venerdì 26 luglio 2013
La guerra mondiale contro gli Zombie di Mark Forster
Roberto Silvestri
Un morbo global. Una influenza letale, tipo spagnola, avvelena viralmente il mondo. Gli effetti dei morsi assassini sono devastanti. La zombizzazione degli umani, partita in India o in Cina (ovviamente, ma perché?), dilaga ovunque. Forse solo il nord del Minnesota l'ha scampata (?). Israele non esiste più... E, nel resto del mondo, gli esseri umani stanno scomparendo, morsicati dai crazy bodies famelici e trasformati in alien.
Jerry Lane (Brad Pitt), funzionario investigativo dell' Onu piuttosto avventuroso, messa in salvo la famiglia da Filadelfia a Newark - moglie, due figlie piccole wasp e un orfano ispanico - e poi via elicottero su una portaerei al largo dell'Atlantico, accetta - sotto ricatto - di cercare un antidoto, assieme a un giovane ma agguerrito virologo, Fassbach ("mai fidarsi della natura, anzi va ingannata"). Li spediscono, via aereo, nella notte.
Sappiamo che Brad ce la farà, ma non prima di 1. perdere subito il saggio virologo (ma inetto con la pistola), 2. sfiorare la morte in Corea del sud, in una base militare circondata da morti viventi che vengono combattuti a forza di bombe H; 3. e a Gerusalemme (dove, chissà perché, viene in mente al Mossad di costruitre delle mura di Gerico altissime, per proteggersi, ma, a causa di qualche esagerata frenesia religiosa bipartizan, le mura 'cedono' e i famelici mostri a decine di migliaia invadono e divorano la città santa), 4. su un aereo bielorusso zombizzato poco prima di atterrare e purificato a bombe a mano, 5. dopo l'atterraggio di fortuna nel bosco e 6. in un centro per malattie infettive di Cardiff, Galles, per metà conquistato dagli 'alieni'. Al suo fianco sempre la bella Segen, una soldatessa israeliana dal nome evocativo e che non tollera sdolcinatezza ('chiamami solo tenente: in israeliano Segen vuol dire 'tenente') a cui Jerry ha tagliato una mano infettata. Senza i militari anonimi al fianco non si va da nessuna parte. Non si vince la guerra dell'occidente. Intanto la famiglia viene sbattuta fuori dalla portaerei ed è in pericolo perché s'è interrotta la cominicazione con Jerry.....
Si ride, involontariamente durante World War Z. Della saggezza del Mossad. Della teoria del 'decimo uomo' ("quando nove uomini sono assolutamente convinti di una cosa, il decimo è bene che prenda la decisione opposta"). E, soprattutto alla battuta (che nel libro non c'è): "in Corea del Nord hanno risolto il problema alle radici. In 24 ore hanno tolto i denti a 36 milioni di persone". Battuta di spirito utile per capire la differenza che passa tra ipernazionalismo (la difesa pazza della propria nazione, contro tutto e tutti, costi quel che costi, anche i denti) e un più sano e responsabile spirito nazionalitario...
Ma qualche sciabolata di paura non manca. E poi gli eurozombies che sono andati a lezione da Pina Bausch e sanno muoversi da fermi con sussulti ondulatori seriali fanno un certo effetto. Quando un regista svizzero tedesco come Marc Forster si mescola a una produzione hollywoodiana certe stravaganze leziose funzionano. Certo, lo avesse diretto il papà di Max, Mel, il divertimento sarebbe stato più saporito....
A proposito. Ovvio che il libro (edito da Cooper collana Cooper storie, euro 18) è più strano, originale, appassionante del film. Anzi Max Brooks viene gentilmente messo da parte dal team Brad Pitt-Paramount. Se avesse vinto il duetto Di Caprio-Warner Bros, che volevano aquisire anche loro i diritti della trasposizione cinematografica, forse le cose sarebbero andate diversamente. Semplificato invece (e non senza difficoltà produttiva) il canovaccio, resa ossessivamente centrale l'unità famigliare inscalfibile, e poi riaggiustato, con aggiunta della parte finale, quella con Favino virologo che ha non meno difficoltà di Brad Pitt nel cercare attracco ai suoi sguardi, l'accrocco avanza molto impacciato...
Nei cinema d'azione, dal thriller all'epico-mitologico, dal catastrofico al Marvel System, dal western all'horror, l'azione principale, la scena clou avviene solitamente in una stanza, in un campo controcampo, nel solo combattimento di sguardi. Spesso senza dire una sola parola. Certo, Edgar G. Ulmer, in Beyond the time Barrier (1960) esagera, perché l'eroina del futuro lì è proprio muta...
La performance fisica fiammeggiante e spettacolare, lo scontro a mani nude o armate tra umani o tra superuomini della stessa categoria, tra fanciulla e mostro, non è che la replica, il radoppiamento grafico di un duello già avvenuto, nei film più dozzinali, nel dialogo del copione, missili le occhiatacce, che ha stabilito la gerarchia, le armi e le regole o non regole del match.
"Nei miei film - diceva Walter Hill - il punto culminante, molto spesso è quando due si guardano negli occhi e uno dice qualcosa sul tipo "Già, immagino che ti piacerebbe pensarlo". Questo potrebbe esere un bellissimo momento - due che si guardano profondamente, quasi penetrandosi - ma non c'è modo di poterlo descrivere decentemente in una sceneggiatura. Le scelte più importanti sono tra il tipo di pellicola che usi e il rapporto tra i personaggi e la storia. La gente pensa che le sparatorie, o cose di questo tipo, siano che le cose che più mi interessano. Ma non è così a me interessano i personaggi. Adoro far si che si scontrino con una storia dalla spina dorsale semplice. Alcuni reagiscono, fanno qualcosa, altri non fanno nulla, ed è possibile capirli molto più così che attraverso mille spiegazioni".
La complessità di questo procedimento non viene troppo compreso dai cineasti europei che, come Mikhakov Konchalovsky o Emmerich o Forster, capitano su un set hollywoodiano per girare un film di genere e, più realisti del re, lo trattano giocattolosamente, innestando la quinta, esagerando nella ritmica vorticosa (a due secondi la sequenza) e facendo sparire personaggi secondari (il capitano Speke, il capo Mossad Warmbrunn, il virologo, etc...) affinché non tolgano mai la prima scena al protagonista. Questo stile 'feudale' di regia in World War Z trova una noiosa conferma. Qui non c'è gioco di sguardi. Nessuno sa dove e perché guardare. E' un roteare buffo di occhi senza passione. Mancano i cattivi e anche i buoni. E tutti gli intermedi.
Il cattivo, chi non la conta giusta, balza all'occhio di solito perché sfoggia (a tratti) un sinistro sguardo obliquo. L'alleanza con il fuori campo è sempre sinistra e maligna. Ray Milland (Delitto perfetto) lo ha spiegato anche ai sassi. Ma con il mostro non si discute e non si comunica, il disumano assassino ha perennemento lo sguardo avulso, è sopra o sottopensiero. E' nel preconscio che va stanato...
C'è un problema in più, però, con gli zombie che il digitale permette di centuplicare di numero e velocizzare come non mai, e anche con i mostri ciclopici e apocalittici che fuoriescono dagli abissi del Pacifico (Pacific Rim di Guillermo Del Toro) come fossero palazzi di 50 piani. I loro mille occhi unificati a rete sono al di qua o al di là dello sguardo e del pensiero, captano solo con l'occhio interiore prede da divorare, corpi, anche microscopici o meccanici o neo antichi, da attraversare e lacerare. Si chiama la cieca violenza selvaggia. Ma ritrova un surplus di senso che sfugge agli umani.
Marines e talebani, neonazi e mafiosi, salafiti e fratelli musulmani stanno da qualche anno imitando (rozzamente) proprio quello sguardo collettivo assente, vuoto, eterodiretto degli zombies che, almeno nella saga di George A. Romero, erano i nostri punti di riferimento teorici del mondo in rivolta, della moltitudine, vil razza pagana, costituente altro potere. Orizzontali, senza leader. Senza neppure le loro catene da spezzare.
Qui, pur mantenendo fede al loro credo antinazista (non si permetteranno mai di torcere un capello, al contrario degli himmleriani, ai malati terminali, ai 'razzialmente' impuri, ma solo ai sani) gli zombies vivono il dramma di essere apocalitticamente crudeli, diabolicamente vincenti e dominatori senza volerlo (e, teologicamente, sappiamo che sono comunque destinati alla sconfitta, come ogni angelo decaduto). Chi è più sano, in genere, del bimbo innocente?
E lo spettatore pensa (divertendosi). Questi poveretti sono mossi da una forza incontrollabile (provocata oltretutto dall'uomo, come dall'uomo e dai suoi esperimenti biologici furono scatenate altre epidemie, aids non esclusa). E chi li ha contaminati e 'mutati', adesso li massacra. La tragedia. Mentre ci sono altri massacratori che non sono affatto sotto effetto di droghe o infezioni o di un potere alienante. Eppure annichiliscono tutto ciò che trovano, da Baghdad a Kabul...E si pensa al Ruanda. E a chissà quali multinazionali del trapianto degli organi umani stiano dietro questi stragi compiute da chi è cattivo, vincente e dominatore (come gli hutu), senza volerlo.
