domenica 7 luglio 2019

Ombre bianche. "Seconda patria", emigranti italiani in Labrador. Il nuovo film di Paolo Quaregna




di Roberto Silvestri  

Un documentario sul problema dell’emigrazione. E sul problema dell’accoglienza, ancora più inquietante oggi, visto che dall’inconscio italiano riaffiorano spettri inquietanti.
Sì, certo, ma rovesciato (siamo noi i migranti, ed è il Canada che i accoglie). E non solo. E’ un prezioso film di combattimento. La Seconda Patria di Paolo Quaregna, che sarà nelle sale dall’8 luglio, per un tour estivo con relativi dibattiti, fa parte di quelle rarissime opere che più che essere giudicate, ti giudicano. 
Sono oltre 30 milioni i cittadini italiani che emigrarono in altri paesi del mondo negli ultimi 100 anni. E oggi ci sono circa 70 milioni. Un seconda Italia, appunto. 
Operai, contadini, disoccupati costretti alla fuga dalla fame e dalla repressione politica, profughi del fascismo e dalla globalizzazione e dunque emigranti economici, proletari e oggi proletari laureati, proprio come le moltitudini sub-sahariane in esodo oggi.
Se tornassero da noi, quegli italieni, probabilmente si parlerebbe di intollerabile invasione. Si urlerebbe: la barca è piena! Non possiamo accoglierli tutti…
Il muro di diffidenza e sadica perfidia che separa gli stanziali dai nomadi si osserva periodicamente durante le elezioni politiche nazionali, commentando da destra a sinistra, i voti che arrivano d’oltremare. O dalla freddezza se non peggio dal silenzio (notata nel film di Paolo Quaregna dal cineasta italo-canadese Paul Tana) con la quale vengono accolti i film dedicati alle nostre comunità .
Per esempio, hanno lasciato morire i festival dedicati alla diaspora italiana, come era il Sulmonacinema film festival per qualche anno. E chi può accedere dunque alle opere che negli ultimi decenni hanno raccontato le vittorie e le sconfitte degli  emigranti e le emigranti contro padroni, mafia, leggi discriminatorie e oscurantismi vari incorporati nelle nostre famiglie tradizionali? Vi dicono qualcosa  certo Sacco e Vanzetti e grazie a Deaglio e al suo bel libro anche Carlo Tresca. Ma conoscete i film Café Italia Monreal (1985) e La Sarrasine (1992)? Mai sentito parlare dei cineasti Paul Tana, Tony Nardi, Giovanni Princigalli e Bruno Ramirez (che hanno appena finito il montaggio di un atteso Tre compagni di Montreal, speriamo che si riesca a vedere presto in Italia in un festival importante)? Vi ricordate di Walter Chiari, eroe di un romanzo autobiografico di Nino Culotta, emigrato in Australia, dal titolo Sono strana gente nel film del 1966 di Michael Powell?

