martedì 27 febbraio 2024
Notizie da filmare. Come sono e come dovrebbero essere i film sul giornalismo
DI SAMUEL FULLER (1)
Svezzato a Park Row, in coppia con la giornalista Rhea Gore (madre di John Huston) per il mio primo caso di doppio suicidio considerai il definitivo passaggio da giornalista a cineasta come una naturale transizione dalla messa a punto dell'impaginazione di un giornale al ritocco di un trucco facciale.
La Prima Pagina e lo Schermo sono fratelli di latte. Lavorare all'obitorio e girare un film sono cose che suggeriscono continuamente immagini. Un titolo ha l'impatto di un primo piano, la carta e la pellicola vergine costringono la lunghezza di un articolo e il metraggio di un film, l'incipit di una notizia è l'inizio di un film.
Goudy 8 punti, schermo panoramico, corpo 12, moviola – il giornalista e il regista spillano sangue dallo stesso campo di battaglia emotivo, da ciò che è fatto per venire stampato e da ciò che è fatto per venir filmato. Il pendolo del “non puoi” e del “non devi” oscilla dai fatti in nero su bianco alle fantasie in technicolor. Il “vero” del giornale è l'”immaginario” del cinema che hanno in comune forbici macchiate di sangue, colla, prove, adesivi, taglierina, copie di lavorazione, generano le urla di battaglia gemelle del riscrivere, rifare, rigirare, ridoppiare, e arrivano a maturazione con la macchina da stampa e da proiezione.
Il mio primo contatto con un giornale fu come strillone del “Worcester Telegram”, del “Boston Post”, del “Boston American” a Worcester. A New York dall'età di 11 anni, a 12 vendevo giornali al Ferry della 125esima strada. Quei tempi gli strilloni acquistavano i giornali dal reparto distribuzione. Ebbi un colpo di fulmine per il “New York Evening Journal”, al 238 di William street, verso Park Row, a un isolato dalla Bowery, di fronte alla Casa dello Strillone, sponsorizzata da Al Smith.
Il guercio e sordastro Tom Foley, direttore del reparto stampa del “Journal” mi introdusse nel Paese delle Meraviglie, mi mostrò le rotative in azione, il canto delle linotypes che componevano, e infine il tesoro: la stanza della cronaca cittadina al settimo piano.
Le grida di “una copia, ragazzo”, e i giovani sotto i venti anni che correvano, arrotolavano i giornali e li sparavano attraverso tubi pneumatici, erano elettrizzanti. Al diavolo lo strillonaggio! Quello di lavorare in un giornale divenne un'ossessione. Di lavorare al “Journal”.
“Dichiara il falso” mi disse il direttore amministrativo Joseh M. Mulchay, per avere il libretto di lavoro digli che hai quattordici anni. Allora ti farò lavorare come fattorino”.
Fattorino semplice al “Journal”, fattorino personale di collegamento di Arthur Brisbane, fattorino capo (e unico fattorino) al “New York Evening Graphic”, cronista di cronaca nera al “Graphic”, al “Journal”, al “San Diego Sun”, corrispondente per quotidiani, settimanali, quindicinali, in giro per tutto il paese, fu un accumularsi di personaggi, di aneddoti, di emozioni contrastanti, senza la minima idea di realizzare un film.
La prima scaramuccia con Hollywood avvenne quando rifiutai l'offerta di cinquemila dollari dalla Metro Goldwyn Mayer (perché inventassi una soluzione fittizia dell'insoluto caso di doppio suicidio di cui avevo scritto), quando il comune di New York offrì 25.000 dollari per la soluzione vera, con tanto di nomi. I due omicidi sono ancora oggi insoluti. I cadaveri erano quelli del ricco spilorcio ottuagenario Edward Riley, dalla barba bianca, e del suo segretario. Il mio titolo era Chi ha ucciso Babbo Natale? Perché Ridley amava cancellare le ipoteche in occasione del Natale. Non rimpiango di aver rinunciato a quei 5.000 dollari. Un giorno il film Chi ha ucciso Babbo Natale? sarà il mio contributo cinematografico a un caso di omicidio che resiste ai tentativi di soluzione e conserva ancora la sua suspense per l'ignoto epilogo.
Alla domanda “Da dove prende le sue idee per i film?” non è difficile rispondere. Occupandomi di un'esecuzione...quando un uomo che ha fatto a pezzi la sua famiglia con un coltello da macellaio in una chiatta sul fiume Hudson mi disse che gli rincresceva se aveva fatto loro del male...ascoltando i problemi sessuali di uno che sta per buttarsi giù dal cornicione a trenta piedi d'altezza ed cadendo schiaccerà come un moscerino uno sfortunato passante...riuscendo a farmi dire le generalità di una bionda nuda con una paresi che canta l'inno nazionale a cavalcioni di un idrante perché il suo nome è Frances Key...osservando i cronisti che all'aeroporto di Teterboro nel New Jersey rifiutavano di aiutare Lindberg a far ruotare la coda del suo aereo perché offesi dal fatto che a tutte le loro domande egli rispondeva “Volete sapere qualcos'altro?” ...trasmettendo la notizia della morte di Jeanna Eagles dopo aver scoperto il suo cadavere alle Pompe Funebri Campbell...posando per il “Graphic” per un montaggio fotografico in modo da apparire con gli aviatori francesi Nungesser e Coli nel loro aereo schiantatosi nello sfortunato volo transatlantico giusto per sconcertare mia madre che non riusciva a capire come mai, visto che il fotografo era così vicino, gli aviatori non fossero stati tratti in salvo...accompagnandomi a un giovane poliziotto del distretto 24 a seguito di una normale chiamata e finendo per imbattermi nel cadavere di un individuo ucciso in un gabinetto sotterraneo...riuscendo a ottenere un'intervista da J. P. Morgan solo per vedermela distruggere dal redattore-capo della cronaca cittadina sicuro che J. P. non avrebbe mai potuto concedermela...assunto, licenziato, riassunto dal grande Gene Fowler nel giro di 5 ore quando, mentre facevo la cronaca di un discorso di un ammiraglio, a miglia di distanza, presso il ristorante di Lum Fong a Chinatown scoppia il caso del brutale assassinio di un vagabondo della Bowery...telefonando da un negozio di sigari in diretta la cronaca di una rivolta razziale...usando le edizioni domenicali dei giornali come coperte e cuscini, mentre viaggiavo di nascosto sui treni merci in compagnia dei profughi della Depressione...lavandomi i piedi con i vagabondi nei truogoli di latte confiscato...disegnando vignette contro i monopoli commerciali per un settimanale di Rochester il cui direttore ed editore era candidato alle elezioni governatoriali nel Minnesota e vi raccolse sette voti....ritraendo le prostitute di San Francisco mentre seguivo lo sciopero generale nel corso del quale i soldati spararono sugli scioperanti di fronte al palazzo del Ferry.
