domenica 4 settembre 2022

Mostra di Venezia 90. Parte prima. Roberto Silvestri

Nel mezzo del cammin della Mostra, quando abbiamo visto e ammirato le opere di Schrader, Ferrara, Wiseman e Guadagnino e i doc di Laura Poitras, Mark Cousins e Steve James, ma non ancora i nuovi film di Walter Hill, Enrico Ghezzi e Alice Diop, sarà bene inquadrare le questioni di fondo del big business. Premettendo che il cinema argentino sembra quello più vitale del momento (da “Argentina, 1985” di Santiago Mitre a “Trenque Lauquen” di Laura Citarella). Rispetto al 2019, prima della pandemia, il consumo cinematografico nelle sale sembra in caduta libera: - 20% nel nord America e -35% nel mondo. E per quanto riguarda i circuiti internazionali rischiano la bancarotta compagnie potenti di esercizio, come la statunitense Cineworld Group e la britannico Picturhouse. Tanto che nel 2020 il dipartimento giustizia degli Stati Uniti ha cancellato la celebre legge antimonopolistica del 1948 che impediva agli studi (e oggi a Apple, Netflix, etc.) di essere proprietari anche di sale di proiezione, oltre che produttori e distributori di contenuti. Perché questo poteva nuocere agli interessi commerciali (ben più sostanziosi) delle televisioni private. Questi dati generali sconfortanti che riguardano il numero dei biglietti venduti, riportati dalla rivista inglese Screen International, vengono confrontati con i box office dei singoli paesi. Senza i blockbuster, ovvero il cinema-cinema, il piacere del ritorno allo schermo gigantesco, cioé senza Top Gun (Paramount), Jurassic World Dominion (Universal), Doctor Strange, Thor (Disney) e Elvis (Wb), e nel mercato asiatico anche Bullet Train (che è Sony), la situazione sarebbe ancora più catastrofica, rendendo difficile la vita per tutto ciò che non sia il multiplex periferico e dei suburbi e i suoi viaggi mitologici negli archetipi spettacolari. In questo duro contesto i festival di Venezia e Toronto cercano di rilanciare il cinema, di qualità commerciale e autoriale, scendendo a patti con le piattaforme e i colossi del web, compromesso che sembra ormai inevitabile e che sta modificando anche l'high concept e il linguaggio dei film, sia del mercato “grande” che di quello art house. Toronto, rispetto a Venezia si è accaparrato il nuovo Spielberg autobiografico, “The Fabelmans”, “Empire of Light” di Sam Mendes – che di vecchie sale cinematografiche tratta – e poi le nuove fatiche di Mary Harron, Stephen Frears, Peter Farrelly, Francesca Archibugi, Reginald Hudlin. Ma condivide “The Whale”, “The Son”, “Saint Omer”, il tremendo “Other's People Children”, “No Bears” di Panahi, e ancora britannici “The Eternal Daughter” e “The Banshees of Inisherin”. Molti dei film visti finora – White Noise, Tar, il giapponese A Man, Athena, Bardo, L'immensità...) si giovano del fraseggio libero consentito dagli sviluppi narrativi - di gran fondo - delle serie web e tv, con i giochi manieristici infiniti che complicano fino allo sfinimento la personalità (e anche la sessualità) dei protagonisti, che nel film giapponese di Keu Ishikawa non a caso cambiano anche nome, ambiente e indole - capaci di sorprendere continuamente lo spettatori per i repentini salti di passo e di carattere. Trasferirli nel “mezzofondo” o nella “velocità” dei 90-120 minuti di un film da sala, però, non è sempre d'aiuto. Si aprono continui buchi nella continuity, come se costanti “salti della scocca” rendessero il prodotto frivolo, pronto a tutto, solo preoccupato di non appartenere più al “cinema della rappresentazione” o a quello della significazione, al cinema d'azione e racconto puro o al crito-film saggistico, cosa che la sensibilità postmoderna, insomma Lynch e Tarantino, ci avevano abituato a mescolare senza imbarazzo perché garanti di una “falsità seria”.
