FUORI NORMA
“Moving
images” in Italia, oggi. Bilancio di fine stagione, dopo Venezia (dove nel
frattempo viene riconfermato Alberto Barbera per l'edizione del 2016) e
Roma, aspettando Torino. Che situazione c'è?
Intanto. Ha
funzionato la Festa romana ideata per il decennale da Antonio Monda e Piera Detassis,
interpretando in maniera più veltroniana di Mueller la meno ambiziosa
collocazione della manifestazione capitolina "sul modello del festival di
New York" (insomma da informativa metropolitana di buon livello)? La risposta è sì e no. La balena ancora non ha raggiunto il mare aperto, per usare la metafora mondana.
Una grande festa metropolitana cinematografica di fine anno, Londra per esempio, e
anche New York, nonostante godano di aggiornamenti fisiologici e più puntuali nel corso di tutto
l'anno (Parigi non ha un grande festival propio perché è un grande festival diffuso nel
corso di tutto l'anno), proiettano molti più film e fanno molte più repliche. Il pubblico fa a pugni per vedere Zemekis e Chantal Akerman, Gitai o Sion Sono. A Roma meno.
Le metropoli
sono voraci. Roma, per festeggiare davvero, dovrebbe dunque saper offrire a un pubblico che c'è - ma diffida di questa istituzione para partitica para ministeriale e para accademica - molti più film
(la distribuzione italiana è carente, per questo è giusto sostenere le feste i festival e le rassegne, piccole medie e grandi, per rianimare un mercato super fiacco e allevare esploratori del web coraggiosi e consapevoli), e saper rispettare ed eccitare tutti i vari segmenti del consumo, alto basso trasversale trans camp cult stracult sperimentale.... Invece sono poche le repliche e poche le occasioni di incontro coi cineasti di tutto il mondo (che non sono solo le super star della regia o i carissimi mattatori nostrani). Essere politeista (come si vantava di essere Morandini) è d'obbligo in questo campo, mi dispiace per i moniteisti.
Una ventina
di buoni film a Roma comunque c'erano. La media di un buon festival. Ma non erano i migliori 20 film dell'anno, secondo l'ambizione di
Telluride, che pretende di presentare solo il meglio. 20 film appunto. Festival per buongustai solamente. Allora Monda si deve decidere tra le due vie: imboccare la strada di
Telluride e tornare al modello festival sofisticato e d'elite (e allora lo faranno fuori) o persistere con quella di New York, della festa più
popolare senza premi e prediligendo solo quelli che lui chiama i buoni film a rischio di ignorare le super star, ma con menu più folto. Pasticciare tra i due modelli è contraddittorio, oltre che segno di insicurezza critica (in fondo Monda non ha alcuna esperienza di festival internazionali).
Una retrospettiva quest'anno era bella e necessaria (Pietrangeli) e un'altra bella ma ovvia e muellerdipendente (Pixar).
Inoltre. Senza il concorso, o la selezione principale, c'è meno clima, meno grinta mediatica
e meno carattere. Sarà che i cirtici non li legge nessuno ma si esaltano durante i festival e riescono a creare a volte atmosfere sorprendenti e magiche attorno a una manifestazione. Che non sia intervistare Craig per chiedergli cosa pensa di Roma e della Bellucci.
A Tokyo ricordo che il premio è colossale, mezzo miliardo di vecchie lire al regista vincitore. Non so se è ancora così. E: dimmi che presidente della giuria scegli è capirò chi sei. Invece, affidandosi plebiscitariamente al solo premio del pubblico, ci si nasconde un po' troppo. Insomma anche i giornalisti e i critici più che invitati a giocare con le gerarchie estetiche e a misurarsi con le poetiche, quest'anno sono stati istigati a "far sega", a far "festa", a lavorare meno (anche perché l'alzataccia alle 9 di mattina per vedere i film in anteprima ha poco a che fare con una festa, specialmente in una città dal traffico caotico come questa. Perfino a Venezia si può iniziare alle 11...). Capisco che si risparmia molto in termini di budget, senza giurie. Ma allora perché quei soldi non sono stati spesi per offrire alla città più repliche rendendo a tutti più facile la possibilità di vedere i film? Invece nonostante i soli 37 film non tutti sono riusciti a vedere ciò che volevano. A Rotterdam le repliche sono almeno 5 per ogni film.
