martedì 30 dicembre 2014

I migliori venti film dell'anno. Serve sempre la classifica come promemoria per gli anni a venire.....

Top Twenty 2014 *
chiedendo scusa a James Gunn perché gli abbiamo storpiato il titolo del suo film per parecchi giorni...

(di roberto silvestri)

fuori serie Timbuctu di A.Sissako

1. Boyhood-Pride
2. Adieu au langage
3. Guardians of the Galaxy
4. Scemo più scemo 2
5. Si alza il vento
6. Maps of the Stars
7. Grand Budapest Hotel
8. Pasolini di Ferrara
9. Il giovane favoloso di Martone
10. Interstellar
11. Belluscone
12. La trattativa
13. Jersey Boys
14. Le meraviglie
15. Wolf of Wall Street
16. Only lovers left alive
17. Foudre di Manuela Morgaine (Francia)
18. The Look of Silence di Joshua Oppenheimer (Usa)
19. Lav Diaz l'ultimo ** sostituito da The Green Inferno di Eli Roth
20. Return to Nuke 'Em High Volume 1 di Lloyd Kaufman

* ma chissà quanti me ne sono dimenticati.....
** mi sono sbagliato, quello che ho visto è del 2013....

e non ho visto  il film di Lav Diaz che ha vinto Locarno.

domenica 28 dicembre 2014

Adieu au langage. Cut up alla mescalina. Perché questo Godard è uno dei 10 migliori film dell'anno



di Roberto Silvestri 

Volete provare sensazioni inabituali? Tipo una istallazione di Bill Viola o un viaggio con la mescalina, che ci purificano dalle immagini guaste, marce o usurate, ma stando comodamente seduti in una sala cinematografica?  Ecco il film che fa per voi.  

Bello come una gita al luna park nei primi anni del 900, Addio al linguaggio, “investigazione letteraria” di Jean-Luc Godard è uscito addirittura - ed è l'unica mezza rivoluzione dell'era Renzi, finora - nelle sale italiane dopo l’applaudita “prima” di Cannes. E’ in 3d, l'opera, come Hercules. Ma utilizza lo smatphone oltre alle solite cineprese digitali (Canon, Go-Pro) e mette al bando la dinamica narrativa.

Si dipinge "non quel che si vede, perché io non vedo niente, ma quel che non si vede", diceva un celebre pittore imprssionista di nome Monet. Ma, naturalmente nei nostri schermi non è uscito in 3d, quasi ovunque.E il 3d è un gioiello perfetto per veder dentro il nulla.

Espulsi dallo schermo suspense e personaggi stereotipati - insomma il linguaggio con cui la televisione ipnotizza (si cita spesso Vladimir Kozmic Zworkin, il russo che la “inventò” nel 1923) - l’intento è liberarci dalla grammatica e dalla sintassi che imprigionano le immagini. 

Il visuale televisivo imprigiona, per esempio, gli ospiti dei talk-show a mezzo busto. In modo che siano tutti uguali, figure cangianti di una stessa gerarchia di potere autorizzata. Ed ecco che Godard per dire ateisticamente 'addio al linguaggio', o per esclamare un po' più rispettoso "oh dio, il linguaggio!", per scindere la realtà dalla lingua, “taglia le teste e il collo" - novello sanculotto dell'immaginario, o guerrigliero anti Isais - ai suoi corpi: una donna sposata (che si chiama Ivich, Josette e Mary) e il suo amante provvisorio (Marcus, Gedeon e Davidson). Parlano, litigano, fanno l'amore o si fanno del male, ma non “dialogano” in vista di un’azione. Le azioni si prestano ad essere simultaneamente più di una. 

La ribellione è spazio-temporale, come in Interstellar o su Facebook o in La Jetéè di Chris Marker.

E, mentre rispetta il collo, la testa e figura intera solo del loro cane, di nome Roxy Miéville, un nome per nulla casuale (“l'unico essere vivente che ama gli altri più di se stesso”), Godard insegue, sfoca, distorce, capovolge, inquadra obliquo e incastra i torsi umani, i pezzi di corpi, nudi per lo più, mostruosizza i piedi, in spazi (interno giorno, esterno notte e viceversa) dai mille piani. 

Il 3D permette un infinito gioco ottico: dalla prospettiva rinascimentale che penetra nella profondità dello schermo fuoriesce un cono visivo che, esternamente, arriva fino al nostro occhio, come ci ha insegnato a fare l'arte del XX secolo. Così Godard va dallo “zero all'infinito”, dal “sesso alla morte”. 

Giocando con altri compagni di avventura. Il film è infatti fatto non su, ma con: Hannah Arendt, Jacques Ellul, il mondo, la natura, i libri, delle donne e degli uomini, la solitudine, il totalitarismo, l'amor proprio, il romanticismo, la cacca, la musica, i bambini, il lago Léman, il pensatore di Rodin, Frankenstein, Byron, Shelley e Mary Shelley...

Umoristicamente, eroticamente Godard inserisce in questo gioco barocco, di interni ed esterni mobili, la proliferazioni dei piani, inclinati o meno, suggerito dagli oggetti (abat-jour, spigolo del tavolo, vaso da fiori, sedie, etc) imbastiti e cuciti con scritte (“Natura”, “Metafora” “3D”, “malheur historique”...), spezzoni di film in tv, di tavole d'arte (Cranach...), rumori e suoni a volumi cangianti, voce off, colori lisergici e solarizzati digitalmente. Memore della lezione di cubisti, dadaisti (Duchamp è citatissimo) e Hitchcock che in Delitto perfetto (girato in 3d) offriva una “analitica dello spazio profondo” capace di concedere libertà di movimento, dinamico e autonomo, allo spettatore, costretto in un film normale a entrare con il corpo nel “tempo altrui” del regista. Un collage a ritmo di rap, ritagliato con il metodo del cut-up.

L'esperienza Godard è una boccata d'aria fresca rispetto all'umiliante esposizione continua al visivo sterilizzato, che impone parole d'ordine, palesemente ripetute o pericolosamente subliminali: questo è bello, buono, permesso, tabù… Godard fa giocare invece lo sguardo libero con immagini polivalenti. E mette in gioco i nostril occhi: per vedere bene è meglio ora chiuderne ora l’uno ora l’altro. Il 3d diventa strumento analitico e di combattimento. 

da sinistra Alain Sarde, produttore e gli attori Amel Abdeli, Richard Chevallier, Héloïse Godet, Christian Gregori, Jessica Erickson, Zoé Bruneau
Perché “non si deve più descrivere la vita della gente ma la vita tutta sola, quella che è tra la gente e gli oggetti. Lo spazio, il suono, la foresta dietro la finestra, i colori, la scrittura....”. 