Ogni giornalista ha questo pozzo degli orroriu trarre ispirazione. Ogni giornalista è potenzialmente un cineasta.
Tutto quello che egli/ella deve fare è trasferire le emozioni della realtà sullo schermo, spruzzandole di fantasia.
Tutto ciò non si applica ai critici. Un giornalista riferisce i fatti ribollendo internamente di emozioni che devono rimanere personali. Un critico narra l'accaduto dall'esterno, specificando ciò che di esso gli è piaciuto e ciò che non gli è piaciuto. Ogni fatto è diverso dagli altri. Il critico generalmente suona sempre la stessa musica con la sua macchina da scrivere. Pochi di essi sono passati a dirigere film.
Peter Bogdanovich è uno di questi pochi eletti, ma egli era più che un critico. Egli analizzava i film nel modo in cui un giornalista analizza le emozioni. Si tirò fuori dalla platea degli spettatori per divenire un creatore.
Il mio unico film sul giornalismo, Park Raw era ambientato nel 1886 perché la mia passione per quella strada mi impose di realizzarlo. Ebbro dei colossi del giornalismo che vissero prima del mio tempo, il bighellonare nei pressi della farmacia di Doc Perry nell'edificio del “World” dove un tempo Pulitzer comperava le sue medicine, il lavorare dove allora questi giganti lavoravano, passeggiavano, mangiavano, bevevano, sognavano, combattevano, ridevano e piangevano, mi procurò eiaculazioni solitarie mentre giravo il film nel teatro di posa che riproduceva quelle pietre miliari del giornalismo.
Col passare degli anni ci sono stati altri film ispirati al mondo dei giornali. Anche alcuni buoni. Five Star Final, del 1931, scritto da Louis Weitzenkorn, si ispirava a Emile Gauvreau, direttore del “Graphic”.
Gauvreau diede a Wichell la sua prima opportunità. A quel giornale di sinistra moderata collaboravano anche Jerry Wald (redattore capo della rubrica radiofonica), Norman Krasna (critico teatrale), Artie Auerbach (fotografo che divenne poi Mr. Kitzel, la spalla di Jack Benny nel suo show televisivo) e John Huston cronista.
Weitzenkorn venne dal “World” a sostituire Gauvreau che andò al “Mirror” a tormentare Winchell che non lo poteva soffrire. Il cambio degli zar fu macabro. Gauvreau se ne andò con un piede slogato, Weitzenkorn subentrò con un braccio rotto. Lasciato Pulitzer per toccare il fondo della pornografia nel “Graphic” di Bernard MacFadden, Weitzenkorn coniò un gioiello della drammaturgia: l'entusiasmante carriera di Gauvreau.
Il direttore di Five Star Final era un personaggio reale. Gauvreau ripescò veramente un vero omicidio, promise rivelazioni sensazionali che avrebbero reso nota la vera identità dell'assassina – già prosciolto dall'accusa – e la terrorizzo'. Riultato: il suicidio della donna e di suo marito. Il mio ruolo in questa zuppa persecutoria fu di condirla con fatti sui figli dei due suicidi. Nel film il personaggio si trasformò nella figlia. Gauvreau si lavava sempre le mani, dopo una storia disgustosa. E così fa Edward G. Robinson nel film diretto da Mervyn Leroy. Anni dopo quando scrivevo la sceneggiatura di Gangs of New York (poi film nel 1938 diretto da James Cruze), ebbi l'ironica sorte di imbattermi in Weitzenkorn che stava scrivendo un copione intitolato “Il re degli strilloni”, King of the Newsboys che diventerà film nel 1938, per la regia di Bernard Vorhaus.
La prima teatrale di Prima pagina (The Front Page), cui assistetti con Kermit Jaediker del “New York Daily News”, ci commosse entrambi perché in Lee Tracy vedemmo ciò che non eravamo ma che avremmo amato essere. Era emozionante. Dopo che il sipario calò tornammo in Sala Stampa (che di giorno era il negozio di un idraulico) di fronte alla stazione di polizia della 47esima strada e alla vicenda di un escavatore che finalmente tirò fuori dai rifiuti dell'Hudson il corpo di un ragazzo di 5 anni. Le gocce d'acqua sulle ciglia del ragazzo morto mi fecero venire in mente le gocce di sudore che imperlavano la fronte del povero bastardo nascosto della scrivania di The Front Page.
Raccontano che quando Howard Hughes decise di filmare The Front Page egli ordinò di “scritturare l'uomo che interpreta Hildy Johnson a teatro”. Nell'allestimento di Chicago il ruolo era interpretato da Pat O'Brian. Hughes lo convocò pensando di convocare Lee Tracy. Vera o falsa che sia, è una bella storia e Lewis Milestone, che dirigendo il film nel 1931 fece un lavoro di prim'ordine, è l'uomo che può confermare o smentire l'aneddoto.
