorati, quella letteratura amata (il buffone shakespeariano, l'idiota dostoievskiano...), diventeranno gli elementi visuali fissi e di suggestione da impasto, molto più importanti delle storie, sempre "da non raccontare", o della Storia, da non perdere mai di vista, o della storia del cinema, che andrebbe bruciata. Se i film sono merci bisognerebbe bruciarli. Ma con il "fuoco interiore". Perché l'arte nasce da ciò che brucia. Così Godard, l'artigiano, il grande parlatore seducente (assistere a una sua conferenza stampa era come entrare nello stand della donna barbuta) lavora molto negli anni 80 per la tv di stato, da cattivo allievo di Rossellini: ecco le videoconferenze, le lezioni sul centenario, gli spot, ma anche i remake, produttivi non iconografici, come Fino all'ultimo respiro. II Leone d'oro di Venezia con Passion (una magnifica giuria tutta nouvelle vague, scelta da Rondi, con Bertolucci e Oshima tra gli altri, non poteva non premiarlo) fece inorridire il critico del Corriere della sera che, coraggiosamente lo stroncò, a rischio di perdere la direzione del Centro Sperimentale di cinematografia che, lo dice la parola stessa, o è godardiano o non dovrebbe neppure esistere.
Negli ultimi anni ancora scandali, detour. Una torta in faccia a Cannes, l’invito recente a votare Le Pen, inorridito dalla fine del socialismo, capelli perennemente arruffati e Gitanes papier mais in bocca. Forse aveva ragione Debord. L’ultimo grande borghese è morto.

lunedì 12 settembre 2022

La Magica Roma dell’arte al potere. "Era Roma", il nuovo film di Mario Canale alle Giornate degli Autori di Venezia