Comunque sarà bene lasciare la parola a Godard, perché così il cineasta parla dei suo film, così lo racconta, anche se di quel che dice un regista sul proprio film deve essere sempre fuorviante, falso, ingannevole, e non fa che complicare le cose. Come al lun a Park. Senza inganno nessuno entrerebbe nella tenda a vedere le mostruose meraviglie dell'umanità....

 

"Le propos est simple. Une femme mariée et un homme libre se rencontrent. Ils s’aiment, se disputent, les coups pleuvent. Un chien erre entre ville et campagne. Les saisons passent. L’homme et la femme se retrouvent. Le chien se trouve entre eux. L’autre est dans l’un. L’un est dans l’autre. Et ce sont les trois personnes. L’ancien mari fait tout exploser. Un deuxième film commence. Le même que le premier. Et pourtant pas. De l’espèce humaine on passe à la métaphore. Ca finira par des aboiements. Et des cris de bébé" (Jean Luc Godard)


La produzione è franco-svizzera.  Il formato 1.78:1. Josette è Héloise Godet, Gedeon è Kamel Abdeli, Marcus è Richard Chevalier, Ivitch è Zoe Bruneau, Davidson è Christian Gregori e Mary Shelley è Jessica Erikson. Il direttore della fotografia è Fabrice Aragno. Il narratore è Jean Luc Godard. Il film ha vinto a Cannes 2014 il premio della giuria assieme a Mommy di Xavier Dolan. I produttori sono Alain Sarde, Vincent Maraval e Brahim Chioua (che ha prodotto anche i film di Kechiche).




“Due giorni, una notte”. I fratelli Dardenne al fianco di Landini. Non si tocca la dignità dei lavoratori. Un horror sula mutazione della classe operaia in forza lavoro....






di Roberto Silvestri



Sandra e le altre (Marion Cotillard)
La ficion/non fiction dei due fratelli cineasti belgi apre ancora una volta uno squarcio sui bassifondi dell'età contemporanea. Profagonista è la fabbrica di oggi, quella post fordista dove chi lavora quasi non conosce chi gli lavora accanto.... 
Non sappiamo se per il fatto di aver conquistato numerose medaglie sulla Croisette, i Dardenne siano i migliori cineasti del mondo. Ma si può affermare, a differenza di quel che scrive il loro più implacabile nemico - ma è francese, pieno di pregiudizi, Eric Neuhoff (di Le Figaro) - che, novelli muckrakers, i due fratelli valloni siano diventati gli idoli dei cinema d'essai. Perché con il loro scrutare inquietante toccano sempre i punti più deboli, i nervi scoperti, del Mito Europa. L'emigrazione e la disoccupazione, la disperazione dei più giovani e il "no future" degli zombies metropolitani, il supersfruttamento delle donne e ogni tipo di marginalità, lo sfaldamento della famiglia, la droga utilizzata come arma anti-sociale...

E la loro ricetta “fiction non fiction”, inventare e registrare, fiabe morali raccontate come se fossero documentari-verità, o cinema diretto, è originale e molto apprezzata da chi cerca al cinema più del pop corn caldo e di una gioiosa, rassicurante visione dell'esistenza. Ma non tollera prediche o monologhi calati dall'alto. I Dardenne non sono militanti politici né boyscout. Si identificano con i loro personaggi. Anzi è come se entrassero nella loro testa, nei loro corpi. Cervello e immaginazione. Infatti. La cinepresa, ineducatamente a ridosso di nuca, è la loro griffe rinomata, di origine controllata, quasi oggetto di parodia. Certo introdursi nelle parti basse del mondo senza dare consolazione populista, non è giocare alla ricreazione.
I fratelli Dardenne e Marion Cotillard
“Il cinema è la vita senza noia”, affermava Hitchcock, e Psycho confermava. “Il cinema è noia, senza la vita”, la disperazione tel quel, la bruta lotta per la sopravvivenza, precisano i fratelli Dardenne davanti a un mondo che è catastroficamente peggiorato dall'epoca Hitch, visto che oggi perfino i comici hanno contratto il virus della rabbia. Anche nel Belgio, zona Liegi, francofonia. Dimostrazione? Rosetta, la sedicenne licenziata, con madre alcolista che si prostituisce, eppure non demorde; L'Enfant, ovvero vendersi il figlio neonato per pagare i debiti; Le silence de Lorna, la giovane albanese sposa che un eroinomane mafioso, sperando poi che crepi di overdose per conquistare la nazionalità belga; Le Gamin au vélo, un biondo teenager delle bandlieu cerca il padre che non vuole proprio saperne di lui...In fondo il loro cinema piace perché è un cinema del “non”. No. Non si può andare avanti così. Non cercano i Dardenne. Danno una risposta. E la risposta è: preferirei di no. Così non va.

Marion Cotillard e Fabrizio Rongione
Negli ultimi tempi quello che ha più interessati i Dardenne, amici e compagni di un altro cineasta impegnato, ma francese, Laurent Cantet, è infatti la fabbrica. Quel che sta succedendo nelle ex roccaforti della difesa sociale contro lo strapotere padronale. Perché e come si stia sfaldando la composizione e la coscienza di classe. Le macerie, perfino morali (pensate all'Ilva) lasciate dopo l'attacco al fronte unito sindacale, soprattutto nelle aziende più piccole. La delocalizzazione all'estero. Il toyotismo, la lavorazione robotica computerizzata, ha reso non solo l'operaio distante e ostile al suo stesso vicino di linea, ma affetto da una serie di micidiali micro o macromalattie fisiche, nervose e mentali che i sistemi di lavorazione Tmc-1, Tmc-2  e Tmc-3, hanno decuplicato rispetto alla catena di montaggio.

Il padrone non si rapisce più come una volta....
Senza considerare lo sradicamento dei quartieri operai, la chiusura dei bar proletari, dei cinema di terza visione, dei negozi di quartiere schiacciati dalle catene, che hanno disgregato nel territorio compagni di lavoro un tempo solidali e che oggi a malapena si conoscono, anzi istintivamente si detestano. Mors tua vita mea. Tranne a Taranto dove la morte è una prospettiva collettiva. 

E' questo lo sfondo, il non detto ben visibile raccontanto in Due giorni, una notte (Deux jeurs, une nuit), il nuovo, geometrico, ripetitivo, seriale incubo dei Dardenne. Sandra (Marion Cotillard), aiutata dal marito cameriere, e da una Ford Fiesta, due bimbi piccoli da far crescere, ha solo un week end per convincere i suoi 15 compagni di lavoro a bloccare il suo licenziamento e a rinunciare a un premio di 1000 euro, bonus che fa gola a tutti. Deve trovare sulle pagine gialle e sul computer gli indirizzi e i numeri di telefono dei suoi compagni di lavoro che già, in un primo turno di votazioni hanno decretato la sua cacciata (niente Facebook in Belgio). Per fortuna il misericordioso padrone concede un secondo referendum. Il primo è stato frettoloso e falsato da allarmismi e panico.



