martedì 13 settembre 2022

Prénom Godard. Chi scriverà più le immagini ora che la "politica dell'autore" è morta?

Di Roberto Silvestri
Prima di lui si andava comodamente nel cinema sotto casa, soprattutto in famiglia. Da almeno tre decenni (1920-1950) la settima arte era regredita – più ancora in Europa che in America - a poco a poco a tempio del conformismo calligrafico, della narrazione compiaciuta di sé, della recitazione pompier e tossica, tra codici Hays e censure bigotte, in molti casi fasciste, terrorizzate dalle immagini. Ma dopo lo tsunami Godard, dopo la scomposizione che lui ha attuato, come un gioco contagiante, su tutti gli elementi del linguaggio visivo, sonoro, non verbale, gestuale, comportamentale, involontario, e della memoria combinatoria che attiva la ricezione (se era vietato fare un primo piano con un grandangolo ebbene lui lo faceva, se il montaggio deve essere invisibile ecco il jump cut continuo), andare al cinema è diventato certo un gran lavoro ma anche un vero piacere, un divertimento da parco giochi, un’avventura dell’occhio-mio-dio, un gesto chic e snob e sovversivo. Ti sentivi uscire dal tuo corpo, essere Belmondo e Karina allo stesso tempo. Solo contro il mondo. Estasi.
Avevi scoperto finalmente qualcosa che non avresti mai trovato nella letteratura, nella musica, nella pittura, nell’architettura. “La verità 24 fotogrammi al secondo”, parafrasando Cocteau (“il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo”) vuol dire poter cogliere le cose vere, cioè mutanti e conflittuali, che il visuale paralizza nell’ideologia, e “trasformare la notte in luce”, come scrive nel suo virtuale libretto rosso mai pubblicato, perché noi, fuori dalla sala buia, non vediamo di non vedere. Pochi registi erano riusciti prima di Godard a liberarsi dai lacci e legacci imposti dai produttori – e, ricordiamolo, un film è un rapporto a due: regista e produttore, e Godard preferiva Thalberg a von Stroheim - mandando segnali segreti a critici ribelli e spettatori perspicaci. Les années Cahiers lo vedono alla macchina da scrivere a liberare nelle sue recensioni le immagini vitali incastonate nei mélo di Sirk, nei thriller di Hitchcock, nelle tragedie femministe di Mizoguchi e nelle commedie di Tashlin e Blake Edwards.
Ecco perché Godard - e anche i suoi critofilm più incomprensibili, i suoi film-saggio più rivoluzionari e filosofici - piace nel subconscio a Hollywood. Ma quell’Oscar alla carriera lui l’ha rifiutato sdegnosamente, per non essere da meno di Marlon Brando (e per farsi premiare di più). Il suo decennale lavoro sulle unità spazio-temporali della sequenza ha vivisezionato funzioni e procedimenti di un film, e perennemente fatto rinascere il cinema, che se non sconvolge tutte le funzioni, logiche e emozionali, del nostro cervello, non c’è. Non esiste. E da neo-formalista (adorava Eisenstein e come era indignato con Kenneth Anger quando osò rimontare Que Viva Mexico) ha attivato in tutta la sua ultracentenaria opera sensazioni, intellezioni, immaginazioni e memoria, anche rianimando forme antiche e dimenticate: ecco “il bello”, che non è la copia di un modello, ma di un monello. Ecco la funzione estetica, attivare la costituzione d’oggetto e la formulazione di immagine. Abbassando il più possibile i costi di produzione. Lavorando sodo, come un falegname, un operaio. Senza guadagnare di più. Si tratta di psicosi egualitaria? No. Di come si intende democrazia. Lui la intende come Thoreau, Whitman e gli altri trascendentalisti americani dell’800 romantico e utopistico, pur con le sue origini calviniste, da dio cattivo che punisce, sono pochi i non peccatori. La intende come priorità delle persone e non dei proprietari. Prendiamo una sequenza western normale (non alla Monte Hellman, che adorava tanto quanto non sopportava Woody Allen). Arriva il cowboy a cavallo, attacca il cavallo alla sbarra entra nel saloon e la cinepresa lo segue. Ebbene Godard non lascia mai il cavallo. Resta con lui. Il cinema è atto, movimento, tragitto, mai personaggio….
Con Godard il cinema tornò quell’avventura sulfurea, delle origini, quel montaggio delle attrazioni da circo che trasforma le nostre parti basse in general intellect. Il teatro in documentario e viceversa. Strano che Guy Debord, criticandolo da sinistra lo definisse “il tipico cineasta borghese". Anche se si riferiva al Godard primo periodo, quello della modernità di fraseggio, della soggettività desiderante, dell’anarchia come programma minimo, quello che lo stesso Godard poi ha autocriticato reinventandosi – chi non ha vissuto quei momenti non riuscirà a comprendere l’ovvietà di quella decisione, tra stragi di stato e Vietnam, polizia assassina e mostri prepotenti al poyere ovunque - come militante rivoluzionario maoista, e assieme a Gorin fondando il gruppo Dziga Vertov per realizzare dal 1968 al 1974 non film politici ma film fatti politicamente, ovvero