di Roberto Silvestri
C’era una volta… Roma “centro del mondo”. Molti non ci crederanno oggi, ma tra il 1963 e il 1979 dopo Cristo lì avvennero incanti. Nel suo nuovo film Mario Canale, documentarista ex Il Male ed ex Potere Operaio, dall’emblematico titolo Era Roma, montaggio di un superbo materiale di repertorio, una cinquantina di sequenze da film underground rarissimi e film classici popolari, e interviste a una settantina di testimoni dell’epoca, si cerca di scoprire il mistero di quella estasiante e contagiante atmosfera. Effimera, anzi, secondo il noto aggettivo che scientificamente la definisce, sintesi neobarocca acutamente ripresa dall’assessore Renato Nicolini, per spiegare quell’ onda condivisa e aggregante, ma mutante e devastante, sempre imprevedibile e cangiante, costruttiva di pulsioni e desideri collettivi a venire. Bertolucci la definisce una “atmosfera entusiasmante che unì musica, cinema, politica e sesso in un'unica passione travolgente”. Una fioritura artistica, culturale e vitale inaspettata, un intreccio inaudito e indisciplinato ma fecondo di “nuovo” cinema, e teatro altro, televisione sperimentale, rock inaudito, letteratura selvaggia e cibernetica, “droga che dilata la coscienza”, danza e moda mozzafiato, pittura-non-pittura, sesso multiverso, musica post weberniana spinta, fotografia pre-punk, cucina post-antica (“anche la pasta e fagioli è poesia!” urla un dissidente a Castelporziano, assaltando il palco dei performer lirici – tutti “atroci” tranne Ginsberg e Evtushenko - che crollerà, nei ricordi di un allibito e divertito Carlo Verdone) … causato da una pluralità di circostanze e che ha improvvisamente “messo caos nell’ordine di un mercato dei consumi culturali e dei comportamenti consentiti troppo disciplinato e che funzionava a compartimenti stagno”.
Silvano Agosti ricorda che venne al Centro Sperimentale di Cinematografia perché era l’unica scuola dove si mangiava gratis e a Roma gli affitti in centro storico erano bassi… Arbasino ricorda che si approfittò del boom economico per fare arte “libera”, finalmente, senza scopo o ansia di lucro e senza più assoggettarsi al mercato. Quelli di Quindici eredi del Gruppo 63, come Nanni Balestrini, così odiato dai sovietici perché giudicati succubi del neocapitalismo “a causa di giochi linguistici incomprensibili dalle masse”, sono però tuttora convinti – ricordava Guglielmi - che la loro rivista anticipò tutte le tematiche del 68 (così come il Male in qualche modo ne scrisse la parola fine). Enrico Vanzina ama citare una frase di Ennio Flaiano (che di questo viaggio nei misteri di Roma antica è un po’ì il Virgilio) a proposito del misterioso fascino di una città così poco maneggiabile: “E’ avvolta dall’eternità, Roma assolve sempre, mai condanna”. Per il poeta Aurelio Picca: “Roma è un fotogramma che cattura l’eternità”. Rodolfo Sonego e Alvin Curran restano di sasso quando arrivano tra i 7 colli: il primo quando mangia nelle trattorie prende appunti sui tipi che le frequentano che diventeranno il coro della commedia all’italiana; e il secondo è affascinato dal rumore della città, dalle donne che cantano sui balconi di prima mattina, per esempio, e dal trovare “paese” una così grande capitale. I vigili urbani di piazza del Popolo quando passa Sophia Loren fermano il traffico. E Panatta teenager si ricorda ancora dalla presenza attiva dei più famosi playboy (Franco Rapetti, Beppe Piroddi, Federico Martignone e Federico Pantanella). “Roma era la città delle più belle donne del mondo”. Citto Maselli ancora non si capacita del fatto che le Stelle di Mario Schifano incassassero il doppio al Piper dei Procul Harum. I cineasti in quegli anni poterono girare non i film su commissione, come avviene oggi, ma i film che volevano dvavero fare, grazie all’art.28 (come ricordano Enzo Porcelli e Italo Moscati, che produsse per la Rai gli amati e famigerati “sperimentali tv). Poco prima Marco Bellocchio aveva aperto la strada del cinema fuori schema con I pugni in tasca che poté girare solo perché il fratello aveva dei soldi da parte. Le porte di Cinecittà, che pure davano lavoro a 150 persone, più che alla Fiat, erano sbarrate per chi voleva fare cinema d’artista come Agosti, Tretti, Miscuglio, Leonardi, Grifi, Ponzi, Brocani, Schifano, Sergio Rossi (suo il bellissimo Policeman, molto poltiico, che in realtà fece infuriare sia Cesare Brandi che Michelangelo Antonioni che decise di non assumere più Lou Castel per Professione Reporter perché lo aveva interpretato) . Ma ne potevano fare a meno. I film d’artista in 16mm, super 8 e video avevano le loro sale e i loro festival. Ma la prima causa scatenante quell’anarchia fertile che mi viene in mente è stata fine politica del monopolio della Dc più bigotta (i processi Braibanti-Valpreda furono il loro canto del cigno). Il Psi al governo, pungolato da Pci e Psiup, che modernizzò leggi del settore e affidò a professionisti, finalmente adeguati, istituzioni culturali e finanziamenti ben finalizzati. L’emergenza, poi, di personalità molto forti, capaci di cambiare le cose: editori come Feltrinelli e produttori coraggiosi come Alberto Grimaldi, direttori di gallerie (Palma Bucarelli) o di teatri visionari (da Grassi a Strehler fino a Nanni e Perlini), compositori e artisti che bombardavano le Accademie (Nono e Schifano, Bene e Sandro Franchina, Annabella Miscuglio e Augusto Tretti), cineasti capaci di trasformare nuove idee in visioni non addomesticabili e spazi magici come il Filmstudio 70, L’occhio l’orecchio la bocca o Il Politecnico. O il Piper e il Music Inn. Il Folkstudio e La Tartaruga di Plinio De Martiis. L’Attico di Fabio Sargentini e il Camion di Quartucci e il teatro Tenda… Pensiamo, per fare un altro nome (che Mario Canale dimentica di ricordare), al critico e regista teatrale Gerardo Guerrieri che inventò la collana di teatro dell’Einaudi (quella che portò in Italia il teatro dell’assurdo, Ionesco e Beckett, e poi Brecht e Arthur Miller) e poi inventò il “Teatro Club”, portando a Roma per primo il fior fiore delle avanguardie mondiali, grazie anche a finanziamenti garantiti dal presidente del consiglio dei ministri dal 1963 al 1968, Aldo Moro (tessera del Filmstudio in tasca). Un magnifico documentario di Fabio Segatori del 2018 ha risarcito la sua straordinaria importanza (e forse per questo Canale lo ignora).