Jean Pierra Dardenne, Fabrizio Rongione, Marion Cotillard e Luc Dardenne
"Ho bisogno di quei soldi, anche se capisco che quei 1000 euro con la crisi che c’è vi fanno gola. Ma lunedì, votate per me”. Lo stesso discorso a tutti. “Mi sento una mendicante” confesserà al marito. Solidarietà elegante di classe o barbaro egoismo? Chi vincerà? Ciascuno dei compagni, donne uomini vecchi giovani maghrebini, reagisce diversamente a Sandra, che si impasticca continuamente, per non mettersi a piangere. E’ reduce da una bella depressione che l’ha tenuta fuori gioco da un anno…Ma ora c'è chi chiede scusa per aver votato contro di lei e assicura la sua lealtà. Chi si nasconde dietro il marito o la moglie per spiegare il suo “no”. Chi cerca di prenderla a pugni. Chi è terrorizzato, un immigrato africano, poi rassicurato dal voto segreto, per esempio. Un tempo avrebbero preso il direttore di fabbrica e, buttatolo giù dalla finestra, avrebbero autogestito l'impianto. Ma adesso non si può più. La globalizzazione impedisce la tutela nazionale dell’occupazione e il controllo del ciclo di lavorazione.
A Cannes!
Dunque Sandra, che esce da una depressione clinica, causata proprio dai modi di produzione, ma utilizzata per farne il capro espiatorio del giochetto sadico padronale, è esposta alla gogna. Ne uscirà mantenendo la sua dignità e quella di tutta la classe operaia? Certo. Lei, che regge interamente sulle sue spalle il film, è una infaticabile Marion Cotillard, determinata come non vedevamo nessuna dai tempi di Miss Murple nella serie di George Pollock. Jeans e canottiera arancione. Imbruttita al massimo, occhiaie sottolineate. Eppure basterebbe spostarla al reparto marketing e i profitti aumenterebbero di colpo.....Anche senza fard.Il segreto dissimulato del film è la sua modernità, contemporaneità visuale. Infatti il racconto si srotola "a montagna russa", è una continua ripetizione di incontri al vertice, Sandra e i suoi colleghi, equivalenza di ciò che nel cinema d'azione è lo scontro cruento, la battaglia campale, il duello all'ultimo sangue. Insomma i Dardenne abbandonano la forma a climax, il salire verso un finale happy, previsto dal codice "asonata". In perfetta sincornia con il design e il procedimento di un altro film toyotista, sebbene più fracassone. Transformers 4.

Melbourne, il cinema iraniano che non ci piace. La patria non si lascia. Mai. Inebria lo sciovinismo di Nima Javidi, allievo e seguace di Asghar Farhadi


Negar Javaherian, protagonista di "Melbourne"


di Mariuccia Ciotta

Negar Javaherian e Peyman Moaadi
Una valanga di elogi ha inebriato il 34enne Nima Javidi, regista iraniano di Melbourne, lungometraggio d'esordio, presentato alla Settimana della critica di Venezia, e uscito nelle sale italiane qualche settimana fa, “attesissimo”.   
Discepolo di Asghar Farhadi, Oscar 2012 per il miglior film straniero con Una separazione, Javidi ne assorbe stile e architettura, ispirato, dice, da Hitchcock e Polanski per il suo thriller tutto in una stanza, dove una giovane coppia, Amir (Peyman Moaadi, protagonista di Una separazione) e Sara (Negar Javaherian) si prepara a lasciare l'Iran per la never-land, l'Australia.
Peynan Moaadi
Il “dentro” dell'appartamento, in subbuglio per il trasloco, è violato dal “fuori”, i rumori della modernità, cellulari, campanelli, citofoni che assediano i due eccitati per la nuova prossima vita, e dove lei, bellissima,  potrà finalmente scoprirsi (chissà) la testa velata. 
Ma il senso di colpa per la fuga - leit-motiv del cinema iraniano che passa il visto di censura - si materializza nel corpicino inerte di una neonata, figlia dei vicini, affidata alla coppia da una baby-sitter irresponsabile. La piccola non dorme, è morta. Perché? Quando? E parte la suspense, una tensione crescente, la paura di essere scoperti, i sospetti reciproci e lo scambio di accuse tra Amir e Sara. Nessuno dei due chiama l'ambulanza per timore di un fermo di polizia e di perdere l'aereo. E il cadaverino giace avvolto nelle fasce, testimone dell'innocenza abbandonata, chiara metafora dell'Iran, la patria non si lascia (Farhadi insegna). Ma è l'abilità di Javidi nella costruzione dello psico-dramma a incantare pubblico e critico, la stessa di  Una separazione, rete di coordinate (im)morali che si propongono come “universali”.
Nima Javidi
In un paese dove i maggiori cineasti sono esuli come Amir Naderi e Abbas Kiarostami o agli arresti domiciliari come Jafar Panahi, condannato a 6 anni di reclusione e a 20 di interdizione (non può girare film né rilasciare interviste), il giovane Nima Javidi  dichiara: “Non credo che ci sia molta differenza tra il produrre un film in Iran o altrove”.  I suoi aspiranti alla libertà, i coniugi che sognano Melbourne, saranno dunque puniti.
E' vero che il nuovo corso della repubblica islamica presieduta dal più conciliante Hassan Rouhani sembra dare i suoi frutti, tanto che la decana del “cinema delle donne”,  Rakhshan Bani-E'temad, ha avuto il visto dopo anni di attesa per i suoi timidi quadretti al femminile, Storie, passato sempre a Venezia. Ma il film di Javidi non mostra segni di ribellione etico-estetica, e si propone di rivolgersi innanzitutto al pubblico iraniano, altro che riconoscimenti internazionali riservati ai “disertori”, simulando una godibile confezione all'occidentale (L'appartamento di Billy Wilder!). Il finale di Melbourne sembra aperto, ma non lo è affatto assicura il regista.
Quell'aeroporto non sarà mai raggiunto, perché  “Io credo che non solo in Iran, ma ovunque nel mondo, chi lascia il proprio paese rifiuta di assumere le sue responsabilità. L'emigrazione di per sé ha il sentore della mancanza di responsabilità”. Un aspetto che “cercavo in realtà di tenere nascosto”. Chi ha occhi, però, vede. 