Il potere costituente (anche una buona sceneggiatura e un buon film) è oculare. Pochi, ma ce ne sono e sono quali sempre di sinistra, gli uomini politici non udenti o non vedenti diversamente potenti. Con le dita si legge, e con le orecchie comunque 'si vede'. Funziona tra gli umani e i sovrumani (uccelli, pesci, animali...). Ci sono problemi, invece, con i sub-morti, con chi comunica solo subliminalmente e misteriosamente, fin dall'epoca di La notte dei morti viventi, quando i cellulari non c'erano ancora e gli zombies camminavano ancora lentamente come bradipi. E continuano a comunicare anche oggi così, nell'epoca di internet, degli iphones (Cell) e dell'alta velocità a fare critical mass indistruttibile. L'altro in questi casi non esiste o è puro intralcio. A meno che non si inietti un fluido mortale. Produzione di zombies per mezzo zombies. E, per la prima volta, anche i morti viventi hanno un'anima.
Un morbo global. Una influenza letale, tipo spagnola, avvelena viralmente il mondo. Gli effetti dei morsi assassini sono devastanti. La zombizzazione degli umani, partita in India o in Cina (ovviamente, ma perché?), dilaga ovunque. Forse solo il nord del Minnesota l'ha scampata (?). Israele non esiste più... E, nel resto del mondo, gli esseri umani stanno scomparendo, morsicati dai crazy bodies famelici e trasformati in alien.
Jerry Lane (Brad Pitt), funzionario investigativo dell' Onu piuttosto avventuroso, messa in salvo la famiglia da Filadelfia a Newark - moglie, due figlie piccole wasp e un orfano ispanico - e poi via elicottero su una portaerei al largo dell'Atlantico, accetta - sotto ricatto - di cercare un antidoto, assieme a un giovane ma agguerrito virologo, Fassbach ("mai fidarsi della natura, anzi va ingannata"). Li spediscono, via aereo, nella notte.
Sappiamo che Brad ce la farà, ma non prima di 1. perdere subito il saggio virologo (ma inetto con la pistola), 2. sfiorare la morte in Corea del sud, in una base militare circondata da morti viventi che vengono combattuti a forza di bombe H; 3. e a Gerusalemme (dove, chissà perché, viene in mente al Mossad di costruitre delle mura di Gerico altissime, per proteggersi, ma, a causa di qualche esagerata frenesia religiosa bipartizan, le mura 'cedono' e i famelici mostri a decine di migliaia invadono e divorano la città santa), 4. su un aereo bielorusso zombizzato poco prima di atterrare e purificato a bombe a mano, 5. dopo l'atterraggio di fortuna nel bosco e 6. in un centro per malattie infettive di Cardiff, Galles, per metà conquistato dagli 'alieni'. Al suo fianco sempre la bella Segen, una soldatessa israeliana dal nome evocativo e che non tollera sdolcinatezza ('chiamami solo tenente: in israeliano Segen vuol dire 'tenente') a cui Jerry ha tagliato una mano infettata. Senza i militari anonimi al fianco non si va da nessuna parte. Non si vince la guerra dell'occidente. Intanto la famiglia viene sbattuta fuori dalla portaerei ed è in pericolo perché s'è interrotta la cominicazione con Jerry.....
Si ride, involontariamente durante World War Z. Della saggezza del Mossad. Della teoria del 'decimo uomo' ("quando nove uomini sono assolutamente convinti di una cosa, il decimo è bene che prenda la decisione opposta"). E, soprattutto alla battuta (che nel libro non c'è): "in Corea del Nord hanno risolto il problema alle radici. In 24 ore hanno tolto i denti a 36 milioni di persone". Battuta di spirito utile per capire la differenza che passa tra ipernazionalismo (la difesa pazza della propria nazione, contro tutto e tutti, costi quel che costi, anche i denti) e un più sano e responsabile spirito nazionalitario...
Ma qualche sciabolata di paura non manca. E poi gli eurozombies che sono andati a lezione da Pina Bausch e sanno muoversi da fermi con sussulti ondulatori seriali fanno un certo effetto. Quando un regista svizzero tedesco come Marc Forster si mescola a una produzione hollywoodiana certe stravaganze leziose funzionano. Certo, lo avesse diretto il papà di Max, Mel, il divertimento sarebbe stato più saporito....
A proposito. Ovvio che il libro (edito da Cooper collana Cooper storie, euro 18) è più strano, originale, appassionante del film. Anzi Max Brooks viene gentilmente messo da parte dal team Brad Pitt-Paramount. Se avesse vinto il duetto Di Caprio-Warner Bros, che volevano aquisire anche loro i diritti della trasposizione cinematografica, forse le cose sarebbero andate diversamente. Semplificato invece (e non senza difficoltà produttiva) il canovaccio, resa ossessivamente centrale l'unità famigliare inscalfibile, e poi riaggiustato, con aggiunta della parte finale, quella con Favino virologo che ha non meno difficoltà di Brad Pitt nel cercare attracco ai suoi sguardi, l'accrocco avanza molto impacciato...
Nei cinema d'azione, dal thriller all'epico-mitologico, dal catastrofico al Marvel System, dal western all'horror, l'azione principale, la scena clou avviene solitamente in una stanza, in un campo controcampo, nel solo combattimento di sguardi. Spesso senza dire una sola parola. Certo, Edgar G. Ulmer, in Beyond the time Barrier (1960) esagera, perché l'eroina del futuro lì è proprio muta...
La performance fisica fiammeggiante e spettacolare, lo scontro a mani nude o armate tra umani o tra superuomini della stessa categoria, tra fanciulla e mostro, non è che la replica, il radoppiamento grafico di un duello già avvenuto, nei film più dozzinali, nel dialogo del copione, missili le occhiatacce, che ha stabilito la gerarchia, le armi e le regole o non regole del match.
"Nei miei film - diceva Walter Hill - il punto culminante, molto spesso è quando due si guardano negli occhi e uno dice qualcosa sul tipo "Già, immagino che ti piacerebbe pensarlo". Questo potrebbe esere un bellissimo momento - due che si guardano profondamente, quasi penetrandosi - ma non c'è modo di poterlo descrivere decentemente in una sceneggiatura. Le scelte più importanti sono tra il tipo di pellicola che usi e il rapporto tra i personaggi e la storia. La gente pensa che le sparatorie, o cose di questo tipo, siano che le cose che più mi interessano. Ma non è così a me interessano i personaggi. Adoro far si che si scontrino con una storia dalla spina dorsale semplice. Alcuni reagiscono, fanno qualcosa, altri non fanno nulla, ed è possibile capirli molto più così che attraverso mille spiegazioni".
La complessità di questo procedimento non viene troppo compreso dai cineasti europei che, come Mikhakov Konchalovsky o Emmerich o Forster, capitano su un set hollywoodiano per girare un film di genere e, più realisti del re, lo trattano giocattolosamente, innestando la quinta, esagerando nella ritmica vorticosa (a due secondi la sequenza) e facendo sparire personaggi secondari (il capitano Speke, il capo Mossad Warmbrunn, il virologo, etc...) affinché non tolgano mai la prima scena al protagonista. Questo stile 'feudale' di regia in World War Z trova una noiosa conferma. Qui non c'è gioco di sguardi. Nessuno sa dove e perché guardare. E' un roteare buffo di occhi senza passione. Mancano i cattivi e anche i buoni. E tutti gli intermedi.
Il cattivo, chi non la conta giusta, balza all'occhio di solito perché sfoggia (a tratti) un sinistro sguardo obliquo. L'alleanza con il fuori campo è sempre sinistra e maligna. Ray Milland (Delitto perfetto) lo ha spiegato anche ai sassi. Ma con il mostro non si discute e non si comunica, il disumano assassino ha perennemento lo sguardo avulso, è sopra o sottopensiero. E' nel preconscio che va stanato...
C'è un problema in più, però, con gli zombie che il digitale permette di centuplicare di numero e velocizzare come non mai, e anche con i mostri ciclopici e apocalittici che fuoriescono dagli abissi del Pacifico (Pacific Rim di Guillermo Del Toro) come fossero palazzi di 50 piani. I loro mille occhi unificati a rete sono al di qua o al di là dello sguardo e del pensiero, captano solo con l'occhio interiore prede da divorare, corpi, anche microscopici o meccanici o neo antichi, da attraversare e lacerare. Si chiama la cieca violenza selvaggia. Ma ritrova un surplus di senso che sfugge agli umani.