La signora del venerdì (1940) costituì una superba variante al femminile di The Front Page con un incalzante ritmo da mitragliatrice. Dopo la seconda guerra mondiale, il film mi divenne più familiare tramite Howard Hawks.
Il mio romanzo, The Dark Page (essenzialmente uno studio psicologico di un direttore di giornale che scatena una caccia a se stesso estesa a tutta la città dopo avere ucciso la moglie, abbandonata venti anni prima) fu scritto prima del secondo conflitto mondiale. Lascia la prima stesura a mia madre che m'informò, quando mi trovano nell'Africa del nord, nelle vicinanze del passo di Kasserine, di avere speso l'anticipo avuto per la cessione del libro agli editori Duel, Sloane and Pearce. Una copia del volume mi raggiunse in Francia, presso Saint-Lo, un'offerta di Hollywood mi mancò per poco a Mons, in Belgio, e nella foresta di Hurtgen, in Germania mi informarono che Howard Hughes aveva acquistato i diritti del libro per 15 mila dollari per un film con Bogart e Robinson. Egli li rivendette alla Columbia.
Il film, con Broderick Crawford, si intitolò Ultime della notte (diretto da Phil Karson nel 1944). Quel film non ha nulla a che fare con il mio libro.
L'asso nella manica di Billy Wilder (1951) è il ritratto più fedele di un figlio di puttana di giornalista. Non risparmia un colpo.
Un giornale – come una chiesa, un bordello, un raduno delle Figlie della Rivoluzione Americana, un congresso politico, le adunate del K.K.K., una sinagoga, una biblioteca pubblica - è un carattere vivente, rifuso di ora in ora con una dialettica di sfumature altamente presenti in ogni uomo o donna che vi scrivano.
Fare un film veritiero sul giornalismo è altrettanto difficile che fare un film veritiero sulla guerra.
Il censore non è la sola barriera. La gente che acquista i biglietti ed entra in un cinema per sgranocchiare i popcorn sedendo in soffici poltrone è stata abituata attraverso gli anni al giornalismo come appare sullo schermo. Drogati, ingannati, delusi, essi sanno cosa aspettarsi e non accetterebbero un film di guerra che mostrasse indifferenza per le atrocità, con vecchi combattenti che sacrificassero dei mocciosi in un campo minato, godendo della disumanizzaizone, con ufficiali impudenti che riferendosi a corpi decapitati li chiamassero “i miei ragazzi”, stando nelle retrovie a letto con le loro donne; con bollettini di guerra falsati per raggranellare voti, far soldi, sventolare bandiere, vendere armi, trafficare al mercato nero con cadaveri sventrati e bruciati.
La gente non accetterebbe un film sul giornalismo con atrocità politiche e assassini ben preparati e prezzolati di personaggi i cui nomi corrispondessero a nomi reali; non accetterebbero le astuzie della Direzione che sparge una cortina nebbiogena davanti agli occhi di un cronista sul punto di denunciare un Presidente, di colpire un inserzionista, di mandare in galera un giudice federale, di smascherare una squadra del buon costume. Non accetterebbe di vedere l'Fbi coinvolto in un ricatto perché l'Fbi è lo stesso pubblico che sgranocchia il popcorn. Non accetterebbe editori in combutta con politicanti, editori prostituiti ai banchieri che ricevessero prebenda dall'alta finanza mentre pubblicano lettere aperte prive di senso contro i loro finanziatori.
Cento anni fa gli uomini politici di Washington non avrebbero concesso interviste ai giornali se non a pagamento. Oggi essi pagano scrittori-ombra che confezionano le loro biografie destinate a diventare dei film. Queste autobiografie non raccontano mai fatti compromettenti.
Fino alla fine del diciottesimo secolo il Senato vagliava le denunce dei giornali, tuonando “la discrezione è il nemico della democrazia”.
Oggi i giornali, alcuni giornali, pubblicano segreti riguardanti il Senato che vorremmo poter vedere sullo schermo.
Il processo condotto sulle colonne di un giornale si usa ancora. Tutte le notizie ritenute impubblicabili, tutte le scene ritenute non adatte a venire filmate costituirebbero uno splendido film sul giornalismo. Esso conterrebbe fatti, personaggi reali, humour, emozioni, azione. Sarebbe spettacolarmente rivelatore. In esso il linguaggio dei caratteri di stampa si incarnerebbe. Si vedrebbe l'ardore della parola stampata diventarci immediatamente familiare sullo schermo. Andrebbe al di là della Bibbia, del giornale, del teatro. Darebbe vita alle parole, in emozionanti primi piani. Trasferirebbe da Gutenberg a Griffith, dai caratteri tipografici allo schermo, una precisa, vibrante sensazione di movimento visto con gli occhi, udito con le orecchie e ritenuto per sempre con il cervello. La vera storia di Edgar J. Hoover (2) potrebbe diventare un magnifico film, Non nell'anno 2000. Oggi.