Altro imput fu la crisi di Hollywood e la contemporanea insorgenza nel mercato internazionale del nostro cinema d’arte e di genere (western, poliziottesco, commedia, erotico…), capace per una volta di ibridarsi e contaminarsi tra pratiche alte e basse (per esempio la presenza di Pier Paolo Pasolini e Lou Castel, attori, in Requiescant, western spaghetti di Lizzani del 1964) e di non farsi ricattare dal finanziamento pubblico, attirò sperimentalisti da tutto il pianeta e provocò sperimentalismi artistici intrecciati. Dal vinaio di Campo de Fiori si incontravano Orson Welles e Chat Baker, Gregory Corso e Cohn Bendit, Jean Luc Godard e Franco Brocani, Steve Lacy e Mario Schifano, il Living con Olimpia Carlisi, Sergio Rossi e Franco Angeli, Glauber Rocha e Juliet Berto, Domenico Guaccero e Cathy Berberian, Lorenza Mazzetti e Titina Maselli, la pittrice islandese Róska Oskardottir e Gian Maria Volonté, Alvin Curran e Alberto Grifi, Thomas Harlan e Anne Wiazemsky, Titon Alea e Paulo Saraceni, Twombly e Uliano Lucas, Tano D’Amico e Trisha Brown, Yvonne Rainer e La Monte Young, Victor Cavallo e Charlemagne Palestine, Sargentini e Carlo Di Leo, Straub e Huillet… E così via. Certo. I palazzinari avevano qualche anno prima compiuto l’ennesimo capolavoro, il loro ultimo sacco della Capitale e massacrato una periferia eletta da Italia nostra capitale mondiale della speculazione edilizia e del degrado urbanistico. E nel 1960 Federico Fellini apre La dolce Vita (che imporrà al mondo la sovranità culturale di Roma e di via Veneto, luogo attraente e moderno dove tutto può accadere, poco dopo la Parigi di Godard e Truffaut) sorvolando l’Urbe in elicottero e svela quello scempio di Cinecittà, quartiere dormitorio, con schiacciate sull’antico acquedotto baraccopoli indecenti, piene di immigrati affamati di salario, e si trascina svolazzante una statua gigante di Cristo lavoratore che benedice, non senza imbarazzo, cemento e tettonica. Non fu facile sconfiggere la censura in quella occasione, come ricorda il diciottenne Bertolucci, ospite dell’anteprima che Fellini organizzò per difendersi dagli attacchi prevedibili della curia e di Greggi.
Poco dopo Vittorio Gassman, spettro di un pittore secentesco, Giovanni Battista Villari detto “il Caparra” in Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli (1961), si aggira sconsolato in piazza dei Consoli (dove una torre medievale sfuggì al genocidio ed è intatta ancora oggi), si volta disgustato verso un palazzo moderno appena finito al n.50, mostro architettonico grigio e blu fresco di cantiere e frutto di maneggi olimpionici, lo indica con il dito e sentenzia con la voce: “è il più brutto edificio mai concepito da mente umana” (*). Però lì attorno a questa città, “la più zozza d’Italia”, già si aggiravano gli uomini di Pasolini in cerca di comparse per Accattone e Mamma Roma, perché quella era la “capitale della creatività, del caos e del possibile”. Raccontano la scena artistica e politica della Capitale, allora un centro mondiale dell’arte vivente anche Annarosa Morri, Felice Farina, Luca Ronchi, Marcello Villari e la voce di Alessandra Vanzi (fondatrice della Gaia Scienza). Il film è stato presentato alla Mostra di Venezia dalle Giornate degli Autori n.19, sezione 100+1. Ovviamente non ci sono tutti i protagonisti di quell’epoca e alcuni di quelli che parlano forse parlano un po’ troppo (avrei preferito più Paola Pitagora che Tortorella o Andreotti o Verdone, più Sergio Lombardo che chi, come il compositore Piersanti (e poteva essere anche Piovani) boicottava con i suoi amici allievi del conservatorio i concerti di quel castrista e operaista di Luigi Nono.
Ma non è questa l’unica critica che si può fare al bel lavoro. Semmai forse non si è analizzato troppo come mai è stata proprio Roma in quei 15 anni ad aver visualizzato meglio il trapasso dalla sensibilità moderna nell’arte (il punto di vista fortemente soggettivo imposto contro tutti e contro tutto, la soggettività desiderante come atto criminale) a quella postmoderna, dove quel punto di vista, di fronte agli orrori della politica internazionale (decolonizzazione sanguinosa, aggressione in sud est asiatico, stragi di stato), non può esimersi dal prendere posizione, sganciandosi dal mercato dell’arte per non essere considerati dei collaborazionisti. Quando gli artisti si rifiutarono, come gesto politico collettivo e planetario, di continuare insomma a fare gli artisti. E a confondere le carte. Scrittori si mettono a girare un solo film. Carmelo Bene lascia il teatro per i set. Pittori facevano cinema pur di evadere dai musei e dalle gallerie. Le gallerie diventavano spazi concettuali pur di non esporre quadri. “I maestri del dolore” (i pittori di piazza del Popolo si autodefinivano così, con ironia, racconta Paola Pitagora, allora compagna di Mambor, citando la popolare collana dei Fabbri Editori “I maestri del colore”) si dedicano anche loro al cinema, così come Sylvano Bussotti “per la sua assoluta insignificanza”. Godard, periodo maoista, lo ricorda Ettore Rosboch ironizzando troppo, gira Vento dell’Est “in un senso di inconcludenza creativa” (direbbe Bifo) chiamando il collettivo degli attori e della troupe in assemblea ogni mattina a decidere scena per scena cosa e come girare e imponendo l’egualitarismo degli stipendi (si opporrà solo Volonté). Qualche artista underground come Alfredo Leonardi, entra nelle organizzazioni rivoluzionarie maoiste o le finanzia (come Mario Schifano che sottoscrive per la nascita di Quindici). Quasi tutti torneranno prima o poi alla loro specializzazione artistica, ma completamente “rieducati”, come dopo aver partecipato a una “grande rivoluzione proletaria culturale occidentale”.
Ma Mario Canale è molto più interessato, come Fellini, a raccontare la sua Roma, attraverso questo viaggio nell’utopia romana. E adora soprattutto quel che afferma lo sceneggiatore Furio Scarpelli, un principe della commedia italiana: “il subconscio ce l’hanno tutti? Sì. Ma il subconscio romano ha il particolare pudore di apparire sensibile, si vergogna di sembrare intelligente, ha il piacere di apparire sguaiato piuttosto che sembrare comprensivo. E quindo sostituisce facilmente la parola di conforto con la parolaccia tipo li mortacci tua o quanto sei stronzo, che, sotto sotto, è solo un’esortazione a fare meglio”. E così il prossimo lavoro di Canale sarà sui “Magnifici quattro della risata”… Gassman, Sordi, Manfredi e Tognazzi. (*) era la casa in cui abitavo dal 1960 al 1973