Marines e talebani, neonazi e mafiosi, salafiti e fratelli musulmani stanno da qualche anno imitando (rozzamente) proprio quello sguardo collettivo assente, vuoto, eterodiretto degli zombies che, almeno nella saga di George A. Romero, erano i nostri punti di riferimento teorici del mondo in rivolta, della moltitudine, vil razza pagana, costituente altro potere. Orizzontali, senza leader. Senza neppure le loro catene da spezzare.
Qui, pur mantenendo fede al loro credo antinazista (non si permetteranno mai di torcere un capello, al contrario degli himmleriani, ai malati terminali, ai 'razzialmente' impuri, ma solo ai sani) gli zombies vivono il dramma di essere apocalitticamente crudeli, diabolicamente vincenti e dominatori senza volerlo (e, teologicamente, sappiamo che sono comunque destinati alla sconfitta, come ogni angelo decaduto). Chi è più sano, in genere, del bimbo innocente?
E lo spettatore pensa (divertendosi). Questi poveretti sono mossi da una forza incontrollabile (provocata oltretutto dall'uomo, come dall'uomo e dai suoi esperimenti biologici furono scatenate altre epidemie, aids non esclusa). E chi li ha contaminati e 'mutati', adesso li massacra. La tragedia. Mentre ci sono altri massacratori che non sono affatto sotto effetto di droghe o infezioni o di un potere alienante. Eppure annichiliscono tutto ciò che trovano, da Baghdad a Kabul...E si pensa al Ruanda. E a chissà quali multinazionali del trapianto degli organi umani stiano dietro questi stragi compiute da chi è cattivo, vincente e dominatore (come gli hutu), senza volerlo.
Il potere costituente (anche una buona sceneggiatura e un buon film) è oculare. Pochi, ma ce ne sono e sono quali sempre di sinistra, gli uomini politici non udenti o non vedenti diversamente potenti. Con le dita si legge, e con le orecchie comunque 'si vede'. Funziona tra gli umani e i sovrumani (uccelli, pesci, animali...). Ci sono problemi, invece, con i sub-morti, con chi comunica solo subliminalmente e misteriosamente, fin dall'epoca di La notte dei morti viventi, quando i cellulari non c'erano ancora e gli zombies camminavano ancora lentamente come bradipi. E continuano a comunicare anche oggi così, nell'epoca di internet, degli iphones (Cell) e dell'alta velocità a fare critical mass indistruttibile. L'altro in questi casi non esiste o è puro intralcio. A meno che non si inietti un fluido mortale. Produzione di zombies per mezzo zombies. E, per la prima volta, anche i morti viventi hanno un'anima.
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giovedì 25 luglio 2013
Sulla morte di Dennis O'Rourke, il meno puritano e il più impertinente documentarista aussie
Roberto Silvestri
Venticinque anni fa il critico Fabrizio Grosoli aveva invitato Dennis O'Rourke a Riminicinema. Il total filmaker australiano aveva portato in concorso, con grande successo, la sua straordinaria simpatia e un documentario controcorrente, e 'di profondità', da lui prodotto, sul turismo di massa nell'estremo oriente e sui suoi orrori, Cannibal Tours. Un film feroce, fatto di intuizioni e emozioni, pieno di humor sferzante, senza compromessi. Chi lo vede non va più a Dubai o sul mar rosso egiziano senza sentirsi una merda. Siamo nel 1988: non è dunque una grande scoperta della Biennale 2013 di Barbera la promiscuità tra fiction e non fiction nelle competizioni festivaliere.
Ma O'Rourke, prima di Michael Moore, aveva riconciliato il grande pubblico con l'appassionante mondo del documentario. Quasi sempre i suoi film, girati dopo una lunga permanenza in loco e senza troupe, solo lui, a vole un fonico, e la cinepresa in spalla, e montati a Canberra, incassavano nelle sale e si vendevano a tutte le tv pubbliche del mondo. Perché metteva in gioco se stesso nelle sue opere, spesso entrando in campo, cuore in mano, con la sua contaggiosa passionalità, dai quartieri degradati delle metropoli del turismo sessuale a Kabul, tra gli afhgani smembrati da una guerra perenne.
I suoi film potevano anche scandalizzarci. Per esempio The Good Woman of Bangkok duetto amoroso/non amoroso con una prostituta thailandese, mica mi convince ancora troppo. Non c'era forse qualche crudeltà psicologica di troppo, l'amaro sapore di uno 'spettacolo dell'orrore' sfruttato? Ma si vedeva e si sentiva sempre che dietro la sua cinepresa non c'era un agit prop con secondi fini, che voleva convincerci di qualche verità assoluta, ma un esploratore, un essere umano alla ricerca istintiva non razionale di come sono le cose vere e che chiedeva la nostra collaborazione, fin dalla prima sequenza. Condividendo illuminazioni e errori.
Era stato il festival dei Popoli, anni prima, a far conoscere al mondo il suo cinema diretto, "semplice", seducente e conturbante, e poi Berlino, Nyon, Sundance, Amsterdam, Marsiglia tra gli altri, lo avrebbero premiato e omaggiato per le sue dieci opere, da Yumi Yet (1976) e Ileksen (1978) sulla decolonizzazione in Papua-Nuova Guinea a Half Life (1985) sui pericoli nucleari e Cunnamulla (2000) sul vivere più che disagiato nelle periferie marginali 'aussie'. Una pellicola girata nella regione sud-occidentale del Queensland, in una cittadina a 200 km da Goodooga, dopo una permanenza attiva di sei mesi, la partecipazione alla vita sociale della comunità (filmando feste e eventi cittadini) e la conoscenza approfondita di alcuni personaggi 'chiave' del luogo, dal tassista e sua moglie al sedicente Dj, dallo spazzino all'allevatore in pensione alle ragazze chiamate a partecipare alla competizione di Miss Cunnamulla. Entrare in confidenza con tutti questi personaggi del teatrino provinciale è pericoloso. Escono fuori cose che dovrebbero restare nell'ombra. Ecco perchè il film è tra i suoi quello politicamente più che scorretto, visto che gli costò anche un processo per 'condotta poco scrupolosa' durante le riprese. Ma il giudice dette ragione al cineasta e un attivista per i diritti degli aborigeni e anche alcuni giornali incauti furono costretti a risarcire O'Rourke per diffamazione. Non aveva affatto 'sfruttato' la ragazza dodicenne aborigena, 'costringendola' a parlare con estrema franchezza della sua sessualità....
Era un omone biondo di una simpatia contagiante e di un coraggio ineguagliabile. Aveva la valigia piena di camicie hawaiiana mozzafiato, maneggiava i valori umani con la stessa serissima non chalance di una cassetta di birre Forster, Dennis O'Rourke, il documentarista (di evidente origine irlandese), cosmopolita e apolide nell'animo, che è morto di cancro a Cairns (Queensland) il 15 giugno scorso. Aveva 67 anni. Lascia la moglie Tracey Spring, 5 figli Bill, David e Celia (avuto dalla prima moglie Roseanne), Xavier e Sophie (avuto dalla seconda moglie, Catherine Vandermark). E un film non terminato, I love a Sunburnt Country, un poema sull'australianità dell'uomo qualunque.
La notizia di questa scomparsa non ha purtoppo ancora contagiato la rete né attraversato i media, distratti dell'estate più critica che Italia ricordi. E' un brutto mondo quello che non piange i suoi poeti. O che piange solamente i suoi.
Non avremmo neanche saputo della sua prematura morte se non avessimo casualmente incrociato, alla conferenza stampa delle Giornate degli autori di Venezia, il collega Umberto Rondi, che da sempre è un suo fan attivo ed è riuscito a distribuire alcune sue opere di non indifferente forza polemico-politica (Half life e The good woman of Bangkok) solo attraverso Fuori Orario. Speriamo che Giorgio Gosetti o Alberto Barbera lo ricordino al Lido, con una proiezione speciale fuori programma. Dennis lo merita.
O'Rourke, nato a Brisbane nel 1945, era vissuto in provincia, famiglia squattrinata di commercianti, educazione cattolica. Lascia l'università dopo soli due anni e viaggia molto nelle isole del Pacifico e nel sud est asiatico. Gli anni sessanta, in quei mari, sono un eccellente scuola di critica dell'economia politica e pratica dell'immginario antisistemico.
Soprattutto se il punto di vista è quello di un marinaio, di un cowboy, di un commesso viaggiatore, di un operaio petrolchimico e di un assistente giardiniere. Come i paesi sviluppati sottosviluppino progressivamente tutti gli altri, maneggiando merci di tutti i tipi, dai porti ai bordelli, dai concimi agli ormoni, gli appare chiarissimo. Sono proprio quelle specializzazioni che trasformeranno un provinciale gentile, ma fuori dal mondo come lui, in un fotogiornalista acuto e consapevole che osserva gli orrori dell'aggressione in Vietnam e sa, da allora, contro chi, e dalla parte di chi, puntare l'obiettivo. La tv australiana lo assume e il suo esordio è già un successo internazionale: Yumi Yet - Independence for Papua New Guinea. Porterà le sue altre opere - Yap...How Did you Know We'd Like Tv (1980), ovvero cosa combina l'introduzione della televisione nelle più remote isole dell'oceano pacifico?, The Shark Callers of Kontu (1982), sempre girato in Papua New Guinea, Couldn't Be Fairer (1984), The Good Woman of Bangkok (1991) e Land Mines A love story (2004), set l'Afghanistan post talebano - in giro per il mondo, a Freiburg, Honolulu, Los
Angeles, Melbourne, New Delhi, New York, Singapore, Taipei, Rimini, Uppsala... Nel 2005 a Dennis O'Rourke è statao conferito il Don Dunstan Award per il contributo da lui dato all'industria cinematografica australiana.