A Tokyo ricordo che il premio è colossale, mezzo miliardo di vecchie lire al regista vincitore. Non so se è ancora così. E: dimmi che presidente della giuria scegli è capirò chi sei. Invece, affidandosi plebiscitariamente al solo premio del pubblico, ci si nasconde un po' troppo. Insomma anche i giornalisti e i critici più che invitati a giocare con le gerarchie estetiche e a misurarsi con le poetiche, quest'anno sono stati istigati a "far sega", a far "festa", a lavorare meno (anche perché l'alzataccia alle 9 di mattina per vedere i film in anteprima ha poco a che fare con una festa, specialmente in una città dal traffico caotico come questa. Perfino a Venezia si può iniziare alle 11...). Capisco che si risparmia molto in termini di budget, senza giurie. Ma allora perché quei soldi non sono stati spesi per offrire alla città più repliche rendendo a tutti più facile la possibilità di vedere i film? Invece nonostante i soli 37 film non tutti sono riusciti a vedere ciò che volevano. A Rotterdam le repliche sono almeno 5 per ogni film.
Il Mercato
sembra che abbia funzionato. E in una città che sta assistendo a un nuovo salto
in avanti del business media, è un dato confortante. Per il calo dei biglietti
venduti la giustificazione è plausibile: c'erano meno film, meno sale, meno
repliche, e il costo dei biglietti si è abbassato. Però non tutta la città ancora festeggia davvero in sintonia con il Parco della Musica. E i tentativi di
decentramento festivo (sul modello di Londra) ancora non funzionano. Piuttosto
strano poi il rapporto con il nuovo cinema Aquila, autoritariamente affidato (e
all'ultimo momento) proprio all'Auditorium Parco della Musica, dopo essere
stato oggetto di (questa volta si spera) regolare concorso vinto da chi più si
era battuto per trasparenza e pulizia di quello spazio strappato alla mafia.
Non è così che si saldano rapporti con chi nella città fa per tutto l'anno e da
anni servizio culturale intensivo e continuato (per esempio: perché non c'è
alcun rapporto con il il club-cinea Detour, uno dei pochi filmstudio da XXI secolo?). Torniamo un po' indietro.
Certo,
nonostante tutti i difetti politico-caratteriali di Marco Mueller, le sue
edizioni, più in stile Fremaux - alla ricerca del talento inedito da imporre -
che da Richard Penha ex direttore di Chicago e ex New York, qui membro anziano del comutato di selezione - la sintesi geniale di ciò che è stato consacrato durante
l'anno da altri - erano comunque servite a imporre il nome di Roma (dopo
averlo piuttosto offeso, però, precedentemente) dentro il calendario
internazionale di seconda fascia (dopo Cannes, Toronto e Venezia).
Vedere per
credere alcune pagine dell'epoca di Le Monde, che pure sciovinista è non
poco in fatto di cinema, che già collocava Roma a livello di Rotterdam,
Telluride, Locarno, Pusan e di Torino di una volta. Più in alto di Londra,
Nantes, Monreal, Amiens, La Rochelle...
Insomma tra
le capitali dell'immaginario a venire. Roma andava lì dove si esplorano gli
inediti piaceri schermici. Quasi un "capitolo due" del libro delle
Visioni di Renato Nicolini (che infatti fiancheggiò Mueller negli ultimi mesi
di vita e apprezzò in particolare l'apertura fertile, confermata più tiepidamente da Monda, al
Maxxi).
Ovvio che
per tenere quella posizione ne calendario internazionale mondiale devi essere circondato
però da una metropoli dalla cultura attiva che non ti boicotti come programma unico e da una società
civile viva, colta, curiosa e stravagante. Da istituzioni consapevoli e
impertinenti. Ovvio tutto questo non era la Roma di Alemanno e Polverini
(ingenuo Mueller a crederlo, ma non poteva dire di no ai partiti che lo avevano portato a Venezia) e non è più Roma da tempo, soffocata da quel che
sappiamo e da pesanti interferenze mafiose anche nel campo culturale (vedi,
appunto, l'ambigua faccenda del Nuovo Cinema Aquila) o da mass media che, di
destra o centro o sinistra, sono ormai abituati solo ai sedicenti numeri alti, all'audience
(drogata) che urla: tappeto rosso! tappeto rosso! star, super star! vogliamo
vedere solo ciò che già conosciamo! senza rendersi conto che la grandezza di
una manifestazione spettacolar-culturale sta proprio nella capacità di creare un divismo proprio (come ha fatto Cannes con Weerasethakul Apichatpong quando non era nessuno), esplorare i territori
sconosciuti (come faceva Corvino in Africa a caccia di baby talenti calcistici
sorprendenti) e allevare, coltivare, scoprire e imporre un altro politeismo divistico. Non
mettersi in coda per strapparne frammenti da quello vigente.