giovedì 28 agosto 2014

Il film di Tatti Sanguineti su Andreotti

di Roberto Silvestri

L'Italia annichilita del 1945 rischio' di perdere per sempre il suo cinema. Churchill spingeva per la dissoluzione di Cinecitta'. Gli americani ancora roosevetiani, e piu' pragmatici, decisero di risparmiare la robusta rete di sale, le maestranze e una imprenditoria d'eccellenza, da riconvertire al mercato libero
e alla democrazia. Il miracolo neorealista, pero', non puo' nascondere il prezzo che abbiamo pagato in termini di autodeterminazione. Per esempio. La Francia puo' accedere a una percentuale sugli incassi in sala (anche dei film americani) che permette di finanziare, tuttora, il proprio cinema nazionale. Noi non
possiamo. Ma Andreotti, per decenni responsabile Dc del cinema, teorico di una industria “mista”, basata sulla dialettica, tra imprenditoria privata e sovvenzioni pubbliche, dal retrogusto clientelale, non e' stato pero' solo un amico fidato del padrone. Ha saputo mediare anche genialmente tra interessi contrastanti, tra produttori ed esercenti, tra industriali italiani e Hollywood, tra Vaticano e societa' civile piu' aperta, tra comitati civici fanatici e Pci. Il viruosismo politico di Andreotti, persino patriottico, sara' finalmente analizzato in ogni aspetto e sfumatura, anche censorio, anche autoritario (la riabilitazione del gerarca Freddi consenti' con abile mossa ad Andreotti di licenziare Elsa Morante come critico ufficiale della radio pubblica, sostituendola con Gian Luigi Rondi), da un film. “Giulio Andreotti – Il cinema visto da vicino” e' l'atteso documentario (sezione Orizzonti di Venezia 71) di Tatti Sanguineti, frutto di una
lunghissima intervista (che, integrale, diventera' un dvd) con il piu' controverso uomo politico del secondo dopoguerra. Tatti e' convinto che il materiale che ha raccolto gli permettera' di realizzare presto una seconda parte del film. Vedremo.
Gia', per decenni, chi (forse) bacio' Riina, e certamente ne limito' la voracita' in base alla famosa strategia politica della limitazione dei danni, ha anche curato gli affari di Cinecitta' e dintorni. Sanguineti, di cui sta per uscire da Adelphi il saggio su Sonego, Il cervello di Alberto Sordi, tra i piu'
acuti critici, nel 1989 con l' “amico e maestro” Alberto Farassino, pubblico' gia' in un importante studio sull'Italia neorealista le risposte epistolari dell'ex sottosegretario di De Gasperi a 13 domande che gia' contengono
il nucleo teorico-politico del film. “Mi trovavo come l'asino tra i suoni”, confessa a un certo punto Andreotti in perfetto ciociaro, strattonato da tutte le parti. Per esempio, come avra' fatto a convincere gli esercenti avidi di profitti hollywoodiani ad accettare la quota di programmazione obbligatoria di film italiani? Sanguineti ricorda che Andreotti cerco' inultilmente di sedurli con un risultato calcistico particolarmente favorevole: “Quattro a uno. Trovate voi un’espressione più felicemente sintetica per descrivere lo stato del nostro
cinema di allora! 4-1. E gli esercenti questo 'uno', che erano i film italiani, non lo volevano nemmeno. Si dovette imporglielo con la programmazione obbligatoria. Quando Andreotti molla il ministero dello spettacolo (affidandolo per decenni a suoi fidi), il cinema italiano faceva il 56% di incassi”. E quando non li controllera' piu', gli esercenti saprammo come aggirare la legge senza conseguenze penali. Perche' Saguineti, ex sessantottino duro e puro, si e' accostato al nemico principale della sua generazione (come spiega molto bene Todo modo di Elio Petri, nella retrospettiva veneziana)?
“Lavoravo sullo sceneggiatore per eccellenza del democristiano Sordi: l’ex comandante partigiano Rodolfo Sonego della brigata Garibaldi sull’altopiano di Belluno, ex capo militare comunista numero 8 della lista degli uomini da deportare del golpe De Lorenzo. Alla fine di queste sedute, Sonego mi disse
«Voi non avete capito niente di niente. Se volete capire cosa è successo veramente in quegli anni, dovete andare da Giulio Andreotti: e' vero, Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti fare cinquemila».

martedì 29 luglio 2014

Vittorio Rivosecchi, un "americano" alla corte di re Artu'

Roberto Silvestri

Vittorio Rivosecchi e sua cugina Nilde Rivosecchi
E' morto a 63 anni Vittorio Rivosecchi. Era un amico e uno studioso, soprattutto, di cultura medievale. Uno dei fondatori e animatori per anni della casa editrice specializzara Viella. Eppure Vittorio Rivosecchi veniva dal liceo classico Augusto di Roma, dalle lotte nelle scuole nelle fabbriche e nella societa' intera degli anni sessanta. E poi si era occupato di cinema e non solo, nel gruppo di esperti ventenni allievi di Alberto Abruzzese e Beniamino Placido che Renato Nicolini aveva saputo valorizzare in quell'effervescente decennio.

Ma Vittorio come era arrivato a Hildgarda, a Boncompagno da Signa, ai "retori maestri" e ai "Fedeli d'amore" danteschi? Certo, e' sempre stato il piu' eccentrico del nostro gruppo. Il Clifton Webb dell'Appio Tuscolano. Uno stile "britannico" poco consono alle periferie grevi romane. Tre sue cugine bellissime, milanesi, d'altra parte erano sempre molto attese a capodanno. Anche perche' Vittorio organizzava feste 'barocche' e in costume in una vecchia villa di famiglia, nei mesi precedenti alla vendita, che era anche un vero set cinema per il nostro gruppo, di superottisti neomilitanti. Piu' di tendenza afghana (linea nero) che spartakista. Piu' lsd che cccp. E poi sua zia era una produttrice di cinema, addirittura il braccio destro di Bruno Bozzetto per anni. E si era trasferita negli States, dove la cugina Nilde aveva studiato alla New York University di Scorsese e Arkush... Come annichilimento del provincialismo non era niente male, quell'amicizia. Ci ha regalato poi tanto di quel senso dell'umorismo e di quella capacita' di identificare i tromboni all'istante, Vittorio, che per il nuclo politico di quel liceo alcuni sentieri sarebbero stati proprio impraticabili. Fanatismo e bigottismo, per esempio, li lasciammo ai "servili del popolo", figuriamoci le ipotesi di lotta armata: si liquefacevano ad ogni suo sguardo aguzzo e sardonico. Ma torniamo al "mezzo del cammin".  

Nel 1979 a Roma, Palazzo dell'Esposizione, ebbe un enorme successo la mostra "La citta' del cinema - Produzione e lavoro nel cinema italiano 1930-1970". A corredo un librone, edito da Napoleone, di 700 pagine, contenente saggi, analisi dei trenta anni di cinema trascorsi e soprattutto delle lunghe interviste ai cineasti che non sono, come comunemente si crede, i registi, gli autori, ma i creativi tutti, direttori della fotografia, montatori, produttori, capi macchinisti., scenografi, costumisti, musicisti... Il cinema e' arte di gruppo, mai dimenticarlo.