Le precisazioni all'articolo di Umberto Rondi:
Fuori orario è stato in effetti il maggior diffusore dei suoi film (4) ma Cannibal Tours, sebbene non integralmente, fu trasmesso da Passaggio a Nord Ovest. Land mines - a love story da C'era una volta, Rai Tre. Half life sia da Fuori Orario che da La 7. The good woman of Bangkok è stato distribuito da Minerva Raro Video ed è purtroppo l'unico dvd in commercio in Italia. Venne assegnato a Land mines - a love story il premio Città di Roma per il miglior documentario ad Asiatica Film Mediale 2005. Half Life vinse il Gran Premio del Festival dei Popoli, il "Director's Award for extraordinary achievement" del Sundance, il premio della pace e uno della giuria alla Berlinale ed entrò nella cinquina degli oscar..
Venticinque anni fa il critico Fabrizio Grosoli aveva invitato Dennis O'Rourke a Riminicinema. Il total filmaker australiano aveva portato in concorso, con grande successo, la sua straordinaria simpatia e un documentario controcorrente, e 'di profondità', da lui prodotto, sul turismo di massa nell'estremo oriente e sui suoi orrori, Cannibal Tours. Un film feroce, fatto di intuizioni e emozioni, pieno di humor sferzante, senza compromessi. Chi lo vede non va più a Dubai o sul mar rosso egiziano senza sentirsi una merda. Siamo nel 1988: non è dunque una grande scoperta della Biennale 2013 di Barbera la promiscuità tra fiction e non fiction nelle competizioni festivaliere.
Il cineasta australiano Dennis O'Rourke |
Ma O'Rourke, prima di Michael Moore, aveva riconciliato il grande pubblico con l'appassionante mondo del documentario. Quasi sempre i suoi film, girati dopo una lunga permanenza in loco e senza troupe, solo lui, a vole un fonico, e la cinepresa in spalla, e montati a Canberra, incassavano nelle sale e si vendevano a tutte le tv pubbliche del mondo. Perché metteva in gioco se stesso nelle sue opere, spesso entrando in campo, cuore in mano, con la sua contaggiosa passionalità, dai quartieri degradati delle metropoli del turismo sessuale a Kabul, tra gli afhgani smembrati da una guerra perenne.
I suoi film potevano anche scandalizzarci. Per esempio The Good Woman of Bangkok duetto amoroso/non amoroso con una prostituta thailandese, mica mi convince ancora troppo. Non c'era forse qualche crudeltà psicologica di troppo, l'amaro sapore di uno 'spettacolo dell'orrore' sfruttato? Ma si vedeva e si sentiva sempre che dietro la sua cinepresa non c'era un agit prop con secondi fini, che voleva convincerci di qualche verità assoluta, ma un esploratore, un essere umano alla ricerca istintiva non razionale di come sono le cose vere e che chiedeva la nostra collaborazione, fin dalla prima sequenza. Condividendo illuminazioni e errori.
Era stato il festival dei Popoli, anni prima, a far conoscere al mondo il suo cinema diretto, "semplice", seducente e conturbante, e poi Berlino, Nyon, Sundance, Amsterdam, Marsiglia tra gli altri, lo avrebbero premiato e omaggiato per le sue dieci opere, da Yumi Yet (1976) e Ileksen (1978) sulla decolonizzazione in Papua-Nuova Guinea a Half Life (1985) sui pericoli nucleari e Cunnamulla (2000) sul vivere più che disagiato nelle periferie marginali 'aussie'. Una pellicola girata nella regione sud-occidentale del Queensland, in una cittadina a 200 km da Goodooga, dopo una permanenza attiva di sei mesi, la partecipazione alla vita sociale della comunità (filmando feste e eventi cittadini) e la conoscenza approfondita di alcuni personaggi 'chiave' del luogo, dal tassista e sua moglie al sedicente Dj, dallo spazzino all'allevatore in pensione alle ragazze chiamate a partecipare alla competizione di Miss Cunnamulla. Entrare in confidenza con tutti questi personaggi del teatrino provinciale è pericoloso. Escono fuori cose che dovrebbero restare nell'ombra. Ecco perchè il film è tra i suoi quello politicamente più che scorretto, visto che gli costò anche un processo per 'condotta poco scrupolosa' durante le riprese. Ma il giudice dette ragione al cineasta e un attivista per i diritti degli aborigeni e anche alcuni giornali incauti furono costretti a risarcire O'Rourke per diffamazione. Non aveva affatto 'sfruttato' la ragazza dodicenne aborigena, 'costringendola' a parlare con estrema franchezza della sua sessualità....
Sul set di Land Mines A love story (2004) |
La notizia di questa scomparsa non ha purtoppo ancora contagiato la rete né attraversato i media, distratti dell'estate più critica che Italia ricordi. E' un brutto mondo quello che non piange i suoi poeti. O che piange solamente i suoi.
Non avremmo neanche saputo della sua prematura morte se non avessimo casualmente incrociato, alla conferenza stampa delle Giornate degli autori di Venezia, il collega Umberto Rondi, che da sempre è un suo fan attivo ed è riuscito a distribuire alcune sue opere di non indifferente forza polemico-politica (Half life e The good woman of Bangkok) solo attraverso Fuori Orario. Speriamo che Giorgio Gosetti o Alberto Barbera lo ricordino al Lido, con una proiezione speciale fuori programma. Dennis lo merita.
The Good Woman of Bangkok (1991) |
O'Rourke, nato a Brisbane nel 1945, era vissuto in provincia, famiglia squattrinata di commercianti, educazione cattolica. Lascia l'università dopo soli due anni e viaggia molto nelle isole del Pacifico e nel sud est asiatico. Gli anni sessanta, in quei mari, sono un eccellente scuola di critica dell'economia politica e pratica dell'immginario antisistemico.
Il poster di Half life, il suo film anti nucleare |
Le precisazioni all'articolo di Umberto Rondi:
Fuori orario è stato in effetti il maggior diffusore dei suoi film (4) ma Cannibal Tours, sebbene non integralmente, fu trasmesso da Passaggio a Nord Ovest. Land mines - a love story da C'era una volta, Rai Tre. Half life sia da Fuori Orario che da La 7. The good woman of Bangkok è stato distribuito da Minerva Raro Video ed è purtroppo l'unico dvd in commercio in Italia. Venne assegnato a Land mines - a love story il premio Città di Roma per il miglior documentario ad Asiatica Film Mediale 2005. Half Life vinse il Gran Premio del Festival dei Popoli, il "Director's Award for extraordinary achievement" del Sundance, il premio della pace e uno della giuria alla Berlinale ed entrò nella cinquina degli oscar..
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Umberto Rossi
lunedì 15 luglio 2013
Sono entrato nel mio giardino. Avi Mograbi e l'isola che non c'è (ancora)
Roberto Silvestri
97 minuti colorati e in bianco e nero di pura passione per le immagini di combattimento, ma 'avulsa', ereticamente rispettosa del punto di vista 'nemico'. Esce in questi giorni nelle sale francesi, con il titolo Dans un jardin je suis entré, paradossalmente prima che in Italia, il nuovo film (quasi un leggiadro, onirico viaggio sul tappeto volante della Storia), il più personale e intimo, di Avi Mograbi, documentarista israeliano di profondità e 'obliquo'.
Di profondità vuol dire praticare l'estetica del bastardo e dell'ibrido (anche nei supporti: digitale, 35mm, 16mm, 8mm...), essere ostili a uno stile e a uno sguardo unico e sempre identico, qualunque argomento si affronti. Obliquo vuol dire "non di regime", fuori schema, indisciplinato, aperto, scandaloso ma inacchiappabile. Non essere ostile allo stile altrui. Mescolare realismo e surrealismo, documento e fuori campo 'poetico'.
Mograbi pretende di misurarsi non solo con una griglie di domande (troppo facile). Il suo cinema avanza risposte. E le discute. L'azzardo della prospettiva. E' questo il grande cinema politico, come diceva Emile De Antonio (il documentarista americano di origine torinese nemico numero uno di Hoover e Nixon). La fuoriuscita dall'intrigo israelo-palestinese, e dalle sue macerie ben visibili nel film, non può oggi essere che basato sul reciproco mescolamento e aiuto. Altro che Abraham Yehoshua, con i muri e gli steccati. Come direbbe Kropotkin. Sulla mutua assistenza. Non basta riconoscersi, bisogna sopportarsi e fiancheggiarsi. In fondo la Gestapo non chiamava gli ebrei morituri muslim?