venerdì 9 settembre 2022

Mostra di Venezia. Il signore delle formiche di Gianni Amelio

di Roberto Silvestri Una storia d'amore tragica come quella di Romeo e Giulietta fu quella di Aldo Briabanti e di Giovanni Sanfratello. Ma. Per parlare di oggi, e del pericoloso vento sovranista e omofobico che spira, “i gay vanno o curati o menati”, Gianni Amelio torna indietro nel tempo e va un po' più a sinistra. Prima attorno al Psi, adesso attorno al Psiup e alla sua rivista teorica d'affezione, I Quaderni Piacentini non a caso nata nel 1962 e che proprio tra il 1964 e il 1965 divenne indispensabile cannocchiale e microscopio del nostro pese malato.. Dopo aver raccontato la fine politica, e l'esilio in Tunisia, dell'ex segretario di Nenni, che defenestrò De Martino con l'aiuto della sinistra lombardiana, liberò i socialisti dall'abbraccio prepotente del Pci ma poi fu vttima del diabete devastante e di una conseguente auto-sopravvalutazione, Amelio ha fatto un passo indietro storico e ha accettato la proposta della Kavac Film di lavorare sul “caso Braibanti”. Dal politico di successo caduto in disgrazia al poeta, maledetto sempre, e all'intellettuale marxista moderno o, come lo definiva indirettamente e con amore Pasolini su Vie nuove, in polemica con gli artisti vicino al Psiup (l'ala sinistra del Psi, guidata da Basso e Lussu, che si era staccata dopo l'ingresso del Psi al governo con la Dc), “stalinista beat”. Braibanti, come i Bellocchio, Roversi, Isnenghi, Sergio Bologna, Goffredo Fofi, Edoarda Masi e Grazia Cherchi, aveva rotto i ponti con il partito-chiesa e con l'estetica del 'realismo socialista' obbligatorio (che ancora però la faceva da padrona nelle Feste dell'Unità, come si vede all'inizio di Il signore delel formiche. Il film è Quando volano le cicogne di Kalazotov manifesto del disgelo ma il Pci avrebbe dovuto diffondere quel che è davvero il film 'insostenibile' e indigeribile dallo stalinismo, cioé il suo magnifico Lursmani cheqmashi, ovvelo il "Chiodo nella scarpa" del 1931 - da georgiasno a georgiano - che fu proibito da Stalin perché Lalatozov prendeva in giro, troppo marxianamente, i piani quinquennaliin quanto tali) ) ma si distanziava troppo dalle masse maneggiando incomprensibili linguaggi teatrali, musicali, letterari, cinematografici (che Pasolini in quegli anni vedeva pericolosamente affini ai disegni tecnocratici del neocapitalismo) che finalmente, come teorizzava Oshima in Giappone o Godard in Europa, mettevano “caos nell'ordine” seguendo la parola d'ordine della “soggettività desiderante”, dell'individualismo democratico che fa i conti con l'individualismo rapace, molto poco demoniaco, delle classi dominanti. Bisogna insomma spiegare oggi ai millennial e alla generazione Z, e a chi quel processo ha rimosso o neanche se ne accorse, si deve essere chiesto Amelio cosa ci fu dietro quella persecuzione vergognosa e giuridicamente inconsistente, e perché quella crociata ebbe un trionfale, ma apparente, successo. Cosa succedeva insomma nelle viscere dell'Italia dei nonni, nei contraddittori anni Sessanta che prepararono il sessantotto. Cosa significava “lo strapotere Dc”. Che tipo di cultura repressiva e sessuofobica imperava allora (e pare che le masse adorino chi la riauspica, oggi) e che ruolo anticostituzionale era stato regalato, dopo le barricate contro Tambroni, alla Magistratura che assolveva in quei mesi troppi poliziotti “pistoleri”. C'è una battuta carina nel film, ma non credo proprio esatta. Mussolini non avrebbe criminalizzato l'omosessualità in Italia “perché froci tra i maschi italiaci non ce ne sono”. In realtà durante il ventennio vennero mandati al confino molti omosessuali. Ed è risaputo che anche nei partiti comunisti l'omosessualità veniva considerata una malattia. Il Partito comunista tedesco, per esempio, fece una campagna stampa durissima contro il capo delle SA anche perché “notorio pederasta”. I giudici italiani del 1965 furono però capaci, in quella occasione, di trasformare le vittime, Aldo Braibanti e il suo amante Ettore, in colpevoli, e fu cieca di fronte a un palese rapimento e sequestro di maggiorenne, poi imprigionato in manicomio (e lì quasi assassinato dagli elettroshock) capovolgendo i fatti e condannando l'innocente Braibanti per offesa alla famiglia tradizionale e alla morale (?) dominante. ) 9 anni! Elio Germano, nella parte del giornalista di cronaca nera che sa fare il suo lavoro, come se fosse l'eroe in un noir di Fuller - anche se il quotidiano fondato da Gramsci ma diretto (allora) da Maurizio Ferrrara, attenua, censura, “migliora” o capovolge i suoi servizi - è tra i pochi che difende l'omosessuale indifeso e colpito obliquamente come se fosse un Satana tentatore tra le mani dell'Inquisizione. Luigi Lo Cascio è talmente perfetto nel ruolo di amante fragile del giovane Ettore e di amante indistruttibile del giusto e del vero che una collega americana, in occasione della anteprima stampa, lo aveva scambiato proprio per Pasolini. Due anni fa un ottimo documentario, Il caso Braibanti, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese (che ancora gira nei cinema italiani più attenti) aveva raccontato tutto questo e messo in ordine i fatti. Braibanti, filosofo, scrittore, poeta, mirmecologo, drammaturgo, partigiano, comunista, poi uscito da un partito che non aveva tratto tutte le debite conseguenze dal rapporto Krusciov al XX congresso Pcus e dalla destalinizzazione, per difetto e non per eccesso di spirito libertario e rivoluzionario, era diventato un punto di riferimento “controculturale” per letterati e artisti. Amico del musicista postmoderno antilitteram Sylvano Bussotti e di Carmelo Bene, complice del cineasta Alberto Grifi nei suoi sperimentali spettacoli teatrali che si rifacevano alle teorie dello psicanalista ungherese Ferencsi, era appunto tra i più importanti collaboratori della rivista I Quaderni Piacentini, ma anche il più esposto e indifeso. Amelio però non ha voluto fare una ricerca ulteriore, “essere pignolo”, facendosi aiutare soprattutto dai suoi ricordi personali, come pubblico nel processo, e da cosceneggiatori “debuttanti o quasi”, come li definisce nell'intervista a FilmTv, Edoardo Petti e Federico Fava, anche se per le coreografie di Tranfert per Kamera verso virulentia, ha avuto una consulente molto esperta come Alessandra Vanzi. Perché andavano puniti i Quaderni Piacentini? Alberto Grifi era convinto che quella rivista doveva essere messa in difficoltà perché, attraverso una forte campagna di mobilitazione, stava impedendo alla Dc (dominata a Piacenza dalla sua fazione più reazionaria, di cui il padre di Ettore Tagliaferri che interpreta Giovanni Sanfratello, era un grande elettore) un succulento piano regolatore. Inoltre sosteneva che in quella occasione lo stato sperimentò la costruzione mediatica del mostro da sbattere in prima pagina. Valpreda, con tutte le connotazioni di “ballerino, dunque effeminato, e anarchico, dunque insurrezionalista” sarebbe stato il perfetto Braibanti Due da usare a tempo debito. Grifi, molto amico di Braibanti, e tra i pochi intellettuali e politici a organizzare un comitato di difesa (che comprendeva Moravia, Morante, i Cederna, il Psiup e il partito Radicale che Gianni Amelio però isola esageratamente attraverso il primissimo piano di Emma Bonino oggi), sarà vittima di un ulteriore processo farsa, accusato di possesso di droga leggera, in quella circostanza non posseduta (e condannato a due anni di carcere). Ps. La voce Aldo Braibanti di Wikipedia è stata scritta da Aldo Braibanti. Dunque chiunque volesse sapere come si svolsero i fatti può fare riferimento awikipedia. Ancora una volta un faro di democrazia e libertà collettiva. Un caso di collaborazione tra formiche umane riuscito

giovedì 8 settembre 2022

Illegally Blonde. Marilyn Monroe fa ancora paura e Andrew Dominik ne è addirittura terrorizzato