Per poter fare un film del genere sul giornalismo io darei la mia linotype destra. Forse un giorno …. presto
Questo articolo è stato pubblicato in Italia dal Mystfest a cura di Giorgio Gosetti nel catalogo di cui pubblichiamo la foto qui sopra
(1)DA “AMERICAN FILM” VOL.1 N.1 OTTOBRE 1975. TRADUZIONE DI PIERO TORTOLINA
(2) Clint Eastwood ha girato J.Edgar solo nel 2011. E non so se sia la vera storia.
questo bellissimo autografo con disegnino è proprio di Sam Fuller, una dedica che mi ha fatto nel corso di una intervista del 1983 pubblicata sul manifesto. La cosa fu resa possibile grazie a Federico De Melis perché suo padre era l'editore musicale di Ennio Morricone e Fuller era a Roma per la colonna sonora di Thieves after Darkcon Bobby Di Cicco e Veronique Jannot. (r.s.)
sabato 24 febbraio 2024
Storia obliqua del cinema 2. Come farei un film su Mussolini. Laura Salza incontra Samuel Fuller (a Cannes per “Il grande uno rosso”)
Ho ritrovato questi preziosi fogli in cantina. Si tratta di un articolo non pubblicato dal manifesto 44 anni fa (in quel caso per mancanza di spazio, anche per le poche pagine, allora, dedicate alla cultura e all'arte dal quotidiano comunista). E' l'incontro della giornalista Laura Salza con Samuel Fuller è avvenuta il 18 maggio 1980 all'Hotel Montfleury di Cannes, alle cinque di pomeriggio di una giornata grigia e piovosa. Il grande uno rosso era stato presentato sulla Croisette due giorni prima, in concorso, e accolto senza l'entusiasmo meritato, almeno dallo zoccolo duro festivaliero.
Ricordo invece di aver visto il film crescente emozione ben tre volte in quei giorni, inseguendolo nelle varie repliche all'Ambassade o allo Star di rue d'Antibes (allora era possibile senza perdere il ritmo, rivedere i film apprezzati, passare lunghi pomeriggi in spiaggia e intervistare per ore i cineasti preferiti anche se non sei nessuno. Oggi il festival sembra piuttosto un campo di lavori forzati per addetti ai lavori compiacenti. La dittatura pr ti concede al massimo 10 minuti, e se proprio conti qualcosa).
Molto più entusiasmo era stato riservato dalla stampa scandalistica a uno dei protagonisti del film, l'ultimo rampollo della celebre famiglia Carradine, Bobby, di cui si era scoperto l'affettuoso legame con la bella Tessa Taylor (figlia della super star Robert) in vacanza in quei giorni in Costa Azzurra.
Essere liquidato dai critici di fascia A come il “solito Fuller di serie B” non sminuisce la bellezza di Il grande uno rosso, oggi considerato tra i più potenti e autentici film sulla seconda guerra mondiale, visto che era anche frutto di sconvolgenti esperienze dirette. Ma il fatto “e una certa schizzinosità dei grandi esperti ai quali non interessava intervistarlo, aveva un po' innervosito” - scrive Laura Salza - il grande regista che finalmente era riuscito a girare il film della vita.
Steven Spielberg nel 1998 dedicherà a Fuller le scene iniziali di Salvate il soldato Ryan, quelle della carneficina dei soldati americani durante lo sbarco in Normandia, perché furono tagliate dai produttori di Il grande uno rosso per la loro insostenibile crudezza.
Laura Salza, nata nel 1944 e morta nel 2015, “bellissima, affettuosa, spiritosa, appassionata” come scriveva nel neccrologio Nuova Informazione (organo della Federazione nazionale della stampa) era una giornalista politicamente impegnata (vicina alla sinistra del partito radicale) che scriveva di cultura, moda, spettacolo sui periodici Rizzoli. Evidentemente le avevano respinto la proposta (“a chi interessa Fuller?”) e ci aveva girato l'intervista con gentilezza e affetto per un'impresa che considerava molto vicina. Poliglotta (parlava perfettamente il russo), grande viaggiatrice, personalità esuberante divisa tra lavoro e militanza politica e sindacale negli anni 1970-’90 è andata in pensione nel 2005. Era stata sposata con Lucio De Carlini, segretario della Camera del Lavoro di Milano. (r.s.)
di Laura Salza
All'inizio del nostro incontro Sam Fuller sostiene di aver già bevuto setto, forse otto Bloody Mary, il suo cocktail preferito. Ecco forse la spiegazione per le sue grandi risate e delle romanze improvvisamente intonate che hanno inframmezzato l'intervista. Che infatti comincia con la lirica.
Fuller: Caruso? Forza ragazza, parliamone. Quando ero piccolo, prima nel Massachussetts, poi a New York, dove ci siamo trasferiti, mia madre aveva tutti i dischi originali. Dischi di quel materiale che si rompe. Delicatissimo. Ho una nipotina, Samantha, che è abituata ai dischi di plastica e non glieli ho mai fatti vedere. Insomma: ho tutti i dischi di Caruso incisi prima della prima guerra mondiale. Ho anche qualche opera e le registrazioni di concerti tenuti negli anni Venti. Mi piace Caruso, come mi piace il Bloody Mary. Io vado all'Opera. Verdi e Puccini? Non posso fare paragoni. Sono grandi compositori? Il meglio! Le racconto un episodio. Siamo nel 1953, 1954. Io sono nel mio ufficio alla Fox. Una specie di bungalow. Nel bungalow accanto sono al laovro due compositori che scrivono canzoni. Io lavoro e sneto il piano. Scrivono la musica per A Many Splendored Things
Salza Ah, per L'amore è una cosa meravigliosa di Henry King? Love is a many-splendored thing?
Fuller .:No, no. Il libro dal quale il film è tratto si chiamava A Many Splendored Thing. La donna che l'aveva scritto, Han Suyin, era era un autore sstraordinario, che non aveva bisogno di scrivere “Love is...” perché tutto il libro parlava d'amore. Perciò l'aveva intitolato A many splendored thing. Duque sento i due compositori (il paroliere Paul Francis Webster e il musicista Sammy Fain ndr), da-da-da. Poi un giorno sento qualche nota in più: dadadada, dadadata, dadada. E un giorno: daaaaaang; poi ancora un attimo di silenzio e ancora due o tre note. Io mi dico: questa musica l'ho già sentita. Insomma hanno preso l'aria di “Un bel dì vedremo”, hanno separato le note inserendone alcune e il gioco è fatto: era nata un'aria nuova. Ma loro lo sapevano che, sotto, c'era la grande intuizione musicale di Puccini ed erano sicuri che quella musica sarebbe piaciuta al pubblico. Avevano ragione (e qui Fuller si mette a cantare: un po' di Puccini, un po' di L'amore è una cosa meravigliosa, accompagnandosi con il tintinnio dei cubetti del ghiaccio del suo Bloody Mary).