Certo, però.
Spendere molti soldi privati per "catturare" divinità come Nicole
Kidman e Leo Di Caprio, ed è successo il primo anno della Festa, tra lo
scandalo di moralisti e principianti, e allettare con sontuose e imbarazzanti
ospitalità tutte le personalità possibili del jet set hollywoodiano è stata la
geniale tattica di Veltroni, Bettini e Detassis per convincere (era la prima
volta in Italia) la Camera di Commercio a interessarsi agli investimenti
immateriali. Allora i 12 milioni di euro della prima edizione erano tutti
per la Festa. O meglio un milione e mezzo era per il festival degli addetti ai
lavori (Extra, e ciò che interessava solo gli addetti ai lavori) e il resto per
strane strutture extra auditorium, e per tutto il lato mondano (gestito e controllato dagli sponsor). Feste private, premi
improbabili, viaggi in prima classe per venti persone al seguito...Ma per
strappare un posto al sole tutte le grandi manifestazioni fanno così. Pensiamo
al lancio del festival di Tokyo, ormai più di 30 anni fa. Pensiamo a L' Avana,
che senza l'appoggio aureo di Coppola, Pollack, Belafonte e Redford non avrebbe
mai avuto l'eco che ha. O a Mosca.
Mueller, un
alto professionista nel campo della direzione e organizzazione dei festival (adesso è a Pechino) e nella ricerca dei film, ha pagato il fatto di essere sostenuto da una giunta, anzi due, impresentabili. Ed è arrivato Antonio Monda,
ambizioso come Rondi, cattolico come lui, ex cineasta ma soprattutto scrittore e critico, catapultato direttamente dalla Columbia
University, da Repubblica, da alcuni libri di settore, da un lungometraggio alle spalle (un fiasco, "ma ne hanno parlato bene Jacques Siclier e Morando Morandini"... però: io riprenderei), da una misteriosa campagna stampa anti Godard (da emulo di Giovanni Grazzini) e da un programma di cinema di Rai News 24. La
sua qualità maggiore? Avere dimestichezza con la zona hollywoodiana del cinema newyorkese.
Scorsese, i Coen, Wes Anderson, Spike Lee, Demme, speriamo anche Arkush,
Sara Driver, Jarmush, Wiseman, Amos Poe... Ha organizzato con Mario Sesti non pochi
incontri con molti di loro in questi anni. Mettersi al fianco Richard Penha è stato davvero il suo colpo geniale.
Certo
4 milioni di euro di budget stanziati per la festa (il resto, così si promette,
saranno spesi per attività continuative durante tutto l'anno, a cominciare dal
festival delle serie tv), che ormai non arrivano più da finanziamenti solo locali o solo privati, ma soprattutto dal ministero, è una cifra da manifestazione che, a livello
internazionale, si può considerare medio-bassa. Bisognava dunque tagliare film e sale, eliminare giurie, ridurre le tecnostrutture.
Ma la situazione del cinema italiano è disastrosa?
No, non è
disastrosa, nonostante decenni di interventi governativi sbagliati e di leggi
sul cinema autolesioniste. Da noi, per esempio, non esiste ancora un Centro
nazionale del cinema, sganciato dalle invadenze dei partiti che, sul modello
delle democrazie nord europee, garantisca la circolazione della bellezza
prodotto nel mondo, renda efficace l’intervento pubblico, ottimizzi le risorse
creative, addestri e soprattutto “liberi” e non paralizzi i nuovi talenti,
produca immagini forti competitive e pericolose, perché questo deve fare
l’arte.
Ma se
osserviamo le cose ai margini del “sistema sala”, troviamo una vitalità né marginale,
né risentita né sotterranea. Oggi si può infatti prescindere dalla burocrazia
repressiva per realizzare film. Basta un videofonino sfrontato, come quello di
Pippo Delbono in Amore carne, 2011).