Era gia', in nuce, quella mostra, la prefigurazione di quello che oggi il ministro Franceschini auspica, un grande museo del cinema da affiancare agli studi cinematografici di via Tuscolana, rivitalizzati e competitivi. Solo che ci hanno messo 35 anni a capirlo (chi era effimero, Nicolini o i suoi agguerriti e critici?). Andare indietro significa marciare, piu' spediti, in avanti.Senza studiare le "beghine" medievali come capire qualcosa di femminismo, d'altra parte.

Vittorio Rivosecchi (e la cugina Nilde) a Milano
Proprio da Cinecitta', allora a pezzi rispetto agli altri studi prestigiosi del mondo che avevano saputo rimodernarsi, provenivano i "capolavori" esibiti. Pezzi di scenogrefie felliniane e non solo; costumi allestiti negli atelier Tirelli - che se si fossero tutelati un po' meglio come Zeffirelli chiedeva a gran voce avrebbero conteso agli inglesi il mercato dei filmoni storici in costume - manifesti d'epoca; fotografie di scena, giornali per fan, il merchandising, i flani e la pubblicita', videotapes e laser disc con le sequenze piu' celebri e quelle piu' ingiustamente dimenticate, girate dai "diversamente grandi". Dai genii del cinema commerciale, specialisti in western, horror, fantascienza, avventuroso, esotico, fantasy mitologico come Mario Bava, Vittorio Cottafavi, Lucio Fulci, Riccardo Freda....Quella generazione che Hollywood in crisi aveva studiato per poter diventare new Hollywood insorgente e per lanciare in tutto il mondo Spielberg e Lucas. E quella generazione di piccoli inventori pazzi che tutt'ora rappresenta il retroterra culturale, sofisticato e anarchico, di Quentin Tarantino e Eli Roth, Roberto Rodriguez e Guillermo del Toro, Landis e Joe Dante.

Reperti vari e mirabilmente montati in un labirinto di sentiero espositivo che risarcivano quella parte oscurata (allora) di creativita' nazionale. Grande scandalo, pero', mettere insieme Fatigati con Antonioni. Ma Carmelo Bene ci invitava sempre, dal palco, alle piu' sensate interferenze tra epoche e epoche'. Perche', senza conflitto, niente sviluppo, neanche artistico.

Vittorio Rivosecchi con la cugina Silvia
Erano stati i quattro moschettieri dell'assessore Nicolini, giovani ricercatori neanche trentenni, Bruno Restuccio, Massimiliano Fasoli, Giancarlo Guastini e Vittorio Rivosecchi, a realizzare la mostra e il libro (purtroppo molto fu tagliato da quelle interviste, un editore furbo dovrebbe chiede di pubblicare la versione integrale di quel lavoro pionieristico) che doveva "partorire" cio' che l'estate romana e Massenzio in particolare "generava". Modernita', scenari utopistici di cambiamento in meglio per tutti i consumatori, progetti architettonici per "altri cinema a venire" da realizzare, non piegarsi alla ineluttabilita' di quelle multisale e quei multiplex che ci aspettavano al varco inzeppandoci soprattutto di pop corn. Una modernita' basata su una riconsiderazione collettiva e critica del nostro patrimonio immaginario passato. Vittorio di suo agggiungeva un "discorso sapienziale" alla Boncompagno, una retorica che si proponeva non come sapere settoriale, sia pure di altissima dignita', ma come il sapere stesso, una sapienza dalle risonanze bbliche e post bibliche.

Il cinema italiano stava entrando in un letargo che continua tuttora. Quello era il segnale della riscossa possibile. Quando usci', pochi mesi piu' tardi, il "Fofi Faldini" sembrava gia' un libro sugli zombies. Un c'era una volta il cinema italiano....l'avventura era finita.

Bisognava ricominciare non da tre, ma dal terzo secolo dopo Cristo. I nicoliniani avevano ripreso tecniche e concezioni teoriche dal barocco romano. Non si parlava di "presa di Montecitorio" come della presa del palazzo di inverno? Ma cos'era Montecitorio? Un magnifico palazzo "interrotto" di Bernini/Fontana, che non riuscirono mai a unificare la piazza antistante con piazza Colonna, il papa non voleva...Gli artisti si scontrano con il potere spaziale della chiesa e non sempre la spuntano.  Ma chi era il papa di fine 600? Una specie di Bergoglio. Amava i poveri (edifico' per loro perfino San Michele) lotto' contro il nepotismo con impeto da movimento 5 stelle. E a Montecitorio fece ospitare  i poveri, non le signore, da casting di Greed, che si vantano urlando di "essere tutte puttane". Lo aveva edificato il pugliese Innocenzo XII, l'ultimo Papa con la barba, che era stato il nemico dei quietisti e della chiesa francese autonoma. Perche' autonoma? Perche' la chiesa gallicana voleva essere autonoma come quella anglicana. E non considerava il Papa il numero uno infallibile, ma solo il sinodo dei vescovi il vertice teologico.....E lotto' contro le "mistiche secolarizzate", come Hadewijch o Hildegarda. Insomma Vittorio ci insegno' non solo che era ora di finirla con le cose che ci raccontavano a scuola e che scrivevano i giornali e coi film che mostravano al Nuovo Olympia. Ma che la lunga marcia dentro le istituzioni, per essere vincente, doveva essere accompagnata anche da quella dentro i secoli, meglio se "bui". Bisognava proprio tornare indietro.

giovedì 17 luglio 2014

Per Paola Meo, bellissima comunista del XX e XXI secolo





di Roberto Silvestri 

Ricordo Paola Meo proprio cosi', come nella foto che sua figlia, la cineasta Anna Negri, ha postato oggi su Facebook informandoci della sua morte, e che li' ho rubato, ed e' qui sotto.


Era una delle bellissime 'teste politiche' di Potere Operaio, il gruppo piu' glamour e futurista del 1968 e di fin troppo lucida intelligenza teorica (dunque quello che sara' piu' perseguitato e punito anche al di la' dei suoi meriti).  Era la figlia di un famoso architetto veneziano che su commissione del patriarcato (Giovanni Roncalli) e amica di Cesare De Michelis, l'anima della casa editrice Marsilio. La rividi piu' di dieci anni dopo in via Tomacelli, sede allora del quotidiano il manifesto, altrettanto bella, tesa, dolce e combattiva, quando veniva a trovare Rossanda (e i pochi compagni del giornale che parteciparano con passione a quella campagna civile, non tutti) per combattere per la liberazione del marito e contro il teorema Calogera che voleva Toni Negri capo iper-clandestino delle clandestine Brigate Rosse. Ci riusci' a vincere. Nonostante il Parito Radicale che aveva costretto Negri a fuggire in Francia....Quel teorema, vera tragedia, aveva spedito per oltre 5 anni militanti innocenti in galera, causato fughe, esili e ingiustizie varie, ma ebbe la genialita' di anticipare, vera farse, la scena di un intero parlamento italiano, senato compreso, che voto' prima l'arresto del "grande capo segreto" delle Br, e poi, a maggioranza, ma anni dopo, che "dovevasi considerare la minorenne Ruby davvero la nipote di Mubarak...". Ecco il duplice giorno che decreto' la vera morte del senato. Non si trattava di un consesso di veri esperti anziani di cui ci si puo' fidare ciecamente?  