Insieme, la profonda obliquità, permette di raccontare, in prima persona singolare maschile una esperienza credibile e socializzabile, siamo ai prolegomeni di una teoria rivoluzionaria se si riesce anche a farla diventare sentimento, personalissimo e collettivo. Se ci fate caso sono di questo tipo i doc più odiati dalle tv, commerciali e statali. Perché sono fuori legge, escono dall'unico format consentito, che è quello che sforna 'parole d'ordine', ideologia grafica, spazzatura ipnotica.Quel che ha rovinato il povero cervello intossicato dei Caldiroli.
E' dal 1989 che Mograbi rappresenta, e anche in questo suo dodicesimo lavoro, un'altra Israele. Come in Z32 - visto alla Mostra di Venezia - in cui si indagava il conflitto israelopalestinese attraverso il rimosso di un giovane militare israeliano. Proprio come, al contrario, Bouzid, Mahmoud Ben Mahmoud, Nacer Khemir o Michel Khleifi sperimentano un altro cinema arabo, immagini dense, pregne, libere che guerreggiano nel simbolico, non per frasette coraniche fatte e soprattutto strafatte.
Sono entrato nel mio giardino è un gioiello che fu proiettato in anteprima mondiale a Roma, sezione CineMaxxi, durante la gran festa di Mueller 2012. Ma nessun distributore nazionale lo ha finora acquistato. Sarà proibito dalla Bossi-Fini ammirare in tv le diversità che convivono e migliorano reciprocamente... Il film di non fiction è dedicato a Marcel, cugino del padre di Mograbi, originario di Beirut. "Ebreo di religione, ma arabo di cultura, di lingua, di musica, di gusti, di speranze e di sogni", come si definivano tutti gli ebrei che dal Marocco all'Egitto sarebbero entrati in diaspora, istigati all'emigrazione in Israele o altrove, soprattutto dopo la guerra dei sei giorni. Ma anche prima.
Nel 1948 (appena nasce lo stato di Israele) Marcel parte per Tel Aviv, ma presto torna a Beirut, riparte, ritorna... Considera infatti tutto il medio oriente, da cosmopolita drastico, una geografia emozionale compatta e euroafroasiatica, e Alessandria, Beirut, Damasco, e Tel Aviv le sue città. Nel 1967, dopo l'aggressione di Nasser a Israele, non sarà più possibile, da ebreo, risiedere nelle terre costrette dal bopolarismo politico all' ostilità perenne. L'ombra di Marcel sovrasta il film. Ma non di lui si parla.
Desiderare che una ostilità, un conflitto, una collera, che sembra infinita e crescente, cessi. Di questo tratta il film. E dell'identità multipla. Le radici familiari di Mograbi, lo provano ingiallite fotografie, sono sia in Libano che in Siria, paesi arricchite un tempo anche da fiorenti (e radicate nei secoli) comunità ebraiche. Dunque niente di meglio che farci conoscere il suo professore di lingua araba, Ali al-Azhari, uno studioso maturo che vive in una casa piena di libri, ed è suo amico da oltre 30 anni. E' nato a Nazareth, ha passaporto israeliano, è straniero nella sua terra dalla Nakba, ha una moglie ebrea ed è di religione islamica. Mograbi vuole studiare bene l'arabo. Perché? Si è innamorato di una donna che vive a Beirut, non può vederla anche se vive a 3 ore di automobile da lui. Il Libano è vietato ai passaporti israeliani e viceversa. «Incontratevi a Malta» è il commento di Alì...
Non credo che tutti gli israeliani conoscano l'arabo e vogliano studiarlo come Avi. E' un segnale di razzismo? Così come i nostri colonialisti in Somalia. Quanti conoscevano le lingue somale? Li ebbe a rimproverare, per questo, perfino Craxi. Quanti di noi conoscono, per rispetto, le lingue sinti e rom? Perché non si studiano a scuola?
Ali al-Azhari sogna, come Mograbi, un Medio Oriente dove ebrei, atei, arabi, agnostici, cristiani di ogni tipo convivano in armonia. Si parla molto in questo 'double movie'. E' un duetto - tra l'ironico e il malinconico - questo doc, un 'buddies-movie', se vogliamo inserirlo in un genere hollywoodiano (e Lemmon e Matthau, il wasp e l'ebreo, un po' somigliano ai nostri eroi, che devono battibeccare per forza tra di loro, con l'arma, spesso triste, dell'umorismo).
Fioccano gli aneddoti nella cucina del regista, in automobile gironzolando per Tel Aviv, nel salotto di Ali, di fronte al mare e sulla strada per la Galilea. C'è Ibrahim, il nonno di Mograbi, con grandi baffi e tarbouche in testa (quella specie di fez rosso), in una foto scattata a Damasco nel 1920 e Ali non può che commentare: "Era più arabo di me", mentre sfogliano avidamente annuari e guide degli anni trenta dove si mescolano nomi di arabi e ebrei. All'inizio del film Mograbi sogna un incontro con il nonno nella Damasco degli anni ruggenti e magari uno scambio di case (tu vai a Tel Aviv e io nella proibitssima Damasco). Ma in che lingua si sarebbero parlati? L'ebraico di Ibrahim era vacillante quanto l'arabo di Abi...
Esce fuori un flano pubblicitario, nell' Indicateur Gédéon 1930, la bibbia professionale del medio Oriente: «Occasion exceptionnelle véritable pour 15 jours seulement». E' quello della merceria gestita da MM. Toufic e Mograbi, 72 rue Herzl, Tel-Aviv. E che dire dell'agenda di Damasco del 1936 (che intreccia il calendario musulmano, cristiano e ebreo)? C'è il rischio della nostalgia per i pascià, come se si rimpiangessero i governi assolutisti del passato.
Per fortuna entra in campo la piccola Yazmin, la figlia, molto sveglia, anche davanti alla cinepresa, che Ali ha avuto da una giovane moglie ebrea. Ha 10 anni. Vive in Galilea, in un villaggio strappato agli arabi. L'olio palestinese è diventatao olio di Israele. A scuola i compagni le fanno pesare la sua origine 'mista'. Il parco è 'proibito ai non israeliani'. La cosa non garba aYazmin, umiliata nella sua doppia identità e incattivita. Dans un jardin je suis entré. Appunto.
Le risposte non sono condite di retorica, però. Quando Yazmin viene condotta nei luoghi che appartenevano alla sua famiglia araba, e ora sono insediamento israeliano, e i cartelli, in perfetto stile coloniale, ammoniscono che non sono graditi gli stranieri, e il parco giochi per bambini appare sinistro, altro che gioia, e feriscono gli sguardi ostili lanciati dal fuori campo, e la casa non è più quella di Ali, anche se è la stessa, e qualche automobile passa veloce, la piccola non regge alla tensione. Piange e scappa. E' nello scarto tra utopia e crudezza del presente che diventa possibile un nuovo incontro. Scarto non è differenza. E' campo di tensione. E le nuove generazioni saprammo come lavorare sulle tensioni dello scarto.
Mograbi naturalmente parla a lungo anche del suo amore libanese, ma 'parigino' di set, della difficile passione per una donna 'dell'altra sponda'. Come un film davvero riuscito, perché fa mondo, quell'amore non è fuori dal mondo, ma ne crea un altro, accanto, di mondo: «La non separazione tra juifs et arabes, è un mondo dove questa storia d'amore si colloca».
Ed eccoci a Beirut, nel quartiere dell'Ippodromo, dove la famiglia Mograbi viveva prima dell'emigrazione, e da dove una voce off femminile scrive a Habibi, a Avi, ormai lontano, rientrato nello stato che si autoimprigiona con un muro e con lo slittamento indecente tra stato e religione (analogamente al wahabismo saudita), e ci immerge nella bellezza e dolcezza della terra del cedro: «Les Palestiniens ont été expulsés d’une géographie, de leur pays. Nous, les juifs arabes, nous avons été déracinés du temps, nous ne pourrons jamais revenir». Eppure. Qui nasce una doppia forma di resistenza basilare. Dai piccoli no di ciascuno di noi. Dalla deriva, dalla fuga. Da un doppio gioco dell'immaginario. Dal non voler più vivere chiusi.
Avi Mograbi (in ebraico: אבי מוגרבי) è nato nel 1956. Ha studiato filosofia all'università di Tel Aviv e arte al Ramat Hasharon Art School. E' stato aiuto regista di molte produzioni commerciali locali e straniere e ha lavorato nella pubblità prima di esordire nella regia. E' anche produttore, sceneggiatore, montatore e operatore. "Per uno solo dei miei occhi", uscito anche in Italia, è stato in competizione a Cannes nel 2005.