Io chiamo immediatamente la mia segretaria, “figli di puttana, sono, ladri, ladri, ladri e figli di puttana”. Glielo ho anche detto, ma loro mi hanno risposto tranquillamente: “Nessuno se ne accorgerà”. Come infatti è avvenuto. Quella canzone piace perché è quella canzone, non perché assomiglia a Puccini. E anche Verdi. Quando ero giovane, alla fine dell'anno scolastico c'era sempre una safilata davanti ai genitori, che venivano a ritirare il diploma finale. L'ambizione di tutti era di aprire la sfilata portanto la bandiera americana. Mia madre, che voleva che avessi quell'onore, per alcuni pomeriggi mi fece fare la prova in casa. Io, attento, la seguivo. Così quando a scuola si è trattato di scelgiere, il compito è stato affidato a me, che sapevo farla benisismo. Lo sa perché mia mamma mi aveva fatto esercitare? Perché lei in casa la musica ce l'aveva, prorpio quella che suonavano a scuola. Era la Marcia trionfale dell'Aida. Noi, nel Massachussetts, Verdi lo conoscevamo. Io sono sicuro che in Italia non lo conoscete. Voi lo usate per le cerimonie scolastiche?
Salza: No
Fuller: Stupidi figli di puttana. E' un autore così bravo! (canta la marcia dell'Aida agitando il bicchiere, nel quale è stato versato un altro Bloody Mary, mentre dall'altoparlante del Montfleury continuano ad essere chiamati i boss del cinema cercati al telefono. Fuller ogni volta si interrompe. Ma non è il suo nome quello chiamato).
Quello che cerco di dire è che, al loro paese, gli autori sono poco amati. Verdi, in Italia, sarà considerato un autore di arie, mntre in alcuni paesi lo considerano un grande compostore, e in altri un genio.Io sono stato allevato al suono della musica italiana. Allora, quando ero piccolo,i dischi costano 60 cent. Cinque dolalri di oggi. Caruso era famoso negli Stati Uniti. Io mi ricordo “Ridi pagliaccio...” (canta l'aria allargando le braccia).
Salza: Lei ha visto Caruso cantare?
Fuller: No, per forza, ero troppo giovane. Mia madre sì. L'aveva visto e sentito cantare in Cavalleria rusticana e Pagliacci, due opere che vengono presentate sempre insieme perché sono brevi. I biglietti per andare al Metropolitan, allora, si potevano acquistare dal barbiere. Costavano 5 dolalri, 60 di oggi. Erano molto cari ed era poca la gente che poteva permetterseli. Anche mia madre faceva fatica a trovare i soldi. Ma, come lei, c'erano altre 10 mila donne, 10 mila uomini che risparmiavano per andare a sentire Caruso. Risparmiavano perché sapevano che quell'uomo avrebbe dato loro della gioia.
Salza: E lei, regista, dà gioia ai suoi spettatori?
Fuller: Oh no. A me piace che la gente, guardando i miei film, si senta colpevole.
Salza: Parliamo di Il grande uno rosso. C'è una scena del film che ricorda Furia umana (White Heat), interpretato da James Cagney. Un uomo ha appena sparato a un altro quando entra in scena un terzo che annuncia la fine della guerra. Quando lei ha girato questa scena e l'ha scritta, ancora prima, nel libro Il grande 1 rosso, aveva in mente il film di Cagney o l'ha inventata?
Fuller:Non ho visto il film di Cagney. Poi lui faceva tutti gangster-film. Io l'ho vissuta in Cecoslovacchia quella scena. Avevamo combattuto fino alle 4 del mattino. Anzi fino alle 4 e 10'. Una battaglia vera, non da film. A quell'ora, dal bosco, arrivano verso di noi 300, 400 uomini che urlano. Urlano che dobbiamo raggiungere tutte le postazioni rimaste senza contatti radio per riferire che a mezzanotte e un minuto è stata annunciata la fine della guerra. Noi avevamo combattuto fino a pochi minuti prima e fino a pochi minuti prima – a guerra finita – avevamo sparato ai tedeschi. Nei giorni successivi ci furono grandi imbarazzi: perché i tedeschi e gli americani e gli inglesi cercavano di dimostrare che gli altri avevano sparato dopo la mezzanotte, che gli altri erano colpevoli. E' un ricordo molto vivo, che mi ha dato l'idea per il libro e per il film: perché il voglio dimostrare l'ipocrisia della guerra. Basta un pezzo di carta firmato perché un soldato non sia più un soldato ma un assassino. Ma se tu non conosci quel pezzo di carta? Se vivi in un bosco dove non c'è inchiostro, non c'è carta, non c'è orologio, che si fa? Cè anche un precedente storico.Nel 1815 ci vollero 19 giorni di combattimentoprima che l'americano Andrew Jackson e il canadese Lafitte fossero informati che la guerra tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non era stata dichiarata. Era circolata la voce. Tutti ci avevano credeuto.
Salza: Lo stesso accade oggi in Giappone. E' solo di poco tempo fa la notizia che su un'isola giapponese è stato trovato un soldato che non sapeva dcella fine della guerra...