E l’intera macchina ne sta risentendo, positivamente. Penso a Louisiana di Roberto Minervini, audace
immersione nell’immaginario razzista wasp, caratterizzato da un linguaggio e da
uno stile di osservazione un po’ troppo espliciti per i nostri standard,
selezionato a Cannes 2015 ma acquistato e coprodotto da Rai Cinema, una società
di distribuzione pubblica dai riflessi generalmente lentissimi quando si tratta
di opere che non sanno se collocarsi nel genere fiction o in quello non
fiction.
Appaiono
così di tanto in tanto opere eccentriche o anche canoniche ma di imprevisto successo internazionale. Registi, attori
e creativi di talento che comunicano con il globo. Benigni, Moretti… L’Oscar a
Paolo Sorrentino per la Grande Bellezza
nel 2014 con le sue cartoline a colori nostalgiche del Fellini in bianco e nero
di La dolce vita e Otto e mezzo che avevano conquistato il mondo.
E poi la
coppia Daniele Ciprì e Franco Maresco che vende alle tv del mondo film dark,
aspri e ‘insostenibili’, in Italia giudicati scandalosi e non ortodossi dalla
critica mainstream.
E ancora. Le
gallerie d’arte di tutto il mondo sedotte dalle riflessioni “interne alle
immagini” di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, i maestri del “found
footage”….
Con la
centralità del web, l’accesso alle tecnologie digitali a basso costo, la possibilità
di ricorrere a finanziamenti dal basso tramite crowdfunding, e
l’insoddisfazione estetica rispetto alla produzione industriale standard, anche
il cinema italiano deraglia, sta andando fuori schema, oltre le soglie alle
quali eravamo abituati. Energico, intenso e vitale, nell’epoca digitale sa
deformare il reale e inventare, se occorre, immagini del tutto sconnesse da
referenti verosimili. Sciolte dall’ossessione della comprensibilità totale,
della linearità a tutti i costi, del consequenziale, come direbbe Marco
Bellocchio, uno dei nostri classici del dissenso più sperimentali e
imprevedibili. Dove è il cinema adeguato a Ernst e a Klee, si chiedeva già nel
secolo scorso un altro regista italiano oggi rivalutato del passato, Carmelo
Bene.
Forse manca
solo – come avviene in Francia, per esempio - una “massa critica” consistente
pronta a battersi per questa tensione
etica e quindi contro determinate tendenze –consolatorie, oscurantiste,
paternaliste, perbeniste e ipocrite, del
cinema nazionale dominante.
Oppure
questa generazione critica viene cooptata più facilmente della precedente dalle
istituzioni politiche e culturali. Commissioni ministeriali, sistema dei
festival, riviste a partecipazione statale o emanazione dei forti interessi
privati…
Comunque,
anche se quantitativamente, quest’anno siamo tornati alla cifra produttiva
record di ben 260 lungometraggi, la crisi si sente: queste opere sono stati
realizzate tagliando drasticamente il costo e la qualità del lavoro artistico.
Il budget complessivo utilizzato è lo stesso dell’anno precedente, che ne aveva
scodellati a malapena 100.
Già.
Restiamo, strutturalmente, inguaribilmente fragili.
E questo da
almeno 40 anni, dalla seconda metà degli anni 70, da quando il gap tecnologico
ha impedito di tener testa alle riproduzioni “spaghetti” dei generi forti
hollywoodiani, l’horror, la fantascienza, il catastrofico, il cinema dei
supereroi.
Da quando
cioè la nostra industria dell’immaginario – nel decennio precedente
all’avanguardia, sia nei settori della ricerca e dello sperimentalismo che dei
generi popolari che delle proposte sovversive d’autore (erano l’epoca di Dino
De Laurentiis e Carlo Ponti,
euro-produttori potenti, dei western e degli horror spaghetti di gittata
planetaria, della commedia al vetriolo, ma anche di Visconti, Fellini, Ferreri,
Antonioni, Salò e Ultimo tango a Parigi) - è stata
incapace di seguire l’evoluzione audace dei costumi, anzi ha cercato di
reprimerli, ha smorzato la sua forza produttiva che ben bilanciava apporto
pubblico e privato, ha sfilacciato la sua coesione tra pratiche alte e basse,
ed è stata schiacciata dalla concorrenza del prodotto nordamericano.