Johnny Stea, uno dei protagonisti del film 
Paolo Quaregna nel suo secondo film canadese dopo Dancing North non si occupa in modo generico del tragico autoesilio italiano, dei proletari friulani, veneti e meridionali, indocili al dominio dei Savoia che trovarono fortuna e sfruttamento più tollerabile oltreoceano alla fine del XIX secolo, e poi di nuovo alle due ondate migratorie degli anni ‘20 e ‘60 del secolo scorso.
Seconda patria, una coproduzione tra Italia   Ila Palma di Rean Mazzone e Dream Film (Belluscone, Totò che visse due volte, L’isola, Che cos’è un Manrico) e Canada, con la partecipazione dell’Istituto Luce-Cinecittà e dei suoi favolosi e molto ben utilizzati reperti d’archivio, non è neanche, più semplicemente, un puzzle di storie quebecoise: i drammi e i successi, il ghetto e l’integrazione, il razzismo subìto e la recente riabilitazione d’immagine dei nostri lavoratori e lavoratrici a nord del fiume San Lorenzo, nelle zone dove si vive a 50-70° sotto zero...
Tra qualche giorno  il primo ministro canadese, il liberal Justin Trudeau, dovrebbe ufficialmente chiedere scusa alla nostra comunità per le angherie, gli internamenti e gli espropri illegali subiti durante la seconda guerra mondiale, quando gli italiani, “nemici di guerra” (ma la maggior parte senza colpa) furono imprigionati nei campi di concentramento. In fondo questo meticciato fertile ha prodotto giornali, radio, tv, e la supoer star Yvonne De Carlo, il musicista Guy Lombardo e  Vincenzo Natali, quello di Il cubo.
Ma di questo non si fa cenno nel film. E neppure del conflitto interno alla comunità, sia generazionale che sessuale, che tra socialisti, comunisti e anarchici da una parte, e fascisti, inebriati dalle imprese aeree di Cesare Balbo e imperiali di Graziani, dall’altra.
Sono lo storico del movimento operaio Ramirez, l’attore Nardi, il regista e docente di cinema Tana e il documentarista drastico Princigalli (Ho fatto il mio coraggio, 2010) che ci raccontano da anni questa zona oscura del nostro passato rimosso.
Invece qui, in Seconda patria, entriamo nel fuori campo o meglio nel fuori orto di interni familiari apparentemente normali. Oggi gli eredi di chi viveva in 40 in locali fatiscenti hanno case accoglienti e gestiscono chi una macelleria, chi un barber shop, chi un caffè con le foto degli azzurri campioni del mondo, nel gelido nord del Quebec. Entriamo anche nei paraggi dei set libertari e antifascisti di Tana e Ramirez che maneggiano memoria e testimonianze orali sepolte dalle storie ufficiali, ricostruiti nella Petite Italie  di Monreal e finanziati dal National Film Board, braccio pubblico che negli ultimi decenni ha imposto nei festival uno stile originale, aggressivo, sensibile e adulto (pensiamo alle commedie sardoniche di Denys Arcand). Le radici della tranquillità odierna sono nella banalità selvaggia e coraggiosa di genitori tifosi della Juve e del Napoli, che costruirono ferrovie di inizio Novecento a 70° sotto zero, picconavano carbone negli abissi, rischiavano il licenziamento perché manovali non qualificati che gli armadi a muro di legno proprio non li sapevano costruire.
Uno spirito di resistenza d’acciaio. Sofferenze sopportate solo per un futuro migliore, per i loro figli e le loro figlie. Ne valeva la pena? Sì. Intanto si producevano pomodori da favola, perfino a quelle temperature. E alberi di frutta che, di inverno, venivano seppelliti per resistere alle intemperie. Il genio italico di cui parla Christine Lagarde all’opera. Dal basso. Dove è più invisibile e geniale.
Costruzione della ferrovia nel Labrador 
E’ un elogio, il film, all’emigrazione estrema, pericolosa e “folle”. Proprio come quella che oggi rischia di essere inghiottita dal Mediterraneo e dall’Oceano Indiano.
Quaregna come Nanouck segue tra i ghiacci le tracce di una bande a part di connazionali, pochi avventurieri disposti alle più rischiose peripezie per sopravvivere, a costo di gettarsi nell’ignoto, nel gelo più insopportabile, nelle miniere più claustrofobiche, nelle zone dove solo i dago, i wop, cioé gli italiani offesi come i nigger, si avventuravano a paga infima. “Vietato l’ingresso a cani e italiani”  è un détournement da un documentario belga o svizzero degli anni 50. Un effetto speciale che colpisce nel segno.
Attraverso nove ritratti intimi di italiani di oggi diventati canadesi del Quebec, che ricordano le avventurose esperienze loro o dei loro genitori pionieri, Paolo Quaregna, da sempre cineasta-antropologo, si mette così sulle tracce di connazionali come Johnny Stea. Si aprono gli album fotografici. Si raccontano i legami con l’Italia, la sorpresa di trovare, nelle fabbriche tessili locali, cucitrici inette o grossolane, digiune di Penelope, da addestrare; l’astuzia di farsi credere falegnami pur non avendo mai preso una sega in mano; come si diventa cuoco per necessità, perché intrecciare sapori è nel dna mediterraneo; come ci si rende conto che si morirà con i polmoni intasati di carbone se si resterà  sottoterra un giorno più del dovuto… 