Fuller:Ogni due o tre anni trovano uomini che sono ancora nascosti sulle montagne, che se seontono tintinnare un bicchiere come faccio io si nascondono. Sentono rumori e non pensano che sei tu che stai andando a fare l'amore con il tuo uomo in una zona appartata. Gli hanno insegnato che l'americano è pronto a tutti gli inganni: perché dovrebbe credere a un elicottero che passa sopra la sua testa annunciando con l'altoparlante che la guerra è finita? E se fosse il nemico? Il governo giappnoese ha ammesso che ci sono ancora parecchie migliaia di persone, sulle isole deserte dell'arcipelago giapponese, che ignorano la fine della guerra. Quando vivi normalmente, sai che la mattina ti alzi, vai in bagno, bevi il tuo succo d'arancia, fai colazione. Che cosa dovresti temere? Ma quando sei in guerra e ti hann oinsegnato che ogni momento è buono perché qualcuno ti uccida, come fai a non sospettare di tutto? E' un po' la storia di quelli che gridano “Al lupo! Al lupo!..” Credo che ci fosse la stessa situazione in Italia, anche se io non ci ho mai combattutto. Io ho combattutto in Sicilia.
Salza: La Sicilia non è in Italia ?
Fuller:No. Se lei ha visto il film, ricorda la frase di Vinci che dice: “Io non sono italiano. Io sono siciliano”. Era difficile allora spiegare, in Sicilia, che noi andavamo a liberare l'Italia. E questa opinione, oggi, l'ammettono anche i generali. Basta guardare la cartina geografica e le zone occupate dai tedeschi. Che senso aveva partire dalla Sicilia? Noi, in Algeria, eravamo stati addestrati per sbarcare su un'isola che si chiama Sardegna. Mentre eravamo sulle navi ci comunicarono che andavamo invece a liberare la Sicilia. Che cosa significava a noi non importava, cosa potevamo saperne? Quanti nemici, questa era l'unica domanda che ci importava fare. D'altronde, il mio comandante era uno abituato a mangiare bene, a bere bene, a fare il bagno tutte le mattine, a giocare a bridge e a poker: dopo poteva andare a trovare i motivi giusti per spiegare a 12 mila soldati perché andavamo in Sicilia e non in Sardegna? Nel mio libro la scena in cui Vinci viene preso in giro per le sue origini siciliane è molto più lunga. Anche il mio film era molto più lungo. 4 ore e 20 minuti. Ma l'abbiamo dovuto tagliare, tagliare, tagliare. Quello che c'è nel film io l'ho vissuto. Sulla nave che mi portava in Sicilia, c'era un sergente simile a quello che ho messo nel libro e nel film. Si faceva gioco di un mio amico da anni, Nat Callura, di Filadelfia, di origini italiane, sotto le armi con me. Lo chiamava in tutti i modi, peggio dlele parole che ho portato sullo schermo. Callura non diceva mai niente. Un bel giorno succede che dobbiamo fare un'azione, andiamo a Caltagirone e questo sergente, un figlio di puttana che non dimenticherò mai (non è Lee Marvin , che nasce da 5 o 6 sergenti messi insieme) disse: “Mandate un uomo, mandate lui” idicando Callura. Ma Callura dice che ha paura e se la fa addosso. Allora lui, il sergente, fa vedere che lui, non essendo siciliano, è coraggioso. E va lui a fare l'azione, nella quale lascia la pellaccia. Molti sergenti sono morti così, non perché uccisi dal nemico, ma uccisi dai soldati che non li sopportavano più.
Salza: Torniamo al Grande Uno Rosso. Solo lei e Jerry Lewis (che ha girato The day that clown cried) avete fatto un film sui campi di concentramento nazisti...
Fuller: Alt, alt. Lei, gli altri, parlando di campi di concentramento in Europa, io di quelli negli Stati Uniti. Molti hanno parlato dei campi europei. Ma dopo Pearl Harbour, gli americani hanno raccolto tutti i giapponesi in campi in California e in Arizona. Io ho fatto un film su questa verità che è costata molto ma che pochi hanno avuto il coraggio di ricordare, di riferire le cose che dico. E si capisce perché. Quando si è colpevoli, si preferisce tacere. Io ho parlato con il mio giardinere (è il Giako del film). Mi ha dato l'indirizzo del campo d concentramento in California in cui erano rinchiusi suo padre e sua madre. Cosa faccio dire io nel film al giovane catturato da un giapponese? “Come puoi combattere qualcuno che ha gli stessi occhi che hai tu? Come puoi combattere al fianco di quelli che mettono nei campi di concentramento la gente con la faccia come la tua?”. Ho avuto molte rogne per quella sequenza. Mi hanno chiesto tutti dove avevo preso queste informazioni. Ho riposto. Me lo ha detto il mio giardiniere, viene da me tre volte la settimana, potete chiedere a lui. Nessuno ha mandato nessuno a controllare. Ho fatto un film in cui un soldato americano uccide un prigioniero comunista. Bene. Quando usì il film la stampa reazionaria mi ha attaccato perché facevo vedere un soldato che uccide un prigioniero di guerra. E la stampa comunista (per esempio il People World) mi ha accusato perché facevo vedere un soldato americano che uccide un prigioniero di guerra. Ci sono persone di ben scarso valore, che non danno nessun contributo alla civiltà, ma rappresentano solo partiti politici. (Su una immaginaria macchina da scrivere Samuel Fuller fa finta di trascrivere gli ordini: John George, 27 anni, deve essere fucikati stanotte perché fascista, no no, John Geroge, 27 anni, deve essere ucciso stanotte perché comunista, no no, John George, 27 anni, deve essere ucciso stanotte perché socialista, no perché è del partito del New Jersey o di qualche altro cavolo. Sghignazza. Si prende ilk naso e fa gli occhiacci.