Mariuccia Ciotta Uscita dalle mille pagine e più di Joyce Carol Oates, il corpo dilaniato di Marilyn Monroe nel passaggio dalla forma irreale della diva a quella del suo simulacro, carne da macello, ricalcata foto dopo foto, film dopo film, e sovrimpressa col volto del suo doppio terreno Ana de Armas. L'australiano Andrew Dominik (L'assassino di Jesse James per mano del codardo Robert Ford) pesca nel romanzo bio-fiction della scrittrice americana il ritratto privato dell'Attrice Bionda, inchiodata nell'espressione monotona della vergogna. I lineamenti contratti, la smorfia del dolore e del pianto, Norma Jeane scolora nel bianco e nero per riprodurre le immagini di allora e poi si accende di color pastello seguendo le variazioni stiliste di Oates, che cerca in sé le tracce di un altro Joyce.
Cattolica integralista, nel suo disgusto per Hollywood la scrittrice va alla crociata contro il simbolo della rivolta anni Cinquanta, contro il cinema del ritorno a casa, dell'imperativo matrimoniale. La magnifica parodia Gli uomini preferiscono le bionde, scritto da Anita Loos e diretto da Howard Hawks, ridotto a film da bordello. Dominik segue le istruzioni di Oates e mette in scena la vittima della macchina stritolatutto, Hollywood, vittima consenziente, che si piega alle voglie di Zanuck e di chiunque la richieda per prestazioni extra. Marilyn è l'invenzione della “bionda stupida” nelle mani di registi che la deridono e la sfruttano mentre lei si sente Norma Jeane e si ribella a Billy Wilder sul set di A qualcuno piace caldo, “non dirmi che mi muovo come una gelatina!”. Norma odia Marilyn, la “puttana” di Quando la moglie è in vacanza, schiaffeggiata da Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), quando lei invece ama studiare Dostoevskij e Checov. E tutto sarebbe cambiato se solo Arthur Miller (Adrian Brody), il Drammaturgo, avesse avuto un po' più di pazienza. E se il Bambino, inquadrato più volte nel ventre rosato di Marilyn, non fosse stato più volte “ucciso”. Lo fa parlare Dominik, con la vocina della colpa, “questa volta non farmi male”. L'abietto si fa strada nel susseguire del tempo, dall'infanzia all'abuso di farmaci. Macchina fissa sulla copia morta, l'ordinario e distorto riflesso del Mito, la grande attrice di George Cukor, John Huston, Henry Hathaway, Jean Negulesco, Joshua Logan.
In un macabro cammino tra invenzioni sessuali, ménage à trois con i figli di Charlie Chaplin e Edward G. Robinson, il film colleziona una serie di orrori estetici e azzardi osceni come l'incontro con il presidente John F. Kennedy. Il regista cerca di raddoppiare l'effetto hard, che cadrà sotto la scure della censura, e modifica la scena scritta da Oates. Kennedy disteso seminudo sul letto. Marilyn trascinata a forza, “servizio in camera”, da due gorilla. Il presidente è al telefono e parla con qualcuno che lo avverte del danno provocato dalle sue intemperanze sessuali, mentre lui affonda la faccia di Marilyn nelle parti basse – in televisione, razzi e obelischi mimano l'erezione. Dominik gode all'idea di scandalizzare con il primo piano grondante sesso, controvoglia, della “vittima consenziente”. L'osceno, però, non sta lì, ma nell'accostamento di quest'opera con Marilyn Monroe, con la storia del cinema e con i suoi spettatori. Nel romanzo, Kennedy non discute di sesso selvaggio, ma della crisi dei missili di Cuba, del rischio guerra mondiale. E dire che Ana de Armas, alias Norma Jeane, è di origini cubane. Era il 1962, Marilyn morì il 5 agosto. L'anno dopo John F, Kennedy fu ucciso a Dallas, dagli anticastristi, probabilmente.