Filmografia in inglese:
Deportation (1989, corto);
The Reconstruction (1994)
How I Learned to Overcome My Fear and Love Ariel Sharon (1997)
Happy Birthday, Mr. Mograbi (1999)
August: A Moment Before the Eruption (2002)
Wait it's the soldiers, I have to hang up now (2002, short)
Detail (2004, short)
Avenge But One of My Two Eyes (2005)
Z32 (film) (2008)
Once I Entered a Garden (2012)
97 minuti colorati e in bianco e nero di pura passione per le immagini di combattimento, ma 'avulsa', ereticamente rispettosa del punto di vista 'nemico'. Esce in questi giorni nelle sale francesi, con il titolo Dans un jardin je suis entré, paradossalmente prima che in Italia, il nuovo film (quasi un leggiadro, onirico viaggio sul tappeto volante della Storia), il più personale e intimo, di Avi Mograbi, documentarista israeliano di profondità e 'obliquo'.
Di profondità vuol dire praticare l'estetica del bastardo e dell'ibrido (anche nei supporti: digitale, 35mm, 16mm, 8mm...), essere ostili a uno stile e a uno sguardo unico e sempre identico, qualunque argomento si affronti. Obliquo vuol dire "non di regime", fuori schema, indisciplinato, aperto, scandaloso ma inacchiappabile. Non essere ostile allo stile altrui. Mescolare realismo e surrealismo, documento e fuori campo 'poetico'.
Mograbi pretende di misurarsi non solo con una griglie di domande (troppo facile). Il suo cinema avanza risposte. E le discute. L'azzardo della prospettiva. E' questo il grande cinema politico, come diceva Emile De Antonio (il documentarista americano di origine torinese nemico numero uno di Hoover e Nixon). La fuoriuscita dall'intrigo israelo-palestinese, e dalle sue macerie ben visibili nel film, non può oggi essere che basato sul reciproco mescolamento e aiuto. Altro che Abraham Yehoshua, con i muri e gli steccati. Come direbbe Kropotkin. Sulla mutua assistenza. Non basta riconoscersi, bisogna sopportarsi e fiancheggiarsi. In fondo la Gestapo non chiamava gli ebrei morituri muslim?
Insieme, la profonda obliquità, permette di raccontare, in prima persona singolare maschile una esperienza credibile e socializzabile, siamo ai prolegomeni di una teoria rivoluzionaria se si riesce anche a farla diventare sentimento, personalissimo e collettivo. Se ci fate caso sono di questo tipo i doc più odiati dalle tv, commerciali e statali. Perché sono fuori legge, escono dall'unico format consentito, che è quello che sforna 'parole d'ordine', ideologia grafica, spazzatura ipnotica.Quel che ha rovinato il povero cervello intossicato dei Caldiroli.
E' dal 1989 che Mograbi rappresenta, e anche in questo suo dodicesimo lavoro, un'altra Israele. Come in Z32 - visto alla Mostra di Venezia - in cui si indagava il conflitto israelopalestinese attraverso il rimosso di un giovane militare israeliano. Proprio come, al contrario, Bouzid, Mahmoud Ben Mahmoud, Nacer Khemir o Michel Khleifi sperimentano un altro cinema arabo, immagini dense, pregne, libere che guerreggiano nel simbolico, non per frasette coraniche fatte e soprattutto strafatte.
Il filmaker israeliano Avi Mograbi (a sinistra) e il suo professore di arabo, Ali al-Azhari |
Sono entrato nel mio giardino è un gioiello che fu proiettato in anteprima mondiale a Roma, sezione CineMaxxi, durante la gran festa di Mueller 2012. Ma nessun distributore nazionale lo ha finora acquistato. Sarà proibito dalla Bossi-Fini ammirare in tv le diversità che convivono e migliorano reciprocamente... Il film di non fiction è dedicato a Marcel, cugino del padre di Mograbi, originario di Beirut. "Ebreo di religione, ma arabo di cultura, di lingua, di musica, di gusti, di speranze e di sogni", come si definivano tutti gli ebrei che dal Marocco all'Egitto sarebbero entrati in diaspora, istigati all'emigrazione in Israele o altrove, soprattutto dopo la guerra dei sei giorni. Ma anche prima.
Nel 1948 (appena nasce lo stato di Israele) Marcel parte per Tel Aviv, ma presto torna a Beirut, riparte, ritorna... Considera infatti tutto il medio oriente, da cosmopolita drastico, una geografia emozionale compatta e euroafroasiatica, e Alessandria, Beirut, Damasco, e Tel Aviv le sue città. Nel 1967, dopo l'aggressione di Nasser a Israele, non sarà più possibile, da ebreo, risiedere nelle terre costrette dal bopolarismo politico all' ostilità perenne. L'ombra di Marcel sovrasta il film. Ma non di lui si parla.
Desiderare che una ostilità, un conflitto, una collera, che sembra infinita e crescente, cessi. Di questo tratta il film. E dell'identità multipla. Le radici familiari di Mograbi, lo provano ingiallite fotografie, sono sia in Libano che in Siria, paesi arricchite un tempo anche da fiorenti (e radicate nei secoli) comunità ebraiche. Dunque niente di meglio che farci conoscere il suo professore di lingua araba, Ali al-Azhari, uno studioso maturo che vive in una casa piena di libri, ed è suo amico da oltre 30 anni. E' nato a Nazareth, ha passaporto israeliano, è straniero nella sua terra dalla Nakba, ha una moglie ebrea ed è di religione islamica. Mograbi vuole studiare bene l'arabo. Perché? Si è innamorato di una donna che vive a Beirut, non può vederla anche se vive a 3 ore di automobile da lui. Il Libano è vietato ai passaporti israeliani e viceversa. «Incontratevi a Malta» è il commento di Alì...
Avi Mograbi, Yazmin e Ali al-Azhari al festival di Roma 2012 |
Non credo che tutti gli israeliani conoscano l'arabo e vogliano studiarlo come Avi. E' un segnale di razzismo? Così come i nostri colonialisti in Somalia. Quanti conoscevano le lingue somale? Li ebbe a rimproverare, per questo, perfino Craxi. Quanti di noi conoscono, per rispetto, le lingue sinti e rom? Perché non si studiano a scuola?
Ali al-Azhari sogna, come Mograbi, un Medio Oriente dove ebrei, atei, arabi, agnostici, cristiani di ogni tipo convivano in armonia. Si parla molto in questo 'double movie'. E' un duetto - tra l'ironico e il malinconico - questo doc, un 'buddies-movie', se vogliamo inserirlo in un genere hollywoodiano (e Lemmon e Matthau, il wasp e l'ebreo, un po' somigliano ai nostri eroi, che devono battibeccare per forza tra di loro, con l'arma, spesso triste, dell'umorismo).
Nonno Irahim a Damasco nel 1920 |
Esce fuori un flano pubblicitario, nell' Indicateur Gédéon 1930, la bibbia professionale del medio Oriente: «Occasion exceptionnelle véritable pour 15 jours seulement». E' quello della merceria gestita da MM. Toufic e Mograbi, 72 rue Herzl, Tel-Aviv. E che dire dell'agenda di Damasco del 1936 (che intreccia il calendario musulmano, cristiano e ebreo)? C'è il rischio della nostalgia per i pascià, come se si rimpiangessero i governi assolutisti del passato.
L'intifada vista dai palestinesi (2005) |
Per fortuna entra in campo la piccola Yazmin, la figlia, molto sveglia, anche davanti alla cinepresa, che Ali ha avuto da una giovane moglie ebrea. Ha 10 anni. Vive in Galilea, in un villaggio strappato agli arabi. L'olio palestinese è diventatao olio di Israele. A scuola i compagni le fanno pesare la sua origine 'mista'. Il parco è 'proibito ai non israeliani'. La cosa non garba aYazmin, umiliata nella sua doppia identità e incattivita. Dans un jardin je suis entré. Appunto.
Le risposte non sono condite di retorica, però. Quando Yazmin viene condotta nei luoghi che appartenevano alla sua famiglia araba, e ora sono insediamento israeliano, e i cartelli, in perfetto stile coloniale, ammoniscono che non sono graditi gli stranieri, e il parco giochi per bambini appare sinistro, altro che gioia, e feriscono gli sguardi ostili lanciati dal fuori campo, e la casa non è più quella di Ali, anche se è la stessa, e qualche automobile passa veloce, la piccola non regge alla tensione. Piange e scappa. E' nello scarto tra utopia e crudezza del presente che diventa possibile un nuovo incontro. Scarto non è differenza. E' campo di tensione. E le nuove generazioni saprammo come lavorare sulle tensioni dello scarto.
Mograbi naturalmente parla a lungo anche del suo amore libanese, ma 'parigino' di set, della difficile passione per una donna 'dell'altra sponda'. Come un film davvero riuscito, perché fa mondo, quell'amore non è fuori dal mondo, ma ne crea un altro, accanto, di mondo: «La non separazione tra juifs et arabes, è un mondo dove questa storia d'amore si colloca».