Io i partiti li ho cacciati fuori dalla mia vita. Ho i miei amici. Esco a cena con loro., bevo con loro. Non voglio funzionari. Lei lo sa cosa sono i funzionari?Sono i premier. I cancellieri. I dittatori. Sono persone molto importanti. Ma adesso lei è fortunata, tutti quelli che sono qui sono fortunati sono fortunati, perché c'è la bomba H, la c osa più bella del mondo. E' così bella che non ci sarà più una grande guerra, non può più esserci. Tutte quelle persone importanti non possono più permettersi di arricchirsi con la guerra. Con la bomba H, dicono gli scienziati, ci sarebbe solo distruzione. Naturalmente dal 1946 ci sono state guerre, ma piccole. Corea, Vietnam, Afghanistan, Shoganistan, Smakisistan, Fazanistan, ah, ah. Ma è questa, ancora una volta, l'ipocrisia. Perché i morti sono sempre lontani. Chi è vivo è vivo. Chi è morto è morto.
Un giorno si farà un film con i veri nomi. Come Mussolini. Un uomo con un a testa, con le orecchie, con gli occhi. Un uomo che ha fatto la storia. Un rivoluzionario. Un grande capo socialista, un giornalista, un gangster leggendario, come Jesse James, il più grande dittatore. Che un giorno, guardandosi attorno, ha visto qualcuno che mangiava piatti di spaghetti più grandi dei suoi. Perché io no? Si è chiesto?E allora è andato dai grandi capitalisti a dire: non preoccupatevi, ci sono qui io, li scriveràò io i discorsi per Vittorio Emanuele, sono più bravo. Gli operai mi ammireranno. Le donne saranno dalla mia parte. Creerò un'organizzazione che controlelrà tutto. E si mise la camicia nera (grandi scoppi di risate).Era sposato, Trovava molte donne. Questa è proprio una bella storia di un uomo venduto, che non avrebbe mai pensato, un giorno, di finire appeso per i piedi. La più fortunata è stata la moglie: perché l'amante per i piedi, gliel'ha appesa qualcun altro. La fine di questa storia dovrebbe coincidere con quello stupido discorso fatto da quello stupido di Vittorio Mussolini, quando ha dovuto giustificare le stragi fatte dagli italiani in Etiopia. Come hanno dovuto fare gli americani per il massacro di My Lai, in Vietnam. Hailé Selassié era già andato a Londra a chiedere aiuto. Aveva detto che l'Italia stava diventando troppo forte e che aveva trovato un grande e forte amico, la Germania. Ma gli americani non gli hanno dato ascolto, perché non amano i re, i monarchi. Ecco l'ipocrisia degli uomini: se selassié si fosse presentato come un uomo qualunque sarebbe stato ascoltato dagli americani. Insomma Vittorio, che era stupido, disse c he quei morti in Etiopia non facevano impressione: che erano come tanti fiori rossi sbocciati all'improvviso. Che macabra immagine gli avevano suggerito quei cadaveri....
Samuel Fuller potrebeb parlare per ore. Gli piace discorrere di storia, ma le prime gocce di pioggia ci costringono a lasciare la terrazza dell'hoter Montfleury e a rientrare. Ha ancora un'intervista in programma, dobbiamo lasciarci. Ancora un minuto per ricordare che ha lavorato in n film di Wim Wenders sulla vita di Dashiel Hammett. Un'esperienza che gli ha lasciato una grande voglia di ridere.
sabato 17 febbraio 2024
STORIA OBLIQUA DEL CINEMA 1
Come è importante il nero nel cinema a colori. Cos'è l'ENR?
Roberto Silvestri
Il 28 febbraio 1983 al Filmstudio di via Orti d'Alibert, Roma, Armando Leone e Cristina Misischia organizzano un incontro con Ernesto Novelli dal titolo “La tecnica del colore”.
Questo che trascriviamo qui sotto è il ciclostilato di presentazione curato per l'occasione.
La scuola italiana di cinefotografia anni 50 e 60 è rinomata nel mondo. Rossellini, Visconti, Fellini, Antonioni, Rosi, Maselli vogliono dire anche Giuseppe Rotunno, Dario Di Palma, Gianni Di Venanzo, Pasqualino De Santis e tanti altri. Ma anche la qualità della nostra cinefotografia a colori è stata altissima. E c'è un perché chimico-tecnologico dietro a questa supremazia. Non solo il nome del 'Mozart' del cromatismo ottico.
Vittorio Storaro, forse il primo italiano ad aver saputo tradurre, in modo creativo, un know how sostanzialmente bianco e nero nel complesso e dominante colonialismo tecnico del Technicolor, scovò e incoraggiò infatti, in uno stabilimento che ne portava il nome, Ernesto Novelli, datore luci di straordinario coraggio e sensibilità, e un altro tecnico di sviluppo e stampa, il padre dello scrittore Christian Raimo (morto nel 2009).
Grazie a un sofisticato procedimento chimico da loro inventato (ENR, dalle iniziali di Enrico Novelli & Raimo), si riuscì a controllare, in modo molto più efficace del solito, il contrasto e la saturazione cromatica laddove serviva esaltare i segni e contorni sagomanti del nero. Fu anche grazie a questo ricercatissimo procedimento che Storaro vinse tre Oscar per Apocalypse now, Reds e L'ultimo imperatore. Tra i contributi artistici di Ernesto Novelli & Raimo ricordiamo anche Ultimo tango a Parigi, Novecento, Il portiere di notte, L'innocente, La città delle donne, un sogno lungo un giorno, La tragedia di un uomo ridicolo, Ho fatto splash, Delicatessen Sembra morto ...ma è solo svenuto. Il 31 dicembre 2013 gli stabilimenti italiani della Technicolor chiusero per sempre i battenti (la società oggi è francese...) licenziando 94 dipendenti (ma erano arrivati a 1000 ai tempi d'oro della Hollywood sul Tevere).