Ma torniamo al 68. Un giorno di tanti anni fa arrivarono in massa lei, Paola Meo, Toni Negri e 'quelli di Padova' alla facolta' di lettere e filosofia, all'Universita' La Sapienza, ad affiancare e spalleggiare (nello scontro abituale e spesso rude con i veterocomunisti, i terzomondisti e gli emme-elle, i maoisti, di purezza e durezza 'rococo' '), quel giorno senza carri armati dentro, i post-trontiani di Roma, Lepri, Virno, Paolozzi, Piperno, Scalzone e Castellano, potoppini ancora alleati, in quel frangente, credo, con il Manifesto gruppo politico...

Toni Negri, il professore, che ispirava sostanzialmente il settimanale Potere Operaio (un giornale magnifico, anche graficamente, che ogni tanto veniva sequestrato per reati d'opinione e il cui direttore Tolin, fu addirittura incarcerato, sempre per reati d'opinione) era al fianco di Paola Meo.

Da Padova ci arrivavano molte cose belle in quei mesi d'inizio anni 70. Prima di tutto i film di Cinema Zero, il cineclub che scovava copie di introvabili film americani degli anni 30 e 40 che Piero Tortolina, il nostro compianto Langlois, collezionava con amore e competenza e diffondeva nei clun cinema del paese, dal Filmstudio di Roma al Movie club di Torino (ma che Mazzacurati figlio, anche lui giovane potoppino padovano, combatteva da sinistra, finche' riusci' a strappargli il controllo del cinema e a imporre un tremendo e plumbeo gusto autorial-europeista-militante, da morettiano o da La Repubblica ante litteram).

Ma anche una collana di testi antagonisti formidabili (sui wobblies, o di K.H. Roth, o di Krahl....) che Feltrinelli di allora, e anche un po' di anni dopo la morte sul traliccio, tutt'oggi poco chiara, di Gian Giacomo, aveva appaltato alla facolta' di economia e scienze politiche padovane e pubblicava (prima che la vedova Feltrinelli li mandasse al macero). Libri scelti e curati da Toni Negri, Ferruccio Gambino, Luciano Ferrari Bravo, Bruno Ramirez, Paolo Carpignano, Gisela Bock...
Per non parlare delle prime tesi di agguerrite femministe emule di Selma James, come Lisi Del Re, Maria Rosa Della Costa, etc....

Negri, il compagno di allora di Paola, era quel giorno in maniche di camicia arrotolate, da professore giovanissimo, perennemente in tensione psicofisica, come se venti cervelli si coordinassero in una sola mente, proprio l'immagine che le istantanee di Tano D'Amico hanno poi immortalato per sempre durante i 'processi del 7 aprile' - la vergogna leader per la borghesia giuridica del nostro paese - con una montagna di appunti in braccio per dei seminari, degli 'attivi' politici della massima urgenza e una assemblea, presumibilmente di fuoco.Tutto in una giornata. Tutto in una notte. E Paola al di suo fianco. Che pareva un po' la coordinatrice vera dell'intervento 'nordista'. Sembrava lei la rete che teneva in pugno l'organizzazione, sempre sul punto di crollare per colpa di una esagerata auto-ammirazione. Come i tedeschi dopo aver vinto - non tanto limpidamente - la quarta coppa del mondo dei calcio...

Un intervento che - non mi ricordo bene la questione - doveva essere urgente. Magari una campagna di rettifica interna - contro le posizioni estremiste di Lanfranco Pace? - o magari una manifestazione da organizzare immediatamente per fermare i bombardamenti clandestini quinquennali di Nixon in Cambogia (li abbiamo fermati, quella generazione in fondo vinse qualcuna delle sue battaglie). Sicuramente il momento era drammatico. Ricordo che in quel momento mi e' parso piu' chiaro quello che i prof di facolta' piu' amati, Gianquinto (logica), Brandi (storia dell'arte), Asor Rosa e Abruzzese (letteratura italiana) e Emilio Garroni (estetica) mi andavano raccontando. Che il bello e' qualcosa che riusce a mettere in moto tutte le nostre facolta', anche quella di indignarsi. E non cio' che ingolfa un meccanismo. Troppa bellezza, a volte, inquieta. 
La bellezza fa paura, allora come oggi,e la bellezza teorica non ne parliamo. Le ragazze, sempre padovane, del salario al lavoro domestico gia' avevano acceso le micce. Un'altra fase post sessantottina e post settantottina stava iniziando. Paola non avrebbe bisogno di fare troppi salti mortali avvitati, come quelli di Toni Negri, per interpretare la fase. bastera' rileggere il libro autobiografico di Anna Negri per conoscerla piu' profondamente. Credo che per le giovani generazioni sia un obbligo.  

















mercoledì 16 luglio 2014

Maria Sole Tognazzi in America. Esce anche a Portland e a Buffalo Viaggio sola, ovvero A Five Stars Life, una vita a 5 stelle

Maria Sole Tognazzi



di Roberto Silvestri


 

Margherita Buy, premio David di Donatello 2013 come migliore attrice italiana protagonista grazie a Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi, apparve improvvisamente, vera folgorazione, sul grande schermo (alla Mostra di Venezia di qualche lustro fa) nel dramma La seconda notte, giovanissima presenza beckettiana in cerca impossibile di un equilibrio fisico e psichico (non formale, ma sostanziale), che, nel film dello scopritore, il regista Nino Bizzarri, diventava l'oggetto d'affezione di una persona che, proprio come lei, era un'effimero cliente d'albergo.
Ci disse a gesti e sguardi opachi, in quel film, con l'esperienza vispa di una acerba donna poco più che adolescente, che il mondo stava cambiando (in peggio) e che bisognava attrezzarsi alla difesa, chiudersi un po' a riccio, teorizzare timori e tremori perenni, modificando la fluidità spontanea dei nostri corpi, mettendoli di sbieco, in perenne stato d'allarme e di sospetto (sintomatica in La seconda notte, una sua scena davanti allo specchio, versione tragica di una sequenza dadà di Max Linder) e al di qua e al di là dell'identità di specie e genere che il femminismo aveva appena, e irreversibilmente, riaffermato, con la forza.
 