L'intifada vista da un soldato israeliano |
Ed eccoci a Beirut, nel quartiere dell'Ippodromo, dove la famiglia Mograbi viveva prima dell'emigrazione, e da dove una voce off femminile scrive a Habibi, a Avi, ormai lontano, rientrato nello stato che si autoimprigiona con un muro e con lo slittamento indecente tra stato e religione (analogamente al wahabismo saudita), e ci immerge nella bellezza e dolcezza della terra del cedro: «Les Palestiniens ont été expulsés d’une géographie, de leur pays. Nous, les juifs arabes, nous avons été déracinés du temps, nous ne pourrons jamais revenir». Eppure. Qui nasce una doppia forma di resistenza basilare. Dai piccoli no di ciascuno di noi. Dalla deriva, dalla fuga. Da un doppio gioco dell'immaginario. Dal non voler più vivere chiusi.
Avi Mograbi (in ebraico: אבי מוגרבי) è nato nel 1956. Ha studiato filosofia all'università di Tel Aviv e arte al Ramat Hasharon Art School. E' stato aiuto regista di molte produzioni commerciali locali e straniere e ha lavorato nella pubblità prima di esordire nella regia. E' anche produttore, sceneggiatore, montatore e operatore. "Per uno solo dei miei occhi", uscito anche in Italia, è stato in competizione a Cannes nel 2005.
Filmografia in inglese:
Deportation (1989, corto);
The Reconstruction (1994)
How I Learned to Overcome My Fear and Love Ariel Sharon (1997)
Happy Birthday, Mr. Mograbi (1999)
August: A Moment Before the Eruption (2002)
Wait it's the soldiers, I have to hang up now (2002, short)
Detail (2004, short)
Avenge But One of My Two Eyes (2005)
Z32 (film) (2008)
Once I Entered a Garden (2012)
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Sono entrato nel mio giardino
sabato 13 luglio 2013
SOLUZIONE DEL QUIZ 'ROOSEVELTIANO'. E' IL GANGSTER "PRETTY BOY" FLOYD IMBALSAMATO ALL'OBITORIO NEL 1934
La soluzione del quiz è: il corpo imbalsamato del bandito statunitense Charles Arthur 'Pretty Boy' Floyd, esposto nel 1934 allo Sturgis Funeral Home di East Liverpool, Ohio.
Channing Tatum è Floyd in Public Enemies (2009) |
Pretty Boy Floyd è sepolto invece a Akins, sempre in Oklahoma. Che è considerato lo stato più derelitto d'America. I suoi abitanti per decenni sono stati considerati i 'nigger' d'America.
Avete recentemente visto Pretty Boy Floyd, interpretato dall'attore Channing Tatum in Public Enemies (2009 film) con Christian Bale e Johnny Depp. Ma la sua leggenda è nata tanti anni fa....
Nel marzo del 1939, 5 anni dopo la morte del bandito, Woody Guthrie, il celebre folksinger comunista, nativo dell'Oklahoma, compose una canzone per chiarire meglio il senso di una vita disperata, The Ballad of Pretty Boy Floyd, che comprende queste celebri strofe:
"If you'll gather 'round me, children, a story I will tell
'Bout Pretty Boy Floyd, an Outlaw, Oklahoma knew him well.
(...)
As through this world you travel, you'll meet some funny men;
Some will rob you with a six-gun, and some with a fountain pen."
Questa ballad è stata eseguita molte volte, tra gli altri da Bob Dylan (1988), The Byrds, Joan Baez (1962), Melanie Safka, Arlo Guthrie, Pete Seeger, Ghost Mice, The Duhks, Christy Moore, Wall of Voodoo. Un riferimento da Floyd è anche nel rap "The Message" di Grandmaster Flash and the Furious Five e all'inizio della canzone Gentleman of the Road (2000) dei Devils Brigade.
La band canadese Pretty Boy Floyd |
Pretty Boy Floyd è il nome di una band glam metal canadese di Vancouver che ha debuttato nel 1987 con Leather Boyz With Electric Toyz
Pretty Boy Floyd è un romanzo sulla vita del gangster scritta nel 1995 da Larry McMurtry e Diana Ossana
Nel fumetti: l'avversario più ostico di Dick Tracy, Flattop Jones, ha molto in comune con Pretty Boy Floyd. E nei videogame Team Fortress 2 un'arma si chiama Pretty Boy's Pocket Pistol....
Al cinema: Pretty Boy Floyd di Herbert J. Leder, con John Ericson (1960). Robert Conrad è Floyd in Young Dillinger (1965). Inoltre A Bullet for Pretty Boy', del 1970, con Fabian. Steve Kanaly è Floyd nel film del 1973 di John Milius Dillinger con Warren Oates. Martin Sheen è Floyd nel tv movie del 1974 The Story of Pretty Boy Floyd. Bo Hopkins è Floyd nel tv movie del 1975 The Kansas City Massacre.
Il prezioso fotogramma (che non ho trovato su Internet) ritrae Charles Arthur 'Pretty Boy’ Floyd (3 febbraio 1904 – 22 ottobre 1934) sul tavolo dell'obitorio, attorniato dagli agenti che, presumibilmente, lo hanno ucciso. L'inquadratura, che ha sorprendenti analogie con quella di Ernesto Che Guevara cadavere, circondato dai soldati boliviani che lo hanno braccato, è tratta da un newsreel girato dopo la sua cattura.
Il 'frame' proviene da un documentario in 16mm prodotto da William Randolph Hearst (il magnate reazionario che ispirò Orson Welles per Quarto Potere). Il positivo e il negativo di quel cinegiornale sono conservati negli archivi dell'Ucla, l'università (pubblica) della California di Los Angeles, che da circa venti anni sta restaurando l'intero patrimonio della "Hearst Metrotone News Collection", uno dei più imponenti archivi documentaristici del mondo. Quando mi è stato regalato il fotogramma l'archivista mi ha detto: 'è Dillinger'. Ma si sbagliava.
W. R. Hearst, repubblicano della destra doc, dagli anni 10 agli anni 40 del secolo scorso, ci ha lasciato non soltanto un meraviglioso materiale filmato sulla prima guerra mondiale, il confitto Usa-Messico, lo scandalo dei Black Sox, i pionieri dell'aviazione e gli esploratori del Polo Nord (per ricordare solo i newsreel del periodo muto) ma fiancheggiò anche, con le armi dell'immaginario 'sporco', le campagne propagandistiche, anche quelle più criminali, del capitalismo proto-liberista degli anni venti: la caccia ai rossi, la denigrazione di ogni avversario politico, e soprattutto del più che socialista F.D. Roosevelt, e la messa a punto per i decenni a venire di 'macchine del fango' ben collaudate contro chiunque mettesse lacci ed ostacoli alla libertà di mercato più estrema, fossero individui, artisti, intellettuali, capitalisti 'perdenti', economie da sbriciolare (es.: la demonizzazione del Messico e oggi della Colombia, a proposito della droga), paesi da invadere o colonialisti da scalzare (la guerra contro la Spagna per la conquista di Cuba si è giovata di falsità inventate, diffuse e ingigantite dai media Hearst, proprio come il sistema militare-industriale farà durante le aggressioni in Vietnam e in Iraq).
Hearst aizzò così, attraverso questi documentari, richiestigli espressamente dal creatore dell'Fbi, Edgal J. Hoover (lo abbiamo visto nel film di Eastwood), l'opinione pubblica americana degli anni trenta a finanziare, in nome della sicurezza, e contro la paura artatamente creata, la formazione di una superpolizia federale. Ingigantendo le attività criminali di proletari americani impoveriti e emerginati dalla depressione, dalla disoccupazione, dalla fame e dalla siccità. Nel romanzo chiave che racconta quegli anni, Furore di John Steinbeck (1939), e non è un caso, ecco fare la sua apparizione proprio Pretty Boy Floyd, molte volte ricordato da Ma Joad come vittima della crisi. Infatti, assieme a Dillinger e a Baby Face Nelson, Floyd è stato considerato dall'Fbi nascente il pericolo pubblico n.1 nei primi anni trenta: una triade leggendaria per l'immaginario americano.
Rapinatore famigerato ma anche gentiluomo adorato del Midwest e del West South Central, figura tragica e vittima di quei tempi durissimi, Pretty Boy Floyd è entrato nella leggenda popolare come tanti altri ribelli della Grande Crisi, istigati all'autosopravvivenza dal cinismo politico e bancario più efferato. Inoltre non si sa ancora bene come è stato ucciso e da chi. Polizia locale o federale? Anche se nella foto sono inquadrati gli agenti locali Robert "Pete" Pyle e George Curran, uccisori e 'imbalsamatori' ufficiali.
Il 'frame' proviene da un documentario in 16mm prodotto da William Randolph Hearst (il magnate reazionario che ispirò Orson Welles per Quarto Potere). Il positivo e il negativo di quel cinegiornale sono conservati negli archivi dell'Ucla, l'università (pubblica) della California di Los Angeles, che da circa venti anni sta restaurando l'intero patrimonio della "Hearst Metrotone News Collection", uno dei più imponenti archivi documentaristici del mondo. Quando mi è stato regalato il fotogramma l'archivista mi ha detto: 'è Dillinger'. Ma si sbagliava.