Christian Raimo racconta così su Repubblica (poi pubblicato sul blog di approfondimento culturale Minima & Moralia) l'invenzione che fecero suo padre e Ernesto Novelli:
“A poco più di trent’anni a mio padre capitò di inventare un processo chimico che “se l’avessi brevettato saremmo ricchi”. L’aneddotica vuole che su un pezzo di pellicola fossero rimaste delle tracce di qualche sale d’argento (utilizzato nel processo di sviluppo e poi fatto precipitare). Pasqualino De Santis, il direttore della fotografia Oscar per Romeo e Giulietta di Zeffirelli, vide questo pezzo e disse: “Voglio quell’effetto lì”; mio padre e il datore luci Ernesto Novelli cercarono di accontentarlo. In realtà si trattava di aggiungere ai tre filtri che costituivano la pellicola a colore (il magenta, il cyan e il giallo) una specie di quarto filtro bianco/nero realizzato con un bagno di bromuro d’argento. Siccome l’argento si annerisce alla luce bianca, l’immagine acquista in nitidezza: i neri che assomigliano a bluastri nella pellicola senza ENR con l’ENR sono molto neri, i colori sfarinati diventano iperdefiniti, si accentuano i contrasti. Il primo film che uscì con questo metodo fu Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, nel 1976. Quella generazione aurea di direttori della fotografia s’innamorò tutta dell’ENR: Peppino Rotunno, Dante Spinotti, Pasqualino De Santis, ma soprattutto Vittorio Storaro. L’utilizzo che Storaro fece dell’ENR diventò una specie di paradigma dell’immagine cinematografica...C’è una foto che ogni tanto mi tornava tra le mani quando nei giorni di festa le catalogavo da bambino: quella di un tavolo ovale, in un ufficio di legno alla Technicolor, un gruppo di poco più che ragazzi sorridenti, vestiti con completi beige stretti in vita e camicie dai colletti enormi, mio padre con i baffi foltissimi, e la statuetta dell’Academy proprio al centro del tavolo”.
La tecnica del colore – Incontro con Ernesto Novelli
di Armando Leone e Cristina Misischia
Il romano Ernesto Novelli, consulente tecnico del colore presso la Technicolor italiana da 27 anni, è un esempio eloquente quanto sconosciuto di una vita dediacta al cinema. Appassionato autodidatta, a soli 15 anni inizia l'apprendistato con Boschi, per poi lavorare alla Technostampa, alla Spes, alla Cinabo e dal 1977 al 1979 a Cinecittà con Bernardo Bertolucci e Federico Fellini. Entrato nel 1956 negli stabilimenti romani della Technicolor e subito conteso da registi quali John Huston, Roger Vadim, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Franco Zeffirelli, ha elaborato e sviluppat i procedimenti chimici dei primi film a colori e, rifacendosi all'autokrome (con cui si immette il colore nel bianco e nero, lasciando che i contorni di quest'ultimo rimangano vagamente sfumati), ha inventato uno speciale trattamento della pellicola cromatica: il cosiddetto sistemaENR . Vittorio Storaro che lo ha scelto ed applicato alla realizzazione di Reds di Warren Beatty, ha conseguito nel 1982 l'oscar per la migliore fotografia. Novelli, che ha collaborato agli ultimi successi cinematografici di Antonioni (Il mistero di Oberwald) e di Coppola (Apocalypse now, One from the Heart), attualmente segue la preparazione di La nave di Fellini.
Perché un tecnico?
Filmstudio invita a parlare Ernesto Novelli non soltanto perché uno specialista dell'esperienza pluridecennale possa illustrare agli addetti asi lavori e agli interessati i nuovi e sofisticati sistemi ENR e SCS (o processo di super saturazione del colore), o ancora chiarire le differenze tra il colore chimico e il colore elettronico, quanto piuttosto per dare risonanza a ciò che si verifica e si realizza “dietro le quinte” di un film, nelle mani di tecnici straordinari (oggi sop
rattutto italiani) pressoché sconosciuti al pubblico, sacrificati dall'assoluto protagonismo degli autori, dei registi, dei direttori della fotografia nell'ambito della cultura cinematografica.
Incontrare Novelli è un po' come scoprire la parte sommersa di un iceberg, quell'universo di tecnici, operatori, macchinisti, elettricisti il cui contributo risulta essenziale alla creazione di un film., il cui lavoro d'equipe, la cui ricerca e affidabilità costanti rendono possibile la presentazione degli attuali superprodotti dalal qualità tecnica (e non soltanto poetica) riconosiuta universalmente potente.
Vittorio Storaro, ricordando l'esperienza americana di Apocalypse Now, conferma il nostro pensiero: “Da circa dieci anni lavoro sempre con la stessa equipe. Non l'ho mai cambiata. Rappresenta un po' la mia famiglia professionale...il regista è come un direttore d'orchestra, il direttore delal fotografia è un solista di questa orchestra ma lavoriamo tutti per esprimere nel miglior modo possibile l'idea di un film”....e ancora: “Copola ha accettato che io portassi dall'Italia la mia equipe e che i negativi del film (così come è avvenuto per One from the Heart) fossero sviluppati e stampati alla Technicolor romana dove con i sistemi ENR e SCS là messi a punto, si possono raggiungere risultati incredibili”.
Storaro testimonia così della grandissima richiesta da parte di tutto il mondo di direttori della fotografia italiani e dei tecnici che li assistono, capaci di “personalizzare” il colore, in grado cioé di trattarlo diversamente per ogni film, salvandolo dalal standadrdizzazione.; e di come i lungimiranti e ancora una volta tempisti americani abbiano potuto accettare un compromesso tanto anomalo quale quello di spedire an n. 1138 di via Tiburtina, i giornalieri girati nei loro set, avendo compreso, per usare le parole di Warren Beatty riferite a Reds che “ne valeva certamente la pena”. Ùormai la gestione mediante tecniche sempre più efficaci e sofisticate delel infinite capacità suggestivo-espressive del colore che secondo Antonioni “sembra essere il vero depositario di un nuovo linguaggio cinematografico” rende reale e raggiunto il profetico slogan di Méliès: “Al cinema tutto è possibile”.
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