mercoledì 7 settembre 2022

Venezia 90. Argentina, 85. Aronofsky, Loznitsa, McDonagh

Roberto Silvestri
Argentina 1985 di Santiago Mitre (Argentina/Usa) La “sporca guerra”. Smuove ancora l'inconscio collettivo dell'America Latina (e il nostro) quel che ha commesso di politicamente scorretto ma anche di “sadisticamente corretto” la dittatura militare scatenata dai generali Videla e Massera (complici gli Stati Uniti d'America) contro il movimento democratico e rivoluzionario degli anni 70. Ricordo un celebre filmato tv con Oriana Fallaci, invitata alla tv argentina per un dibattito, poco dopo la caduta della giunta. Lei (che non aveva vissuto in Argentina, con i mitra puntati addosso, in quei giorni cupi) si permetteva di additare uno per uno tutti i prestigiosi presenti e li rimproverava: “se siete qui vivi a parlare vuol dire che siete stati complici anche voi degli assassinii, delle torture e degli altri crimini della giunta militare”. Proprio di questo parla il film di Mitre, del risveglio delle coscienze dopo lo shock delle Malvinas grazie alla insorgenza di una generazione di giovani senza responsabilità alcuna. E sembra alludere anche alla questione di fondo che i cileni si sono trovati di fronte respingendo il referendum costituzionale e preferendogli la dottrina Pinochet. Ovvero. Una costituzione democratica serve a proteggere la proprietà privata o il cittadino qualunque? Trump, Videla e molti altri nel mondo oggi, con ogni mezzo necessario, lottano contro il pericolo della “plebe informe”, e studiano solo come contenere le sediziosa maggioranza. Il ricordo alla tortura e allo sterminio, è tra le opzioni. Ovunque. Prodotto da Amazon, distribuito dalla Sony in Argentina, diretto dal vincitore, nel 2015, della Settimana della critica di Cannes con Paulina (La Patota), interpretato da un magnifico Ricardo Darin, coi baffi alla Flaiano, già protagonista nel 2017 di La Cordillera di Mitre, questo film di classico genere giudiziario, ha conquistato i cuori e i cervelli del pubblico e della critica della Mostra di Venezia (il manifesto a parte). Dieci minuti di applausi. Non è stata solo la “forza dell'argomento”, la sostanza conoscitiva scodellata a decretarne il successo, cioé la capacità che ha avuto il paese, appena uscito dall'incubo militare, e durante la fragile presidenza del radicale Raul Ricardo Alfonsin, di allestire in pochi mesi, e non senza ostruzionismi istituzionali e provocazioni fasciste, grazie a un pool di giovani giuristi partigiani scatenati, un processo rigorosamente documentato (e non senza pericoli) alla giunta militare tutta. O la forza giuridica inaspettata, espressa da una magistratura (così connivente per anni e intatta nella composizione), di condannare i maggiori responsabili dei crimini da loro ordinati fin dal 1976 (almeno in un primo momento, prima dell'amnistia che ha mantenuto perseguibili successivamente i soli reati di infanticidio: e comunque Videla è morto in carcere nel 2013 a 87 anni). Ma hanno conquistato tutti la forma e la sostanza dell'espressione utilizzati dal quarantenne regista e sceneggiatore di Buenos Aires. Se cinema (e non la “visualità autoritaria” tv) vuol dire capacità di vedere meglio e altro rispetto a quel che vogliono farci vedere, contemplare, e saper ravvivare contemporaneamente la sensazione, la percezione, la riflessione e l'immaginazione degli spettatori, ecco un film antifascista (e forse persino anti-peronista) anche nella forma. Che sa indicare nell'immagine non un percorso autoritario da seguire, di sguardi che ipnotizzano e ti guidano, ma sempre un “fuori campo” da riattivare. Pensiamo a come Mitre e il co-sceneggiatore Mariano Llinàs abbiano contemporaneamente studiato e modernizzato la lezione del cinema politico anni 70 di Costa Gavras e Rosi e di quello contemporaneo (per esempio Il caso Spotlight di Tom McCarthy, 2015), la capacità di maneggiare cioé, con grande obiettività e senza manicheismi, i movimenti profondi della storia e di trovare il punctum esplosivo di uno scontro etico-politico e sintetizzarlo senza patetismi o sentimentalismi. Grazie anche alla micidiale potenza del loro umorismo, quasi un omaggio esplicito al fraseggio di Osvaldo Soriano.
The Whale di Darren Aronofsky Usa Concorso L'anima turbolenta di Herman Melville viene sempre richiamata in campo dal cinema americano quando qualcosa di mostruoso, come la “balena bianca”, The Whale, appare all'orizzonte come metafora di una minaccia alla democrazia. E così tutta la squadra dei “fedeli d'amore”, Thoreau, Whitman, Jefferson, Emerson...i super eroi dell'immaginario statunitense vitale, illuminista, utopista, controculturale, romantico, che combatterono da una parte gli scettici liberali (che invece professano la democrazia dai loro scranni di potere solo per legarle le mani). E, dall'altra parte, contrastano i reazionari e i conservatori, i succubi del dio protestante e vendicativo, i puritani che confondono ancora Gesù con il dio dell' Antico Testamento, adorano il Signore dell'odio e non quello dell'amore, cioé chi vede e punisce peccatori ovunque, ma guarda cosa non tra chi fa da da più di un secolo stock-watering, cioé impiega il capitale azionario all'insaputa degli azionisti (qui ne vediamo un giovane e contraddittorio rappresentante, neanche troppo pio, Thoms, cioé l'attore millenniale TySimpkins). Melville, dal suo ufficio doganale, si addentrava nella vita di uomini e donne, invece, originali e pieni di colore. Proprio come il protagonista del film, questo stravagante Charlie (un Brendan Fraser, da premio, anche se la fascistoide “coppa Volpi” proprio non gli si addice), professore di inglese super obeso, anzi così sproporzionatamente grasso, da tenere le lezioni web a distanza di letteratura e scrittura “creativa”, senza la telecamera accesa, per non turbare gli acerbi allievi. Ancora più difficile il rapporto, poi, con la figlia teenager anticonformista Ellie (una caldaia di energia incontrollabile, Sadie Sink, magnifica) che lui ha trascurato per anni, sconvolto da un amore poi finito tragicamente, e divorziando per questo dalla moglie Mary (Samantha Morton), mentre chi lo assiste (ne ha estremamente bisogno data la stazza) è Liz, la sorella asiatica di quel suo secondo amore. The Whale ricorda per l'atmosfera dark da kammerspiel, e per la forte componente religiosa, più Pi greco che ogni altro film di Aronofsky, compreso quello che ha vinto nel 2008 il Leone d'oro a Venezia, The Wrestler. Ovvio che si tratti di un lavoro teatrale, di Samuel D. Hunter, e che è stato girato fuori Los Angeles, a Newburgh, stato di New York.
The Kiev Trial di Sergei Loznitsa Fuori concorso Non piace agli ucraini il bielorusso Loznitsa, ma ucraino di adozione, e attualmente olandese di residenza, per alcune prese di posizioni non allineate al pensiero unico sull'aggresione russa. E alcuni dei suoi lavori non piacciono neanche a me. Per esempio quel documentario sul processo al partito degli industriali, usato da Stalin per colpire, assieme a Trotzky e Bucharin, l'ala destra del partito, e lanciare i piani quinquennali, rimontaggio di un documentario di epoca sovietica uscito regolarmente nelle sale, piuttosto importante per la storia del Pcus, ma trasformato, dopo montaggio nascosto e manipolatoria scritta finale, in materiale di piatta e opportunista propaganda, anticomunista ma soprattutto pasticcione. Questa volta Loznitsa, appena premiato a Cannes per History of Destruction, mette ancora le mani su materiali di archivio, come Duchamp faceva sui cessi pubblici, e li 'santifica' con il suo “genio”, tagliando e spostando le sequenze e la continuità. Si tratta del processo 1946 ad alti (e più piccoli) esponenti dell'esercito nazista d'occupazione dell'Ucraina, delle SS e dei servizi segreti tedeschi (aveva già parlato dell'invasione, fiancheggiata dalle truppe dell'oggi glorificato Bandera, in Babi Yar Context). I processati si riconoscono tutti colpevoli di atrocità (ed è sconvolgente sentirli enumerare, senza alcuna partecipazione emotiva, anzi con l'annoiata e precisa pignoleria del burocrate, alle loro imprese) e li vedremo alla fine appesi atrocemente alla forca ma in bianco e nero mozzafiato. Loznitsa torna a Venezia dopo Funerale di stato del 2019.
The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh Concorso Uk Tra i film testa di serie della Mostra 90 di Venezia c'è questo duello all'ultimo sangue, quasi punk e tarantiniano, che trasformerà il concetto di “dita” (di una mano) nel concetto, più sessualmente allusivo, di “diti” (quando sono singolarmente presi, o tranciati), messo in scena (e prodotto) in una isoletta irlandese di fronte alla costa occidentale dell'isola più grande (già divisa: siamo nel 1928, e nelle contee rimaste al Regno Unito dal 1922 c'è guerriglia) da un cineasta che di questi conflitti interpersonali è specialista. E' il regista irlandese (del nord?) McDonagh, nato però in Inghilterra, che ha vinto il Leone d'Oro nel 2017 con Three Billboards Outside Ebbing (prima di vincere due oscar e 5 Bafta). Due vecchi amici di pub, improvvisamente rompono ogni relazione quando uno di loro, Colm (Brendan Gleeson), più grasso e carismatico, si accorge che l'altro, il più magro e svanito Padraic (Colin Farrell), lo annoia a morte. E visto che la morte si avvicina a passi da gigante, Colm non ha più voglia di perdere tempo con le chiacchiere di un disinteressante, anche se gentile, stupido pastore (la cui sorella, Kerry, invece, è intellettualmente e politicamente fuori schema) ma vuole dedicarsi con tutta la concentrazione e il silenzio possibili alla musica, vuol creare canzoni e ballate 'immortali'. Il conflitto assume dimensioni di una stupidità crescente, entrano in campo e complicano lo scenario anche lo scemo e la strega del villaggio, diventando quasi una irritante parodia del beckettiano teatro dell'assurdo. Ovvio che il gioco performativo, già rodato in Bruges, tra Gleeson e Farrell, in debito con Stanlio e Ollio per i tempi e i silenzi dell'azione e dei dialoghi, regge interamente sulle proprie spalle questo grottesco sull'indifferenza (lì vicino si fa la storia, si impiccano quelli dell'Ira che sono contro il compromesso firmato da Michael Collins) che non si esime dal prendere feroce posizione contro le ipocrisie e le miserie anche morali del clero cattolico molestatore, dell'autorità poliziesca britannica marcia e di quelle brutte abitudini irlandesi che tanto fanno ridere gli inglesi (la loro proverbiale convivenza con gli animali, in questo caso un asino, che finirà proprio come Baltazhar).