W. R. Hearst, repubblicano della destra doc, dagli anni 10 agli anni 40 del secolo scorso, ci ha lasciato non soltanto un meraviglioso materiale filmato sulla prima guerra mondiale, il confitto Usa-Messico, lo scandalo dei Black Sox, i pionieri dell'aviazione e gli esploratori del Polo Nord (per ricordare solo i newsreel del periodo muto) ma fiancheggiò anche, con le armi dell'immaginario 'sporco', le campagne propagandistiche, anche quelle più criminali, del capitalismo proto-liberista degli anni venti: la caccia ai rossi, la denigrazione di ogni avversario politico, e soprattutto del più che socialista F.D. Roosevelt, e la messa a punto per i decenni a venire di 'macchine del fango' ben collaudate contro chiunque mettesse lacci ed ostacoli alla libertà di mercato più estrema, fossero individui, artisti, intellettuali, capitalisti 'perdenti', economie da sbriciolare (es.: la demonizzazione del Messico e oggi della Colombia, a proposito della droga), paesi da invadere o colonialisti da scalzare (la guerra contro la Spagna per la conquista di Cuba si è giovata di falsità inventate, diffuse e ingigantite dai media Hearst, proprio come il sistema militare-industriale farà durante le aggressioni in Vietnam e in Iraq).
Un'altra immagine del cadavere di Pretty Boy Floyd |
Rapinatore famigerato ma anche gentiluomo adorato del Midwest e del West South Central, figura tragica e vittima di quei tempi durissimi, Pretty Boy Floyd è entrato nella leggenda popolare come tanti altri ribelli della Grande Crisi, istigati all'autosopravvivenza dal cinismo politico e bancario più efferato. Inoltre non si sa ancora bene come è stato ucciso e da chi. Polizia locale o federale? Anche se nella foto sono inquadrati gli agenti locali Robert "Pete" Pyle e George Curran, uccisori e 'imbalsamatori' ufficiali.
Floyd era nato a Bartow County, Georgia ma era cresciuto in Oklahoma perché la sua famiglia si era trasferita lì nel 1911. Kansas, Arkansas e Missouri hanno completato il suo panorama adolescenziale fino al primo arresto, a 18 anni, per aver rubato monetine per l'equivalente di tre dollari e 50 cents in un ufficio postale locale. Tre anni dopo, nel 1925, un arresto per rapina, a St. Louis, Missouri. Cinque anni di carcere, di cui ne sconta tre e mezzo. Esce e per molti anni svaligia banche con i migliori professionisti della zona. Il nomigliolo che gli affibbiano lo irrita proprio come a Nelson il "Baby Face".
L'album del film di Herbert Leder (1960) |
Poco dopo l'uccisione di John Dillinger, il 23 luglio del 1934, "Pretty Boy" Floyd fu ufficialmente dichiarato Nemico pubblico n.1 e il 22 ottobre fu colpito a morte sulla Sprucevale Road, tra Beaver Creek State Park e Clarkson, Ohio|Clarkson, vicino East Liverpool, Ohio, mentre era inseguito da Melvin Purvis e da agenti Fbi e locali. Morì sotto un albero di mele ma ancora non è stata chiarita la dinamica dei fatti. L'agente in pensione Chester Smith, il capo della polizia di East Liverpool, Hugh McDermott, hanno partecipato all'azione e le loro testimonianze non coincidono con quelle di Purvis. (R.S.)
I mostri della palude silenziosa. Ami Canaan Mann su Sky
Mariuccia Ciotta
Geografie emozionali per un thriller ispirato a fatti reali, Texas Killing Fields respira la rarefazione estetica di Michael Mann, la tensione interna dei suoi noir, oggetti duri dentro e vellutati fuori, percorsi di un Jean Pierre Melville catapultato nelle paludi di Texas City, affacciata sulla baia di Galveston, ai confini con la Louisiana, set del film.
Erano foto di quasi bambine, foto di scuola, segnaletiche di casi irrisolti. «Ho sentito la necessità di aiutarle». Così Ami Mann sedotta da quegli sguardi costruisce un film realistico sulla comunità dei 40 mila di Texas City, ma attraversato dall'irrazionale incursione in una Sleepy Hollow irta di alberi scheletrici, oscuri profili di demoni ad evocare una comunità cannibale che abitò davvero quelle terre, e forse anche i 576 morti causati dall'esplosione di una cisterna di nitrato d'ammonio nel 1947.
L'adolescenza nella palude di Ami Canaan Mann, Usa 2011.
Era stato il gran finale al
Lido 2011, Texas Killing Fields, l'opera seconda di Ami Canaan Mann, figlia del sommo cineasta di Manhunter, che chiudeva il concorso. In questi giorni è
in programmazione su Sky Cinema e va recuperato e registrato, se possibile.
Ami Canaan Mann con Michale Mann alla Mostra di Venezia |
Geografie emozionali per un thriller ispirato a fatti reali, Texas Killing Fields respira la rarefazione estetica di Michael Mann, la tensione interna dei suoi noir, oggetti duri dentro e vellutati fuori, percorsi di un Jean Pierre Melville catapultato nelle paludi di Texas City, affacciata sulla baia di Galveston, ai confini con la Louisiana, set del film.
I vapori dei polar e del
voodoo soffiano fino ai paesaggi spettrali (che la Mary Pickford dei 'Passerotti', Sparrows, 1926, avrebbe adorato) scelti come controcampo di una
storia vera, gli omicidi di una cinquantina di adolescenti, vittime di violenze
sessuali che nel corso degli anni sono state ritrovate immerse nell'acquitrino
dei «campi assassini». Una piccola Ciudad de Juarez al di qua del confine.
Tutto parte dalle indagini di
un segugio della Dea, la task force contro i traffici di droga, Don Ferrone che
si appassionò al caso, prese contatto con due detective del luogo e, uscito
dall'organizzazione nel 2000, scrisse il copione delle sue memorie.
Jessica Chastain |
Passato al mestiere di
sceneggiatore, Ferrone - che era presente al Lido di Venezia all'incontro
stampa insieme alla regista e al padre-produttore Michael Mann per il quale ha
già scritto Heat e Miami vice - firma la sceneggiatura che era stata proposta in un primo momento al regista Danny Boyle, di un film nato
dall'ossessione per quei fantasmi affondati nel fango, ragazzine morte ed
entrate «nella catena alimentare» della palude, molte senza nome, e che «mi
guardavano dritto negli occhi dalla mappa pubblicata su un giornale», dice la
regista.
Erano foto di quasi bambine, foto di scuola, segnaletiche di casi irrisolti. «Ho sentito la necessità di aiutarle». Così Ami Mann sedotta da quegli sguardi costruisce un film realistico sulla comunità dei 40 mila di Texas City, ma attraversato dall'irrazionale incursione in una Sleepy Hollow irta di alberi scheletrici, oscuri profili di demoni ad evocare una comunità cannibale che abitò davvero quelle terre, e forse anche i 576 morti causati dall'esplosione di una cisterna di nitrato d'ammonio nel 1947.
Chloe Grace Moretz |
La piccola Anne (Chloe Grace Moretz, interprete del
futuro Tim Burton, Dark Shadows) è la
prossima vittima. Già sotto il trauma di una madre «cattiva», attorniata da
brutti ceffi in una baracca fatiscente, fratello degenerato, la quindicenne è
sotto la sorveglianza dei due detective, Mike (Sam Worthington, Avatar)
e Brian (Jeffrey Dean Morgan, Watchmen e Csi) a caccia dell'assassino seriale, in competizione con la rossa
poliziotta del distretto confinante, Pam (Jessica
Chastain, The Tree of Life di
Malick e Wild Salomé di Al Pacino).
Il gioco tra Mike, il duro razionale, e Brian, il cattolico spinto
dall'emozione configura la doppia metafora sociale e mistica sulle tracce dei
bellissimi spettri, in cerca di giustizia nel «giardino del bene e del male».
Mike segue due balordi, Brian i demoni dei Killing
Fields in traiettorie convergenti che salderanno l'orrore domestico con
quello rituale.
Ami Canaan Mann con Walter Hill al festival di San Sebastian |
Un film di genere, ma trasfigurato dall'occhio obliquo di Ami
Canaan Mann (la sorella Aran firma le scenografie), Texas Killing Fields si associa al cinema liberato da ogni
scolastica prova di regia. Anche grazie alla fotografia di Stuart Dryburgh, neozelandese in sodalizio con Jane Campion.
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venerdì 5 luglio 2013
QUIZ. Chi è? Non è il fotogramma di un film, ma l'inquadratura rubata a chi fotografò Che Guevara cadavere......
L'ALBUM DEL CIOTTA SILVESTRI N.1
Dall'archivio Ucla del patrimonio documentaristico Hearst |
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