applicando correttamente la politica dell’autore (che non è come si crede erroneamente sovranità del regista, ma sovranità della politica, committente le masse). Godard "ha giusto delle idee di cinema, più che delle giuste", e senza indipendenza e piena libertà, dunque senza basso costo e senza il costante aggiornamento sulle tecnologie audio, suono, video e digitali da dominare teoricamente ("bisognerebbe pagare chi vede la tv, non chi la fa"; oppure "i telereporter sono criminali di guerra", infine "i bambini sono prigionieri politici") Godard non sarebbe un pedagogo, come Rossellini gli ha insegnato ad essere e Serge Daney (il critico francese "di fase" più stimolante alla fine del secolo scorso) ha confermato che fosse. Da Ici et Ailleurs, Numéro deux e Comment sa va in poi, insomma dal 1974, prima a Grenoble poi nel villaggio svizzero di Rolle, cantone di Vaud, Godard mette in scena solo "persone che si fanno la lezione". Il Godard di questa "parte seconda" è soprattutto quello elettronico, che lavora per le sue società "Sonimage" e poi "JLG Film", assieme alla fotografa, artista multimediale e cineasta e storica dell’arte Anne-Marie Miéville. Ha gelato l'amicizia con Francois Truffaut, ha avuto un orribile e traumatico incidente di moto (nel 1972, in piena militanza maoista, quando ha abbandonato la totalizzante "unità di produzione Dziga Vertov" e il suo alter ego Jean-Pierre Gorin, ma metterà alla prova il metodo marxista-leninista non solo rispetto alla lotta di classe in Occidente e nei paesi dell’Est Europa o alle insorgenze anticoloniali in Mozambico e in Palestina, ma alla costruzione di un’immagine, e alle questioni interiori e sotterranee del privato, alla crisi ambientale, all’uscita dall’antropocene. Insomma il suo è un surplus di cinema politico, mai riflusso. Solo Godard (e Straub e pochi altri) combatte, con raffinata tecnica pugilistica, contro la televisione e il visuale virale e brutto di certo cinema (a volte contro Spielberg e Bertolucci) e di certa televisione, ma sul loro stesso terreno, campo contro campo. Truffaut diceva che Godard "ha sempre pensato al di sopra dei propri mezzi", ma certo molta tv e molta Hollywood pensano ben "al di sotto dei loro mezzi"... Ponendosi, per esempio in Je vous salue, Marie, non problemi di verginità della Madonna, ma di purezza/sporcizia dell'immagine. Il critico Alberto Farassino, scomparso troppo presto, grande studioso di Godard a cui ha dedicato un fondamentale Castoro, ricorda nella versione ampliata del 1996 una sua frase bellissima: "Dato quel che è accaduto in Cile, il fascismo, Pinochet, la mia vita prende di conseguenza una direzione piuttosto che un'altra. Quando incontro qualcuno non mi interessa dirgli che il fascismo è buono o cattivo, o che Pinochet è un imbecille. Gli parlo di me e di lui".
“La macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente al confine tra il visibile della nostra vita quotidiana e l'invisibile di un aldilà inconoscibile”, insomma il cinema secondo Cocteau, diventa per Godard sempre qualcosa d’altro, di differente, di contraddittorio, il contrario di prima. E’ la sensibilità postmoderna, ovvero soggettività drastica coniugata a altissima etica politica che lo invita al nomadismo, alla deriva, al continuo cambio di set mentale. Ancora una volta. Il lago, le montagne, il cane, quei certi quadri adorati, quella letteratura amata (il buffone shakespeariano, l'idiota dostoievskiano...), diventeranno gli elementi visuali fissi e di suggestione da impasto, molto più importanti delle storie, sempre "da non raccontare", o della Storia, da non perdere mai di vista, o della storia del cinema, che andrebbe bruciata. Se i film sono merci bisognerebbe bruciarli. Ma con il "fuoco interiore". Perché l'arte nasce da ciò che brucia. Così Godard, l'artigiano, il grande parlatore seducente (assistere a una sua conferenza stampa era come entrare nello stand della donna barbuta) lavora molto negli anni 80 per la tv di stato, da cattivo allievo di Rossellini: ecco le videoconferenze, le lezioni sul centenario, gli spot, ma anche i remake, produttivi non iconografici, come Fino all'ultimo respiro. II Leone d'oro di Venezia con Passion (una magnifica giuria tutta nouvelle vague, scelta da Rondi, con Bertolucci e Oshima tra gli altri, non poteva non premiarlo) fece inorridire il critico del Corriere della sera che, coraggiosamente lo stroncò, a rischio di perdere la direzione del Centro Sperimentale di cinematografia che, lo dice la parola stessa, o è godardiano o non dovrebbe neppure esistere.
Negli ultimi anni ancora scandali, detour. Una torta in faccia a Cannes, l’invito recente a votare Le Pen, inorridito dalla fine del socialismo, capelli perennemente arruffati e Gitanes papier mais in bocca. Forse aveva ragione Debord. L’ultimo grande borghese è morto.

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