Stella Dallas di Henry King (Usa 1925) Preapertura muta della Mostra, con orchestra, eccellente, e partitura di Stephen Horne, di un classico del cinema pre-code. A Belle Bennet, diva bionda dell'epoca, qui gran dama sudista decaduta, vittima della desertificazione economica successiva alla guerra di Secessione, e alla fine dell'economia delle piantagioni, riesce quel che non era concepibile per Rossella O'Hara. La love story con lo yankee, cioé Ronald Colman (ovvero il simbolo stesso dell'eleganza recitativa e della “innata classe english”), qui rampollo nordista, e sentimentalmente rozzo, di una agiata stirpe di finanzieri, rovinata da uno scandalo, che scende al sud per ricominciare come manager di una industria tessile (il cotone adesso va lavorato in loco, la schiavitù diventa quella del salario). Ovvio che le due civiltà e i nostri due eroi non si capiscano (siamo a cavallo del secolo, tra 800 e 900) come non si capiscono ancora oggi. E i due si separano: lui torna a New York e lei (il caratterino è quello di Via col vento) resta orgogliosamente al sud, tra i suoi amici, i pergolati fioriti, le pettegole di provincia, una moda troppo marginale che la farà sempre più assomigliare a Mae West o a una drag queen, e quell'amore per la vita che uno yankee non capirà mai. Mentre la loro figlia riassumerà le due qualità di entrambi, la passione di mamma e l'eleganza di papà. Stella Dallas, a costo di perdere sua figlia per sempre, troverà la maniera per scaraventarla al nord, da papà e dalla sua nuova moglie, forse perché la nuova America rinasca, eliminando gli orrori del passato (il razzismo) e e della modernità (il manchesterismo...). C'è odore di F.D.Roosevelt e di new deal nel melodramma, ancora molto commuovente, fiammeggiante e anche un po' pessimista e disperato.
White Noise di Noah Baumbach Usa Apertura Adam Driver ha aperto le danze, un po' appesantito perché il suo personaggio lo esigeva. E' il brillante docente universitario di storia, sposato con 4 figli, uno più stravagante dell'altro, che Don De Lillo nel suo romanzo omonimo del 1985 descrive alle prese con l'ambiente culturale amorfo di provincia, con i suoi “Hitler Studies” e con un collega (Don Cheadle) che lo vuole complice dei suoi seminari sui rapporti tra psicologia di massa del fascismo e esplosione teenager del fanatismo divistico rock. A Baumbach piacciono le contorte storie d'amore, estremamente elaborate dal punto di vista dei dialoghi, che si intersecano in maniera spesso indecifrabile, alla Hawks, con Driver (Marriage Story fu premiato a Venezia nel 2019) e qui il contorsionismo coinvolge anche il genere catastrofico, cioè una nube tossica che minaccia la salute dell'intera regione e obbliga la famiglia a fuggire (c'è traccia del covid...), e i nervi a fior di pelle di una moglie (Greta Gerwig) molto inquieta alle prese con pastiglie poco raccomandabili e con guru spirituali ancora più inquietanti. L'inizio fa saltare perfino le lenti degli occhiali, poi questo prodotto Netflix rientra nei limiti di una circolazione emozionale controllata.
Tar di Todd Field concorso Tanti anni fa, nel 1974, una documentarista che meriterebbe l'onore di un premio alla carriera, la nordamericana Jill Godmilow, che è di Filadelfia ed è anche studiosa di letteratura russa, realizzò con Judy Collins un documentario femminista (candidato poi all'Oscar) sulla grande direttrice d'orchestra argentina Antonia Brito, che comprendeva esecuzioni mozzafiato di Beethoven, Listz, Brahms e Rachmaninoff. Titolo Antonia. La rivista militante dell'epoca, Women on film, le dedicò una decina di pagine con intervista, e si polemizzava con le titaniche difficoltà per una donna, di pur rara genialità, di dirigere un grande ensemble di professionisti. Il parallelo con le registe espulse dai piani alti di Hollywood era lampante. Ma Todd Field (che maneggia solo attrici da concorso, da Kate Winslet a Silly Spacek) sembra aver capito molto poco di quel personaggio e di quei problemi, anche se Antonia Brito viene distrattamente nominata. Infatti a Cate Blanchet - che del film è produttrice e nel film interpreta Lydia Tar, immaginaria direttrice d'orchestra, erede di Bernstein e a capo della Filarmonica di Berlino - viene lasciato campo libero, solo per giocare senza redini con il suo personaggio, strattonandolo da tutte le parti e suonando ogni tasto dello strumento, semi toni compresi. La polemista femminista, la jena lesbica, la studiosa accorata, il genio senza anima, la teorica cinica, la sensuale, la donna d'azione, l'opportunista imbarazzante, l'amante abbandonata e così via. Decentramento performativo, dunque, come nuova tecnica per sedurre le giurie? O il solito insopportabile film che, prodotto da una diva, aggiunge un 30% di primi piani di troppo?
