di Roberto Silvestri
Francesco Savio: “Eri una
diva!”
Valentina Cortese: “Non ero
una diva. Ero molto alla moda. Non mi sono mai sentita diva”
Francesco Savio: “Però si può
esserlo anche involontariamente”
Valentina Cortese: “Per un
certo tipo di pubblicità, sì, in fondo penso di esserlo. Anzi lo sono. Insomma
è una cosa che mi fa ridere. Poi, così, di me, si è creato un personaggio
strano, curioso, c’è questo mito…(da Cinecittà
Anni Trenta, vol.1)
Chissà perché, quando ho
sentito di Valentina Cortese che è morta a 96 anni, ho pensato in
sovrimpressione a un’altra ribelle dolce, a Daniela Gara, che morì tanto tempo
fa, nel 1988, a 46 anni lasciandoci la sceneggiatura su Beatrice Cenci per il
cinema.
Due grandi performer,
indipendentemente dall’incommensurabile grado di notorietà e dalla differenza
generazionale. Maestra e allieva. Entrambe abbandonate dal padre.
La prima vissuta fuori dal ventennio, fuori dal neorealismo
fuori e da Beverly Hills, sempre oltre. Non
si piaceva per molto tempo sullo schermo: “Mi fischio perché mi detesto!”. Tranne
dopo Roma città libera di Pagliero
(1946), con un personaggio più vero, maturo, realistico. E ha cominciato a
vedersi…. E studiarsi. E correggersi. La tecnica c’era: “Mai avuto bisogno
della glicerina, per piangere”.
La seconda anima ribelle, si
chiamava Gara, nome agonistico, perché se l’era scelto da sola, nome d’arte.
Faceva arte. Fu la Giovanna d’Arco e dei Macelli del Movimento rivoluzionario
prima, e del movimento femminista poi, enfant prodige e poi gianburrasca nel
Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler (che con Valentina Cortese era
stato per molto tempo). Qualcuno la ricorderà, assieme a Paperina, in Parco Lambro di Alberto Grifi tra le più
organizzate assaltatrici del palco maschilista e del camion pieno di polli. Sentirsi
sempre giovani dentro. “sei di sinistra fai l’underground poi ti accorgi che il
tipico undergrounder sta sulla porta della sua cantina e abbaia minacciosamente
“off off off” contro tutti quelli che vogliono entrare….”
Forse le accomunava questa
capacità di trasmettere energia radiante. Di parlare sempre molto bene dei loro
colleghi e colleghi (béh, non proprio di tutti).
Quella sovrimpressione
incrociata è infatti arrivata di colpo, prima ancora di ricordarmi il volto, i
gesti, il corpo e la voce di Valentina Cortese. Che faceva a Cinecittà già i
film hollywoodiani che avrebbe poi fatto in California… Quattro ragazze sognano di Guglielmo Giannini, per esempio. Che era
ambientato proprio in America. E girato in piena guerra con gli Stati Uniti! O Soltanto un bacio su soggetto di
Giuseppe Marotta. Prima di passare mentalmente e con wikipedia/filmlexicon in
rassegna la sua carriera, la sua filmografia, la Cena delle beffe, dove Calamai ha il senoni di fuori mentre lei,
Elisabetta, ha i seni strettamente fasciati perché Blasetti la voleva magrina,
bambina pura… e Le amiche di Antonioni,
l’ingenua distratta Deanna Durbin nostrana dei telefoni bianchi, Cottafavi,
Bava, Freda, Fulci, Dassin, Wise, Fellini…. Effetto
Notte sul cui set usò per la prima volta i pezzettini di carta per
ricordarsi le battute. Ma soprattutto quella vertiginosa, indimenticabile
reinvenzione pop di Giuseppina di Beauharnais, prima moglie di Napoleone. Fu
mozzafiato quella macchia di emozioni, colori, sguardi, vestiti anno 1967. Un
robot, un sintetizzatore, un dispositivo avveniristico. Magnetica, perfino per
Zeffirelli. Ecco i mille volti e gesti del divismo hollywoodiano classico, dalla Durbin alla Garbo, dalla Dietrich a
Tallulah, quando ormai il divismo non c’era più, e Valentina Cortese nella Contessa a piedi scalzi osserva
preoccupata Ava Gardner, la femme fatale innalzata sul podio, nel vestito da
sposa di Edith Head, e sembra che pensi: “bisogna conservarne la traccia, la
maschera della diva". Oppure attraverso le poche puntate tv dello sceneggiato in
bianco e nero I grandi Camaleonti di
Fenoglio-Zardi dove sapeva come andare oltre le righe con equilibrio e stile. Portare
se stessi (non farsi vedere, che è
tecnica da piccolo attore secchione, o da cantante seducente, che so, da Renato
Rascel) in modo che sia estremamente
preziosa e pericolosa la tua presenza. Neanche fosse la regina d’Italia.