lunedì 5 settembre 2022

Mostra di Venezia 90. Seconda parte. Guadagnino e Padre Pio. Di Roberto Silvestri

Athena di Romain Gavras Concorso Più che dal papà Costis Costa Gavras, la cui profondità e radicalità dello sguardo politico-sociale ha comunque incorporato, deformandola appena, Romain ha rubato a Kathryn Bigelow i segreti dei piani sequenza vorticosi e complicati. E per i primi venti minuti il film ti inchioda sulla poltrona perché, rendendo omaggio a John Carpenter e a Distretto 13 Brigate della morte, e perfino a Mad Max III, si assiste a una azione ribelle riuscita e entusiasmante, di solito viene censurata nei film che ricevono finanziamenti pubblici. I black block parigini, neri e beur, di un suburbio degradato e gelido, dopo l'uccisione di un ragazzo del quartiere per mano – si ritiene - poliziesca, si impadroniscono di armi, caschi, giubbotti antiproiettili e automezzi della polizia, facendo un'irruzione imprevista ed esasperata nel commissariato dove si svolge la solita conferenza stampa piena di promesse e retorica. Abdel, fratello della vittima, un militare (Dani Benssalah), cercherà di impedire altre vittime e trovare un compromesso con i reparti speciali della polizia che hanno circondato i manifestanti, asserragliati nella loro fortezza dopo aver fatto uscire le famiglie, e rapito un poliziotto. Ma l'uccisione anche di un secondo fratello, Karim, leader dell'ala irriducibile e dunque “pazzoide” (Sami Slimane), scatenerà l'inferno..... Nel suo terzo film, scritto anche con Alexis Manenti e Lady Ly (I miserabili), un guerrilla-movie che si avvale di una drammaturgia secondaria non molto originale e di personaggi stereotipati, l'adrenalina di spegne via via e la scienza della moltitudine in lotta scompare: si prepara un finale salva Stato.
Bones and All di Luca Guadagnino Concorso Non si cannibalizzano da sempre i teenager? I giochi di potere su di loro non sono orrendamente sadici, come vediamo in Ucraina da mesi morire a frotte senza un perché? Ed ecco la magnifica vendetta, il grosso “ti mangio vivo” di Maren e Lee, a nome della Z generation.. Un “duetto per cannibali”, Taylor Russell eTimothée Chalamet, rovesciato rispetto al film del 1969 di Susan Sontag sul riflusso dei rivoluzionari. “Grazie a questo film ho deciso di non suicidarmi”, potrebbe scrivere a Guadagnino qualche spettatore centennial. Ha infatti il sapore di Twilight il neo Badlans che Camille De Angelis ha spolpato per farne un un film politico (politico perché è bello, perché gli attori si muovono bene, anche Chloe Sevigny lascia a bocca aperta) scritto con David Kajganich e che ci e si trasporta nel cuore degli States, dall'Ohio all'Illinois, all'Iowa e al Nebraska: lunghe strade vuote, distributori di benzina deserti, sobborghi in cui i cartelloni pubblicitari sono due volte più alti delle case circostanti. Atmosfere e panorami dark e marginali, “non luoghi” che sputano “non libertà” grazie ai totali del bielorusso Arseni Kachaturian, che forse ha letto le poesie di Weldon Kees. Guadagnino inventa un tragitto antitetico, ma solo geograficamente, rispetto a quello di Easy Rider (il soundtrack possente, è ugualmente epocale). “Born to be wild”, cantavano lì gli Steppenwolf, e qui l'inizio è identicamente selvaggio. Non si va da Los Angeles a New Orleans, come con Hopper e Fonda, ma qui i ragazzi si impadroniscano del camion assassino: sono in cerca di gore e vendetta e, questa volta, di happy end. Uno scandalo per un horror, dar speranza. Forse Bob Dylan avrebbe regalato a Guadagnino la canzone che negò a Hopper perché quel finale gli sembrava troppo cupo e avrebbe preferito che si bruciasse quel pick-up.... Questi cannibali sono ovunque, una comunità di diversi, e si capiscono al volo o al fiuto, e sanno come ridurre all'osso la malvagità redneck, la giocondità del potere di classe e di razza, la vigliaccheria degli adulti, il risentimento dei vecchi eredi dell'alterità nativa (Mark Rylance). Hanno una loro etica, opposta ma profonda come quella dei guerrieri della Papua Nuova Guinea di una volta, che mangiavano i nemici uccisi per glorificarne il coraggio. Questi sono più ”vegetariani”, non sopportano la carne morta come invece in L'impero dei sensi. Easy rider in fondo non significava “il ganzo che vive con la pollastrella”? Fin dentro la morte, anche nella versione “la ganza che vive col pollastrello”.
Monica di Andrea Pallaoro Concorso Non totali, ma soprattutto primi piani (e insistentemente di profilo); sempre l'Ohio, ma più metropolitano (Cincinnati), con i bar, i camionisti, gli interni cupi...; una cinamatographer 'aliena' come Katelin Arizmendi per dare immagini corpose e seduttive al copione scritto dal duo Andrea Pallaoro e Orlando Tirado, ancora insieme a Venezia dopo aver fatto vincere una coppa Volpi, per Hannah, nel 2017, a Charlotte Rampling. Anche qui c'è una mattatrice delle scene e dei set, Patricia Clarkson (Lontano dal Paradiso, Il miglio verde …) mamma morente di Trace Lysette, trans ripudiata che torna a casa per assistere e curare chi quasi non ricorda di aver ripudiato. Film d'atmosfera, di sgaurdi sfuggenti, di dialoghi azzoppati sul nascere, ellittico fino alla perversione.
Margini di Niccolò Falsetti Settimana della critica La scena street punk di Grosseto 2008. O meglio Edoardo, Jacopo e Michele. Tre amici: uno, sposato con figlio, moglie cassiera, è impermeabile a ogni ipotesi di lavoro salariato. L'altro lavora in un night, sottopagato. Il terzo suona anche la classica e lo aspettano a Parigi per una registrazione. Insieme però spaccano: temperano bene le deformazioni armoniche e stropicciano con eleganza le melodie oblique. Ma: non hanno un soldo, non hanno appoggi politici, non riescono a esibirsi, li cacciano dalla cascina dove provavano, sono senza impianto e puntano tutto sull'accoppiata agognata con una mitica band americana, i Defense, idoli dell'hardcore, che a fatica riescono a far deviare in Toscana, da Mosca (4000 euro di biglietti aerei! Prosciugato il conto in banca). E andrà proprio tutto storto. Tranne il concerto degli americani. Trionfo. Ma qualche soddisfazione se la prenderanno lo stesso, i ragazzi. Per esempio distruggono l'orrido locale dell'amante della mamma (Valentina Carnelutti) di uno dei tre. Poi qualche bevuta, qualche battuta feroce in dialetto, l'amicizia, che li rende nonostante tutti inossidabili. Opera prima, sicuramente non ultima.
Padre Pio di Abel Ferrara Giornate degli Autori Quoziente di difficoltà alto per Ferrara, dopo copiosi studi di storici e ecclesiastici super partes che, voluti da papa Giovanni XXIII e da Paolo VI, smascherarono non senza difficoltà stigmate, apparizioni e miracoli. Attorno a un frate, forse giusto e buono, se ci arrendiamo alla devozione popolare, ma certo simpatizzante sempre per i latifondisti, i loro sgherri e successivamente per gli squadristi fascisti e che fu strumentalizzato, in anni di ossessione anticomunista, dal potere feudale e poi dalla Dc reazionaria. Così Ferrara sfiora solo la parte miracolistica, divide il film in due parti poco comunicanti (strage dei contadini da una parte, incerto nello stile tra ballata popolare e realismo socialista) e esperienza mistica del frate dall'altra, e qui è più Friedkin e l'esorcismo che lo appassiona)), compresi i suoi numerosi scontri fisici con il demonio, ovvero con i mali del mondo presente, passato e futuro (dai dieci milioni di morti della prima guerra mondiale ai 100 milioni di morti della seconda, che lui già prevede). La parte più interessante è proprio quella mistico-horror ovviamente già ben maneggiata in passato (e grazie anche alla presenza diabolica di Asia Argento). Fare di Padre Pio un Brus o unoSchwarzkogler, un esponente ante litteram della avanguardia azionista viennese degli anni 60, è stato il colpo di genio di Ferrara.