Fabrizia Sacchi e Giammarco Tognazzi in Viaggio sola
E consigliandoci perfino, uscendo dallo schermo già come giovane diva, comportamenti impropri e adocchiamenti volgari: non fu poi lei, assieme al suo compagno di allora, Sergio Rubini, a omaggiare, unica coppia conformista, il presidente Cossiga quando tutto il cinema italiano lo aveva giustamente criticato e isolato? Cos'era quella imbizzarrita 'mossa del cavallo'? Introversione radiante? Distrazione egemone? Polemica anticipata contro il manierismo dell'anti politica? Una cosa così. Una coetanea, Valeria Golino, non a caso stava già preparando le valigie per la California...


Margherita Buy la raggiunge oggi, qualche anno dopo l'epoca di Pee Wee, perché sta arrivato in America, in 19 sale, e non solo a New York (The Paris) e Los Angeles (al Royal), ma nei cinema commerciali intelligenti di ben 11 stati, da Washington a Buffalo, da Miami a Santa Barbara, da Detroit a Minneapolis, da Portland a Pasadena, proprio Viaggio sola, uno dei pochi film italiani acquistati da distributori Usa quest'anno. Il film uscira' dal 18 luglio 2014 e si intitola in inglese A Five Star Life, Una vita a 5 stelle. 
 
La programmazione di questo film negli Stati Uniti conferma l'attenzione critica e di pubblico ccrescente per il nostro cinema del XXI secolo, e soprattutto per le giovani registe italiane. Roberta Torre è stata invitata al Sundance recentemente. Miele, di Valeria Golino, è stato presentato dalla Cineteca America all'Egyptian Theater di Los Angeles in occasione di un omaggio, nel novembre del 2013, al cinema italiano, affiancato a La Dolce Vita di Fellini e a A Five Stars Life. Ad Alice Rorhwacher e al suo Le Meraviglie, le migliori riviste specializzate stanno dedicando acuti affondi critici, dopo il trionfo di Cannes (a cominciare a Cineaste). Asia Argento qui è quasi una di casa. Quel che affascina i nostri colleghi e il pubblico d'oltre oceano è che le nostre filmakers, idee originali a parte, riescono a maneggiare, e speziare meglio, la sostanza visuale delle loro opere. In fondo anche Sorrentino ha colpito molto di più gli angloamericani dei francesi e degli stessi italiani per la stessa ragione. Conoscono di più, e apprezzano in modo più sofisticato degli europei il lavoro sull'immagine in movimento, la sua sostanza fotografica, spaziale, luministica. Illuminante, in questo, la grande fotografa (anche del cinema) Elisabetta Catalano, quando mi spiegava che secondo lei La grande Bellezza ha restituito, e a colori, non tanto il fellinismo come tocco d'autore inimitabile, quanto le più belle scene girate in bianco e nero dai grandi cineasti italiani degli anni 50-60, realisti, grotteschi, ascetici o lisergici contemporaneamente, da Rosi a Lattuada, da Antonioni a Maselli, da Ferreri a Pasolini, da Olmi a Fellini. E' questo ha fatto impazzire l'Academy e la Foreign Press, ma californiana, dei Golden Globes, molto più colta dell'Europa sulla sostanza visiva (e non letteraria) di una immagine. Non si spiegherebbe altrimenti neanche l'entusiasmo americano per Visconti ristudiato da Io sono l'amore di Luca Guadagnino o per Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, dove si ricomincia da Anghelopoulos, due film che in Italia sono passati quasi inosservati o mal criticati. 

Viaggio sola, il nuovo film di questa nostra antidiva è andato molto bene anche commercialmente in Italia. Margherita Buy è Irene e duetta (anche nelle suite) con Andrea, che nella trama è un ex diventato amico del cuore, ed è una vecchia conoscenza, Stefano Accorsi, qui maniaco del biodinamico e distributore di cibi di qualità (tanto per ironizzare su Ozpetek?). Questo film è, stranamente, proprio un film sui grand hotel, quei sontuosi templi delle jacuzzi, del Martini cocktail agitato e non shakerato, della sauna, della piscina panoramica e dell'intimità negata, come scoprirà diventando l'amica casuale di una antropologa tedesca dall' eccitazione sessuale" imperante.

controllo delle lenzuola...
C'è un altro 'movimento 5 stelle' che appartiene a happy few, e non a uno solo. Di questo si occupa questo raffinato film, per il 17% di produzione Rai (che, non avendo il naso per gli affari, finanziano solo opere di qualità, ma per non insuperbirsi troppo, le finanziano con un nonnulla), dai cento piaceri (il soggiorno è da nababbi) e dolori (il conto alla fine, da emiri arabi) anche obliqui. I vestiti di Irene sono di Armani. Quasi quasi si ascolta un concerto di musica dodecafonica. E Alban Berg non abita a Cinecittà (in realtà non si sente, ma il montaggio 'atonale' di Walter Fasano ne dà un'idea). Si ammira come Irene tratta le nipotine, insegnandogli l'educazione, fatica da Ercole. E si gode dell'incontro/scontro, in automobile. Zeppo di perfidie sorellesche, tra Irene-Margherita Buy, la distratta intellettuale, e Silvia-Fabrizia Sacchi, che qui della distratta dà una versione popolare di charme pop: una mamma che si dimenticata tutto, e, sempre, le chiavi di casa e della macchina, ma che prosciugata dalle figlie, si è dimenticata anche del proprio corpo, dei vestiti sexy e delle scarpe coi tacchi di 15cm, abbandonando il marito musicista (il fratello della regista, Gianmarco Tognazzi) al bromuro digitale eterno di Internet. Niente sesso nei film, per il 17% di produzione Rai. Ma un bel po' di 'stronza!', tra donne, si può dire.
 
Margherita Buy è comunque quasi sempre via da Roma, e visita uno dopo l'altro, aeroporto-taxy-hotel, i migliori '5 stelle' della terra, ne valuta pulizia, arte, cucina, campo da golf, perfezione di gestione, timing e qualità dei servizi, attenzione o disattenzione esagerata verso i clienti, per decretare, tramite complicati algoritmi, formulari, quiz e osservazioni dirette, il mantenimento o la perdita del marchio di superqualità. E' il suo lavoro. E' una sorta di vestale della guida Michelin. Questi 'non luoghi' spersonalizzanti, odiosamente o sciccosamente di classe, sbriciolano la sua vita e la cosa le garba. Gli sceneggiatori avrebbero potuto divertirsi un po' di più... Libertà assoluta, nessun legame che la paralizzi o la condizioni. Qualche flirt fugace, che a volte funziona (si presume) e a volte no (come si vede a Marrakesh). Margherita Buy è una non casalinga inquieta. Algidi i suoi spazi domestici romani, e forse proprio per questo fu impossibile la relazione con Accorsi, che nei sottintesi è in cerca di coppia stabile e di figli (li avrà). L'uomo non è più come una volta.
Il film, dunque, e neppure obliquamente, è un omaggio proprio a questa attrice il cui corpo domina, a stento - ma più di un comico alla Jerry Lewis o alla Jacques Tati - l'illogicità dei consumi, la fatica del recettore diventato produttore (Magherita Buy compila, per lo spettatore, un promemoria: che anche nei cinema si valuti il film attentamente...nei dettagli), delle relazioni interprersonali e delle emozioni private dei tempi postmoderni, ed è indocile a ogni copione che non voglia partire dai suoi movimenti e comportamenti slabbrati, eccentrici, posterotici e sempre dalla parte del contorto. Perché semplici, naturali, razionali. Cose che fanno paura.
 