Daniela Gara |
Ma Daniela Gara? Anche lei
sicuramente avrebbe adorato Deanna Durbin mentre canta I love the whistle! sgambettando in bicicletta. Era una
fischiatrice altrettanto drastica.
Ho abitato nei primi anni 70 forse
nel 1973 forse nel 1974, per qualche tempo in via Manara a Trastevere con Daniela
Gara e tanti altri. Lei probabilmente reduce dalla tournée di Hair era impegnata al teatro Belli nel
ruolo di Zinaida Bunina in Cuore di cane
di Bulgakov con Antonio Salines e Magda Mercatali. Oppure nel 1974 quando
faceva programmi femministi a radio
radicale, il doppio ruolo di Calibano e Murugan nell’ Isola della Tempesta di Moretti e Tito Schipa jr. e Adelaide Bobò
in Les Negres di Genet.? Bo’.
Pagavamo comunque 55 mila lire
di affitto al mese, dividendo la cifra tra sei sette amici. Una comune mutante
di compagni che andavano e venivano… C’era Filippo Altobelli, di Cinecittà come
me, che mi chiarì passi oscuri di Kant e Garroni, e aveva dipinto una parete
come si faceva sotto acido ricordandosi di
Kirchner. Martine Cavanna, di Parigi periferica, ex studentessa di Vincennes, con
la quale restammo sbigottiti e attoniti il giorno di Pasolini massacrato, e che
lavorava all’Aied benemerita; Rita Ciotta, dei Parioli, che scriveva su Noi donne, Francesco Petrone, Colle
Oppio, pianista, che sapeva tutto e da più punti di vista. La figlia ricca di
un’illustre magistrato… E poi passavano spesso di lì il pittore concettuale
veneziano Carlo Di Leo con la sua ragazza milanese Anna (che detestava ed era
quasi l’unica Godard e adorava Giordano Bruno e aveva ispirato il romanzo credo
inedito Anna di Alberto Episcopi )….
Tra essi in una delle cinque stanze, quella vicino alla cucina, c’era, in
momentaneo relax perché la vita dei clown è on the road, Daniela Gara e il suo
bellissimo baule rosso d’attrice, quelli con i cassetti e le stampelle per i
vestiti.
Daniela Gara |
I grandi attori non recitano,
sono recitati, perennemente frugati da spettri.
Non c’è bisogno di rievocare Carmelo Bene, basta Eleonora Dusa:
“Recitare? Che brutta parola! Se si trattasse di recitare soltanto, io sento
che non ho mai saputo né saprà recitare!” Oppure anche, seguendo Piera Degli
Esposti: “Io non posso vedere chi deambula sul palcoscenico, chi sta
disinvolto. Il gesto inutile è un gesto folle. Io detesto chi fa come chi,
nessuno deve fare come chi. Lì si sta per delle ragioni precise, trascinati da
un vento, da un’ora che cade, travolti. Altrimenti non è il palcoscenico. In
teatro si sta sempre in situazioni estreme. Se non sono divelto dalla sedia, cosa ci faccio qui? Se non è stravolto, se non
impazzisce, quello che è lì sopra…”. In bilico sull’abisso, come il corpo vacillante
di Olimpia Carlisi. Fu Daniela Gara a parlarmi di Paolo Poli e della sua
autonomia e genialità. Di Rascel con lei in 20
zecchini d’oro regia di Zeffirelli, 1969, mi ricordava l’egoismo e la
cattiveria sovrumana. E poi mi parlava molto di Valentina Cortese, con la quale
aveva lavorato in Santa Giovanna dei
Macelli di Brecht diretta da Giorgio Strehler e di quanto le dovesse
umanamente e professionalmente anche nell’epoca in cui prendeva tre Mogadon per
dormire la notte. Orfanotrofio, madre adottiva, portiera di uno stabile
milanese, muore quando lei ha 11 anni, ancora orfanotrofio. Poi teatro. I giganti della montagna di Pirandello.