Quaregna infatti si chiede attraverso questi incontri e ricordi di famiglia, che avrebbero molto interessato Gregory Bateson, come nutrire una cultura nazionale (e risponde  tramonta se non resta “permeabile” alle altre, attraverso lo scambio, la contaminazione, il movimento, l’ibridazione, la “bastardaggine”, i porti aperti) e quali modifiche alla tradizione impediscano la mummificazione della nostra identità europea (e risponde: superando la multiculturalità, che separa con il muro della tolleranza repressiva costumi e leggi, attraverso dispositivi transculturali che amplino lo spettro della libertà e dei diritti collettivi alla felicità e annichiliscano le zavorre arcaiche e bigotte dei tradizionalismi).
Come è importante oggi ricordare a noi, lontani cugini italiani in crisi di identità, la lezione etica della famiglia Stea, originaria di Sannicandro di Bari, prima minatori in Belgio nell’immediato dopoguerra, poi lavoratori occasionali a Toronto e a Montreal, operai senza sindacato nelle miniere di ferro di Schefferville, nel Grande Nord polare canadese e poi l’azzardo del commercio, l’acquisto della casa (su un pezzetto di terra strappato alla riserva Innu) ma anche la capacità istintiva di rispettare quei vicini ghettizzati e di farseli amici.    
In un paese come il Canada, di grande tradizione sperimentale e documentaristica (da Grierson a McLaren), con un mercato cinematografico commerciale interamente colonizzato da Hollywood (anche se molti canadesi contribuirono a farla grande da Allan Dwan a Mary Pickford, da Raymond Burr a Norman Jewison e tanti altri), si creò negli anni 60 e 70 una originale deformazione del cinéma vérité inquinato da forma liberate (dalle nouvelle vague) di fiction. Si chiamò cinéma direct e i suoi più importanti esponenti furono  Gilles Groulx, Michel Brault, Jean-Pierre Lefebvre e Pierre Perrault. La realtà sociale e psicologica dei canadesi venne smascherata,  rovesciata come un calzino e lavata da ogni incrostazione auto-apologetica e ideologica. Quaregna si avvale proprio di questo metodo e di questi procedimenti. Non esperti. Non voce off. Il partito preso delle cose. Fatte e dette.
Seconda patria ricorda infatti, attraverso un raffinato lavoro di found footage, che al settimo gruppo etnico dello stato nordamericano (un milione e mezzo di cittadini sono di origine italiana) sono già stati dedicati lavori di sociologica e poetica importanza, a cominciare dal bellissimo Note su una minoranza (1964) di Gianfranco Mingozzi (che ovviamente viene ben maneggiato).
Paul Tana regista italo-canadese di La Sarrasine
Il Quebec era stata una prima scelta di molti abruzzesi, molisani, campani e calabresi, per la vicinanza “latino-cattolica” con la nostra cultura rispetto ad altri territori, come l’Australia, altrettanto bisognosa di manodopera a basso costo. Ma il film  è più interessato al rapporto orizzontale  tra le comunità paria di ieri (cinesi, portoghesi, greci, latinoamericani..) e di oggi (arabi, afghani, africani subsahariani…). E al rapporto con gli ultimi, i nativi Innu.
In un recente viaggio in Vaticano Trudeau ha ricordato al Papa che tra il 1840 e il 1996, oltre 150mila minorenni indigeni furono strappati alle famiglie e mandati in scuole finanziate dal governo federale e gestite da chiese cattoliche, anglicane, presbiteriane: nel 2015, la commissione per la verità e la riconciliazione – Truth and Reconciliation Commission, Trc – ha confermato che in questi istituti gli indigeni dovettero rinunciare alle loro tradizioni e furono vittime di abusi, malattie, e decessi sospetti.
Il razzismo sottostante a queste pratiche emerge nel film di Quaregna. Era proibito ai ragazzi italiani frequentare i loro coetanei innu. E viceversa. Mentre Seconda patria ha proprio il momento clou, il punctum, proprio nel rapporto d’amicizia tra il macellaio Johnny Stea e il cantautore vicino di casa e leggenda vivente della musica innu Florent Vollant, che ricorda nel suo studio di registrazione di Maliotenam, come già suo padre fosse legato al “padre del tuo amico italiano, che ci ha fatto conoscere il vino, la bottiglia di Chianti con la paglia, gli involtini, la salsiccia e O Sole mio”. Ma soprattutto erano rimasti colpiti dal fatto che  gli italiani rispettavano come nessun altro la cultura dei nativi. “Adoravano la differenza. Non ne avevano paura”.
Nel suo lungometraggio del 1999 Dancing North Quaregna aveva raccontato la storia di un musicista rock europeo che arricchiva la sua tecnica musicale proprio entrando in rapporto profondo emotivo e linguistico con la musica e la cultura Innu. Aver lavorato venti anni sul territorio prima di montare un nuovo lavoro che ha questo stesso paesaggio, anche mentale, come protagonista, è già la prova di un procedimento alternativo, di un rispetto psico-geografico inusuale e di una sostanza conoscitiva profonda restituita in tutta la sua complessità. 




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