Riget Exodus di Lars von Trier Molti anni dopo i dieci fortunati episodi ospedalieri di Il regno, girati per la televisione danese dal 2004 al 2005, e metafora di una società nordica gravemente malata e forse chirurgicamente inoperabile, ecco i nuovi 13 episodi, più sbeffeggianti e autoironici. E, in tempi no vax e neo oscurantisti, certamente illuminanti. A Venezia sono state presentate le prime 5 ore, in un programma diviso in due parti. Ho visto la prima parte della nuova stagione, dominata soprattutto da quella che sembra una polemica campanilistica, quasi da curva calcistica, tra Svezia e Danimarca, visto che il protagonista, un luminare (piuttosto reazionario e perfino inetto) chiamato a Copenaghen per ricoprire un posto di alta responsabilità ospedaliera, susciterà forti contrasti e vendette d'ufficio, impreviste ma anche necessarie. Credo che non tutte le sfumature umoristiche del confronto siano però, per noi, comprensibili. Von Trier conferma una abilità unica di fraseggio e di messa in scena, e nel creare atmosfere estremamente pericolose e porta al massimo della forma un cast mozzafiato e affiatato, cogliendo con la precisione di un laser, la realtà ospedaliera. Monumento alla scienza e alla razionalità occidentale che poggia però le sue fondamenta sull'irrazionalismo religioso e la magia più inquietante e macabra: i sotterranei di questo ospedale sono liquamosi e nauseabondi antri infernali, ma anche il terrazzo dell'edificio, protetto dalle più moderne tecnologie di difesa, è stranamente indifeso. Dobbiamo alla cultura arabo-medievale andalusa, scientificamente più avanzata dell'epoca, XII-XIII secolo, la concezione moderna dell'ospedale come è inteso oggi, non più ricovero dei poveri e dei derelitti, recinto di compassione cristiana per corpi senza futuro, ma luogo di cura, conoscenza, analisi, ricucitura e guarigione. Eppure anche in questi reparti digitalmente d'avanguardia covano le più impreviste “sacche di resistenza” arcaica, come gli adepti (laureati) di una setta “White Noise” (strana l'analogia con il film di Baumbach) che considerano il “rumore bianco”, cioè un rumore dallo spettrogramma piatto, come il segnale del dolore universale che richiede la nostra compartecipazione emozionale, attraverso l'elettroshock. Anche nel fim di Gianni Amelio “Il signore delle formiche”, su Aldo Braibanti e la sua odissea tragica, si vedrà una terribile scena di elettroshock. Strano. In Francia sono vietate le immagini di elettroshock. In Italia, nonostante Basaglia, non so.
Un uomo di Kei Ishikawa Giappone. Orizzonti. Uomo misterioso, sensibile, disegnatore, tagliaboschi, si innamora di una vedova di provincia con figlio piccolo che gestisce una cartoleria. Muore schiacciato da un albero. Si scopre che il suo nome è falso. Un investigatore, incaricato di scoprire chi era davvero quell'uomo, porterà fino in fondo la sua missione.... Molti giapponesi, si scoprirà, vogliono o debbono assumere altre identità. Il padre del 'tagliaboschi', per esempio, era stato condannato a morte per omicidio. L'investigatore privato finirà anche lui per innamorarsi della vedova, lascerà moglie (fedifraga) e figlio, e fuggirà in provincia. Vagamente ispirato a “Matilda” di Antonietta De Lillo. Dal best seller di Keiichiro Hirano è il quarto film di Ishikawa.
Marcia su Roma di Mark Cousins Giornate degli Autori Il film giusto al momento giusto. Nel centenario del colpo di stato che ha regalato all'Italia la sua prima dittatura moderna ci voleva un occhio acuto anglosassone (e spregiudicato) come quello dell'australiano Cousins per analizzare con maggiore distacco e profondità non solo la storia d'Italia ma anche quella del nostro cinema (un libro sullo stesso argomento, scritto dall'italo-californiano Steven Ricci, non è mai stato tradotto né pubblicato in Italia). Chiunque venga a Roma da un paese qualunque del Commonwealth e gironzoli tra lo stadio Olimpico e lo stadio dei Marmi, ma non è italiano, troverà troppo simile alla iconologia razzista di Pretoria le scritte inneggianti alla guerra, l'obelisco Dux e l'estetica fascista della statuaria “micho-macha”. In un cortometraggio anni 80 del sudafricano Stefano Moni quel parallelismo era proprio ben tratteggiato. E' infatti un documentario di propaganda dimenticato, il film A noi, realizzato come instant movie dal fascismo, a svelare sotto gli occhi di Cousins alcune verità scottanti e dimenticate. Che quella marcia resistibile e umida, poco virilmente effettuata sotto una pioggia battente, e per questo poco fotografata, anticipata da un raduno a Napoli tutt'altro che riuscito, fu teleguidata non dal vigoroso Mussolini (diventato diversamente rivoluzionario nel 1914, ci racconta Angelica Balabanoff, solo dopo aver accettato una valigetta piena zeppa di soldi per far diventare interventista il pacifista Partito Socialista Italiano) ma dalla Confindustria, che decise la caduta del governo e i tempi e i rituali successivi: lo spudorato assassinio rivendicato di Matteotti, l'aggressione all'Etiopia, i lager in Libia, da anticipare campi di sterminio nazisti, i gas tossici usati contro la resistenza in Abissinia, invisibili solo a Montanelli, l'asse con Hitler e i disastri militari. Magnifico lavoro da diffondere sulla Rai in prima serata unificata, e nelle scuole.
