di Roberto Silvestri
L'Italia annichilita del 1945 rischio' di perdere per sempre il suo cinema. Churchill spingeva per la dissoluzione di Cinecitta'. Gli americani ancora roosevetiani, e piu' pragmatici, decisero di risparmiare la robusta rete di sale, le maestranze e una imprenditoria d'eccellenza, da riconvertire al mercato libero
e alla democrazia. Il miracolo neorealista, pero', non puo' nascondere il prezzo che abbiamo pagato in termini di autodeterminazione. Per esempio. La Francia puo' accedere a una percentuale sugli incassi in sala (anche dei film americani) che permette di finanziare, tuttora, il proprio cinema nazionale. Noi non
possiamo. Ma Andreotti, per decenni responsabile Dc del cinema, teorico di una industria “mista”, basata sulla dialettica, tra imprenditoria privata e sovvenzioni pubbliche, dal retrogusto clientelale, non e' stato pero' solo un amico fidato del padrone. Ha saputo mediare anche genialmente tra interessi contrastanti, tra produttori ed esercenti, tra industriali italiani e Hollywood, tra Vaticano e societa' civile piu' aperta, tra comitati civici fanatici e Pci. Il viruosismo politico di Andreotti, persino patriottico, sara' finalmente analizzato in ogni aspetto e sfumatura, anche censorio, anche autoritario (la riabilitazione del gerarca Freddi consenti' con abile mossa ad Andreotti di licenziare Elsa Morante come critico ufficiale della radio pubblica, sostituendola con Gian Luigi Rondi), da un film. “Giulio Andreotti – Il cinema visto da vicino” e' l'atteso documentario (sezione Orizzonti di Venezia 71) di Tatti Sanguineti, frutto di una
lunghissima intervista (che, integrale, diventera' un dvd) con il piu' controverso uomo politico del secondo dopoguerra. Tatti e' convinto che il materiale che ha raccolto gli permettera' di realizzare presto una seconda parte del film. Vedremo.
Gia', per decenni, chi (forse) bacio' Riina, e certamente ne limito' la voracita' in base alla famosa strategia politica della limitazione dei danni, ha anche curato gli affari di Cinecitta' e dintorni. Sanguineti, di cui sta per uscire da Adelphi il saggio su Sonego, Il cervello di Alberto Sordi, tra i piu'
acuti critici, nel 1989 con l' “amico e maestro” Alberto Farassino, pubblico' gia' in un importante studio sull'Italia neorealista le risposte epistolari dell'ex sottosegretario di De Gasperi a 13 domande che gia' contengono
il nucleo teorico-politico del film. “Mi trovavo come l'asino tra i suoni”, confessa a un certo punto Andreotti in perfetto ciociaro, strattonato da tutte le parti. Per esempio, come avra' fatto a convincere gli esercenti avidi di profitti hollywoodiani ad accettare la quota di programmazione obbligatoria di film italiani? Sanguineti ricorda che Andreotti cerco' inultilmente di sedurli con un risultato calcistico particolarmente favorevole: “Quattro a uno. Trovate voi un’espressione più felicemente sintetica per descrivere lo stato del nostro
cinema di allora! 4-1. E gli esercenti questo 'uno', che erano i film italiani, non lo volevano nemmeno. Si dovette imporglielo con la programmazione obbligatoria. Quando Andreotti molla il ministero dello spettacolo (affidandolo per decenni a suoi fidi), il cinema italiano faceva il 56% di incassi”. E quando non li controllera' piu', gli esercenti saprammo come aggirare la legge senza conseguenze penali. Perche' Saguineti, ex sessantottino duro e puro, si e' accostato al nemico principale della sua generazione (come spiega molto bene Todo modo di Elio Petri, nella retrospettiva veneziana)?
“Lavoravo sullo sceneggiatore per eccellenza del democristiano Sordi: l’ex comandante partigiano Rodolfo Sonego della brigata Garibaldi sull’altopiano di Belluno, ex capo militare comunista numero 8 della lista degli uomini da deportare del golpe De Lorenzo. Alla fine di queste sedute, Sonego mi disse
«Voi non avete capito niente di niente. Se volete capire cosa è successo veramente in quegli anni, dovete andare da Giulio Andreotti: e' vero, Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti fare cinquemila».