“Scappa dalla fila delle
compagne, si precipita nel camerino di Valentina Cortese e afferma con forza,
“io farò l’attrice”. Sedotta da questa strana determinata creatura, Valentina
Cortese si offre di aiutarla; e da quel momento l’attrice sarà per Daniela un
riferimento costante” (Professione
attrice, pag. 11)
E mi ricordava dell’aneddoto
di Righelli che sul set di Fuori dai miei
confini aveva chiamato un violinista a suonare, solo per Valentina, per
ispirarla, le note laceranti del Tristano.
Mentre spesso lavorando con alcuni registi teatrali di sinistra per esprimere
dei contenuti “i canali, lo sbocco, nella misura in cui, l’analisi, perché
compagni in effetti… e poi ti mettono una mano sul culo come tutti gli altri”….
Ed ecco che nel volumetto a
cura di Roberta Mazzoni di e su Daniela Gara, Professione attrice – frammenti
di una autobiografia postuma (edizione dellautore, 1996) acquistabile a 11
euro su Ibs, prezzo giusto costava 20 mila lire, troviamo un bellissimo scritto
di Valentina Cortese proprio dedicato alla sua seguace, con la quale condivideva
un certo gesto “me too” ante litteram…. Una sera a Hollywood, nei primi anni
50, la nuova star del cinema
americano (lo
slogan della
Fox è “Prima
la Garbo, poi
la Dietrich e
adesso la Cortese”)
viene invitata a una festa dal
boss della Fox Darryl Zanuck che le fa la corte. Quando arriva
nella villa
scopre però di
essere finita in
una sorta di
orgia. Indignata, getta
il bicchiere di whisky in faccia al produttore e decide di partire con
il marito Richard Basehart per l’Italia. La sua esperienza a Hollywood era
giunta al termine.
Una donna da non dimenticare
di Valentina Cortese (*)
Stavo recitando nei Giganti della Montagna di
Pirandello e vidi entrare nel mio
camerino una fanciulla magra con l’aria di chi non mangia tanto spesso, patita.
Ma c’era qualcosa in lei che mi colpì subito: un viso intelligente, spiritoso,
con una luce bruciante negli occhi, una personalità viva, straordinaria. Quando
poi cominciò a parlarmi di teatro, del suo desiderio di recitare, fui
conquistata dalla sua preparazione teatrale, dalla sua cultura. Sapeva tutto,
conosceva tutti. Io la presi sotto la mia ala e mi considerai un poco la sua
mamma in arte. Ragazza di carattere, di coraggio, generosissima: pur di
difendere una causa, un’idea, una persona che ingiustamente si trovasse in
difficoltà, non esitava a prenderne la difesa, a combattere in prima persona.
Una volta si prese a male parole con Giorgio Strehler (cosa molto coraggiosa
per un’attrice a inizio carriera) e questo per difendere una sua compagna
maltrattata ingiustamente dal Maestro. Strehler gliela fece pagare cara e,
nonostante ne riconoscesse il grande talento, l’anno dopo non la fece più
scritturare per alcuni anni non volle più parlarle. Daniela non si perdette
affatto d’animo, tutt’altro, non le andava proprio di lavorare con un “despota”
simile, pur ammirandolo profondamente. E da quel momento incominciò la sua
fortuna, proprio così. Lascò Milano e incominciò a girovagare per il mondo:
Parigi, New York, Los Angeles, Australia, Sud America…Vita dura, vita
difficile, ma sempre con grinta, con grande passione, con grande voglia di
riuscire di farcela.
E “ce l’ha proprio fatta” e
con immenso successo.
Non potrò mai dimenticare il
suo calore umano, la sua disponibilità, il suo ottimismo. In particolare la
ricordo durante lo spettacolo Santa
Giovanna dei Macelli, al Piccolo Teatro, dove Daniela mi commuoveva sempre
quando, in alcuni miei momenti di tristezza, di preoccupazione, di ansia,
veniva nel mio camerino e improvvisava piccoli spettacoli clowneschi, inventava
situazioni buffe e divertenti finché non vedeva sciogliersi la mia tensione e
io tornavo a sorridere.
Il suo lavoro sui personaggi
era di totale immersione. Un lavoro fatto in profondità, che partendo dalla
psicologia del personaggio, la portava a trovare il tono di voce, la mimica, la
gestualità giusti per trasmettere al pubblico quello che è poi l’essenza dello
spettacolo: il testo con i suoi contenuti, di volta in volta poetici, drammatici,
filosofici.
Non ci sono dubbi in questo
senso Daniela è stata un’attrice completa: ed è stata anche e soprattutto un’attrice
di grande istinto. Un vero animale da palcoscenico.