Un couple di Frederick Wiseman Usa concorso Coraggioso come uno spettacolo di Andy Kaufman, quando il celebre comico – ci raccontava Man on the Moon di Forman - si metteva a leggere a teatro un intero romanzo, dall'inizio alla fine, questo secondo film di finzione del più celebre documentarista vivente, Wiseman, specializzato in film-maratona, è invece un omaggio non agiografico al metodo Straub-Huillet (in particolare al film-diario Cronaca di Anna Magdalena Bach). A colori, in stile più leggiadro, e molto breve (ma non per questo meno drammatico ed emozionante), è il ritratto di Sofia Tolstoj, attraverso il suo diario e le lettere al marito Leone, il celebre scrittore russo, ma non per questo impeccabile uomo. Allo scrittoio, in giardino, sulle rocce bretoni dell'Atlantico, tra i fiori, nei boschi, Nathalie Boutefeu (che ha selezionato gli scritti con Wiseman) legge la storia della sua complicità artistica, e di una passione lunga, avvincente, complicata e destinata alla rottura. E una intera fase del rapporto coniugale uomo-donna ottocentesco-novecentesco a entrare sotto il microscopio sensibile e implacabile di Sofia. Su questi testi, non a caso, stava lavorando negli ultimi anni di vita anche Rossana Rossanda.
Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmer Orizzonti C'era il culto della bellezza classica in casa Gemma e la pecora nera della famiglia ne è rimasta schiacciata. Un divo adorato, Giuliano, idolo del cinema popolare, quando tutti andavano al cinema, e una figlia non proprio perfetta, anzi attrice di non grande successo, un corpo da ritoccare ogni tanto. Però possiede ancora qualcosa, i ricordi, un cuore eticamente corretto, un autista fedele, uno stile cow-boy-spaghetti, tra Dolly Parton e Renato Zero, e care amiche, come un'altra figlia di padre illustre, la più fortunata Asia Argento. Il duo formato dall'alto-atesina Covi e dall'austriaco Frimmer è leader tra i “cacciatori di reale” del cinema d'oggi. Lo conferma una presenza costante nei festival prestigiosi e di ricerca. La pivellina è stato ovunque e Underworld ha avuto una menzione speciale alla Berlinale 2020. Entrano in un ambiente, scalpellano via ogni traccia di realtà, cioé di reale posticcio, di finzione da canone, e resta l'anima di una personaggio, di una famiglia, di una società, come la Roma invisibile di chi non possiede neppure le proprie catene. La Roma del cimitero acattolico. La Roma tra Pasolini e Russ Meyer che offre la sua bellezza solo a occhi esclusivi. Vera non ha pià la villa con piscina, ha sperperato i suoi soldi, perso le case di Parigi e New York, però ha mantenuto rapporti autentici con la città degli emarginati e degli artisti veri. Per deficit di intuito sbaglia quasi sempre l'oggetto d'affezione. E' un problema serio per chise ne approfitta. Non per lei.
Bardo di Alejandro Inarritu Messico concorso L'autore in crisi che svela le sue angosce più segrete, i suoi sogni mai realizzati, le colpe, i tradimenti. E rivela le sue scoperte, estetiche, politiche. L'auto-psicoanalisi è il genere chiave del cinema moderno. Da Fellini a Chahine, da Bergman a Godard, da Antonioni a Chantal Akerman. La postmodernità però ha fatto riemergere, accanto al punto di vista soggettiva, una differente “intensità politica”, non realistica ma visionaria, dell'immagine. Amores perros il film selvaggio che lo ha rivelato a Cannes 2000 svelava una Mexico City di entusiasmante e insostenibile vitalità, anche se marginale e repressa. Dopo due oscar nordamericani il regista torna per la prima volta in Messico e racconta in 65mm e per Netflix la sua crisi esistenziale di cineasta di successo che forse ha tradito il suo popolo, i suoi amici, la sua famiglia, anche se tutti, a nord del confine e a sud di Tjuana lo vogliono premiare. Intanto nei deserti di confine migliaia di messicani poveri muoiono tentando di raggiungere stipendi umani proprio nel paese che da 200 anni sta distruggendo l'economia della loro patria, dopo averne fraudolentemente rubato molte terre e che li tratta da servi e giardinieri. Una tragedia che non è utilizzata da Inarritu per lavarsi la coscienza, ma entra nelle sue immagini... ombre giacomettiane che corrono e svaniscono, ingombrano sogni e incubi. Lo travolgono.

Nessun commento:

Posta un commento