Maria Sole Yognazzi
Buy ne attraversa una decina, di super hotel, da Parigi a Fasano di Brindisi, dalla Toscana alla Sicilia, da Berlino a Shanghai...Ricorda un po' Billy Wilder, inebriato dal Ritz e da Audrie Hepburn nella ville Lumiere e fino ad Avanti! e a Buddy and Buddy... storie satiriche che privilegiavano sempre il super lusso e raccontavano, con arguzia al vetriolo, quel che Wilder ormai conosceva meglio, visto che vi passava gran parte dei suoi ultimi anni, tra festival e giurie, inviti a retrospettive o omaggi in tutto il mondo. Passano tutti negli hotel, c'è la folla concentrata, i vincitori e i vinti, i just in time e i fuori tempo. Bel mareriale per un regista.
Maria Sole Tognazzi, che mette in scena senza farsi prendere dal vizietto dello stile da esibire, ed è cosceneggiatrice con l'esperta Francesca Marciano e Ivan Cotroneo, è molto più giovane di Wilder. La sua conoscenza dei 5 stelle e dei resort, che sono un po' l'esperanto spaziale di ricchi e manager con yacht superiore a 17 metri, star e vip, sembra più intima, intensa e altrimenti autobiografica. Si vede che li conosce alla perfezione, quei luoghi 'secrettati', e non solo per essere la figlia di Ugo. Ne calibra intimamente difetti e grandezze. Questo dà al film una sostanza conoscitiva speciale e intima.

Su come sono glamour, su come sono inaccessibili. Su come sono anche freddi, anonimi, senza vita, asettici questi spazi damascati, fioriti e diversamente profumati. Mi piace, infine, che questo sia un film improprio, avulso, paria, né commedia italiana né dramma sentimentale. Un film che imbarazza il critico perché fa critica (del cinema limitrofo esistente di sistema o antisistemico, notare quel finale con svolta 'quasi alla Diritti', e non poco parodistico) senza compromessi e ammanicamenti; poi perché è un film didattico, in senso rosselliniano: ma invece di parlarti dell'età del ferro o di spiegarci Socrate, ti da una serie di dritte su come comportarsi con il barman dell'Excelsior, utilizzando un espediente alla ministro Urbani (il “product placement”: come utilizzare gli sponsor dentro il film senza farsene possibilmente accorgere) per esibirne virtù e limiti, orrori e piaceri. Ormai, dopo averlo visto, gli italiani di tutte le classi sociali finalmente entreranno nelle hall degli alberghi e metteranno in soggezione chiunque, non solo i bellboy.



domenica 6 luglio 2014

Antologia. Stephen Harvey su Paul Mazursky

Il regista, sceneggiatore e produttore Paul Mazursky
di Stephen Harvey *

Forse il film piu' emblematico dei primi anni 70, almeno nel senso che riesce a cogliere l 'atmosfera che pervadeva la Hollywood del tempo, e' stato Alex in Wonderland di Paul Mazursky. Questo film, cosi' ostentatamente "personale" parla di un giovane regista che affonda nelle secche della "New Hollywood" .

Donald Sutherland in Alex in Wonderland
Reduce dal passeggero successo del suo primo lavoro, il protagonista interpretato da Donald Sutherland non sa decidersi ad affrontare il soggetto del suo nuovo film. In mezzo a inconcludenti riunioni di produzione con il suo produttore, il nostro eroe si perde in fantasie felliniane su un film che probabilmente non si fara' mai.

In un certo senso Alex in Wonderland risulta essere una riflessione sull'epoca molto piu' accurata di quanto Mazursky si rendesse conto mentre lo realizzava: come il suo immaginario soggetto, il film si muove nella vana ricerca di un sicuro filo narrativo, spermentando lungo la strada una eclettica varieta' di stili. Eppure molto, troppo tipicamente, al momento della sua uscita, Alex in Wonderland fu lodato dalla maggioranza dei critici e accolto con indifferenza dal pubblico.

Il poster del film
* dal saggio "Il nuovo pubblico tra gli anni 60 e 70" in Hollywood 1969-1979 Immagini Piacere Dominio. Libro a cura della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro 1979 (Editore Marsilio)



VERSO I CINEMA SEGRETI. E VIVA JOHN BADHAM

Una domanda a Paul Mazursky, nel 1979.....


Ma ci sara' ancora un pubblico per il cinema nel futuro?

La gente va ancora al cinema, ma non sarei sorpreso se tra 10 o 15 anni venisse sostituito anche nelle case piu' povere una uno schermo casalingo. La tecnologia va molto veloce. E' arrivata quasi prima di quanto prevedesse George Orwell di 1984. Ma io sono ottimista riguardo alle qualita' umane dell'individuo. Alla fine vinceranno. Fose ci saranno cinema segreti, ma ci saranno.

Paul Mazursky
Il cinema aveva un po' il ruolo di pubblico confessore, e oggi gli e' stato tolto da questi capi di sette pseudo religiose che vanno tanto di moda. Aveva preso il posto del buffone di corte, del clown e della commedia delll'arte e gli e' stato tolto a sua volta dalla televisione. Credo che dovremmo tornare un po' alla tradizione di puro entertainment che aveva il cinema una volta. In questo senso per me Saturday Night Fever e' un buon film.

Il conflitto tra l'aspetto creativo e l'aspetto economico e' una delle attrattive maggiori di questo lavoro. Come lo e' la sfida rappresentata dal pubblico. Puoi fare tutte le previsioni che vuoi, investire tanti milioni, ingaggiare i migliori attori, avere il regista del momento, poi il pubblico si annoia. Se c'e' un bel film ma la gente dice che e' noioso, e' impossibile costringerla ad andarlo a vedere. Cosi' come e' impossibile impedirglielo se c'e' un film orrendo che tutti dicono che e' divertente! Dal mio punto di vista Harry e Tonto, la storia di un uomo anziano e di un gatto, avrebbe dovuto fare molti soldi. A New York 18 critici su 20 ne  hanno parlato bene. Ma dopo due settimane e' stato tolto dalla circolazione. Il pubblico e' imprevedibile....