domenica 4 settembre 2022

Mostra di Venezia 90. Wiseman e Schrader. Di Mariuccia Ciotta

Schermi incrociati per le vie del Lido e ritorno al cinema della sacralità. Niente format seriale. Frederick Wiseman e Paul Schrader si incontrano in un giardino del secolo scorso. Un couple (concorso) e Master Gardener (fuori concorso). L'immagine si congela nella visione trascendentale. Wiseman (92 anni) segue le tracce di de Oliveira, al lavoro fino al traguardo di 106 anni, e non solo per una questione d'età. La sua Sofia/Sonja Andrèevna assomiglia alle portoghesi Benilde e Francisca, nascoste sotto abiti sontuosi, testimoni rivolte alla macchina da presa per confessare molti segreti e rivelarsi all'origine dell'arte maschile. Lei, Sonja (Nathalie Boutefeu) parla (in francese) di Lev Tolstoj, ed è già un suo personaggio, corpo reale per le pagine di Sonata a Kreutzer. Sospetti, gelosia, indifferenza, omicidio. Nell'isola bretone di Belle-Ile, alberi, cespugli e fiori sono animati da vita propria. Le corolle si agitano e non solo a causa del vento, approvano o contestano le parole di Sonja che vaga nel giardino di La Boulaye, e recita, straniata, le lettere inviate al marito, ogni giorno per 48 anni di matrimonio e 13 figli. La mattina Leo è amoroso, la sera è spietato. Un giorno la ama, e poi la caccia via infastidito. Il giardino reagisce e commenta, come in un film parallelo dell'autore di National Gallery. Primi piani dei petali frementi, osservatori del monologo, quasi la platea dei consiglieri comunali di Monrovia. Wiseman non li alterna alla recita per sottolinearne l'emotività, ma scandaglia la fioritura e la interroga. Forse Sonja non è una vittima, ma una scrittrice alle prese con un provino, ricordando Straub/Huillet, privati, però, di concentrazione e di austerità. Wiseman ride, si capisce, dietro le spalle di Sonja. Sta dalla parte del giardino e dei suoi colori che elargiscono vita, collane preziose dipinte di azzurro e rosa pastello. Ed eccoli tornare, apparizione disneyana e da paradiso anti-calvinista, i fiori, nella sequenza fiabesca di Paul Schrader che, come Wiseman, abbandona la storia del giardiniere ex primatista bianco, svastiche tatuate sulla schiena, ora pentito, ma succube della ricca signora sudista Norma Haverhill (Sigourney Weaver) che in un'altra vita sarà stata Rossella O'Hara, schiavi compresi. Joel Edgerton è Narvel Roth, il master gardener della grande tenuta di Graceland, sotto osservazione poliziesca (è stato testimone di giustizia) e morale (e sessuale) della padrona del giardino, pronto al concorso del più bello della zona. La signora, che diffida della nipote mulatta, possiede una Luger e la punta contro l'ex nazista in una inversione delle parti. Chi è più bianco? Gelido lo schermo, come sempre, tutto deve stare al suo posto secondo linee geometriche, seguendo le aiuole fiorite, moralmente squadrate, in continuità con Il collezionista di carte. All'improvviso, però, Schrader passa dal giardino all'italiana (e non alla francese, errore del copione?), ordinato e armonioso, all'allucinazione fantasmagorica, al giardino selvaggio in stile inglese. La vegetazione invade la strada sotto l'auto dell'ex white power innamorato della ragazzina african-american, il miracolo sparge fiori sui margini della carreggiata e poi, in un'esplosione di corolle multicolori, la notte si illumina e stende un tappeto di margherite e orchidee al passaggio della coppia. Contatto con Un couple. Deviazione dall'ordine delle cose e del proprio stesso cinema. Liberazione urlata dalla strana coppia che guida in un altro film, fuori dal perimetro narrativo, allo stesso modo di Wiseman.