Era l’epoca
sex rock and rock’n roll della New Hollywood di Francis Ford Coppola, Robert
Altman, Guerre Stellari, Jack
Nicholson, Incontri ravvicinati del terzo tipo,
Roger Corman…
Cinecittà,
che tanto l’aveva anticipata con i suoi geniali artigiani anticonformisti come
Freda, Bava, Fulci e Cottafavi, è stata sconfitta dall’irresistibile sfoggio
tecnologico e dal restyling del blockbuster, perché Hollywood si è dimostrata
capace anche di rigenerarsi, di dare il comando a una generazione di manager
creativi trentenni usciti dai campus più incandescenti e dalle prime scuole
universitarie di cinema, di utilizzare, controllare, gestire e trasformare in
merce pregiata sia le seducenti forme libere delle nouvelle vagues europee sia
le “bombe d’immaginario” (anche le sostanze psicotrope, le filosofie orientali,
il femminismo che viaggiava nella storia del cinema rovesciandone le gerarchie
sessuali, i movimenti politici antisistemici, il Black Power,
l’antiimperialismo che fermò l’aggressione in Vietnam, la sensibilità camp e
l’orgoglio omosessuale…) scatenate dalla
controcultura del “Movement” sessantottino che avevano terrorizzato, invece, la
nostra bigotta e incolta classe dominante.
Basterà
ricordare i mille episodi censori di ispirazione fascistoide, e soprattutto le
“condanne a morte” di Ultimo tango a
Parigi, con il negativo bruciato vivo come fosse una strega, e di Pier
Paolo Pasolini, assassinato in un agguato che sempre più pare l’ennesimo
capitolo di un lungo e ancora oscuro e impunito complotto stragista
continuo. E il costringere alla
marginalità leggende viventi più che semplici cineasti come Alberto Grifi, primo
esploratore video, Straub-Huillet, Paolo Gioli, Gianni Castagnoli,
Gianikian-Ricci Lucchi.
A differenza
che in Francia, inoltre, in Italia non è mai stato consentito dal potere
pubblico (meno autonomo da Washington, il garante era il sempre al potere ministro Andreotti) tassare dal biglietto di
ingresso, anche dei film hollywoodiani, quella percentuale che permettesse una
esistenza non effimera e traballante della nostra industria cinematografica. Il
che vuol dire non solo Studi di produzione e programmazione articolata. Ma
anche scuole di cinema attrezzate e aggiornate, sale cinematografiche
tecnicamente d’eccellenza, produzione di corti sperimentali, laboratori
d’animazione, offerta di immaginario non provinciale attraverso circuiti
capillari e tv pubbliche e budget
notevoli per documentari capaci di
toccare i nervi più scoperti, indignare e scandalizzare l’opinione pubblica, di
“accendere la ricezione del pubblico, rendendola sempre più informata,
esigente, infuriata e…democratica. Questi sono i soldi pubblici al cinema ben
spesi. A monte e valle di un film. Per la ricerca e l’addestramento dei nuovi
talenti. Per attrezzare laboratori di post produzione.
Per favorire
opere prime di ricerca. E’ quel che fanno gli Stati Uniti spendendo molti soldi
per rinnovare una delle loro industrie principali. E che poi accusano gli
europei di protezionismo. In un recente articolo del quotidiano Le Monde, il giornalista francese
equiparava invece, quanto a protezionismo, gli Stati Uniti alla Corea del Nord,
paragonando il numero dei film stranieri proiettati a Parigi in un anno con
quelli proiettati a New York o a Pyongyang.
La strada
scelta dal potere politico in Italia (che come paese sconfitto nella seconda
guerra mondiale ha rischiato anche lo smantellamento totale di studi e
laboratori e la fine di Cinecittà) è stata invece quella opposta. Siamo da
decenni sotto l’1% di Pil (prodotto interno lordo) per quanto riguarda le spese
alla cultura in generale. E quei soldi sono spesi male. Sostanzialmente per per
impedire o ostruire l’ingresso principale ai giovani cineasti, troppo teste
calde, impoverire le scuole di cinema (il declino del Centro Sperimentale di
Cinematografia e della sua Cineteca è tra gli scandali del nostro paese) e
finanziare con i soldi pubblici film a soggetto “embedded”, troppo spesso
fortemente supportati e condizionati dalle clientele del partito di governo o
dalla corporazione dei cineasti meno scomodi e pericolosi (anche se
d’opposizione). Altro che cinema libero e indipendente.
L’ “eccezione
culturale” francese ha così conquistato negli ultimi 40 anni la leadership
planetaria del cinema ‘altro’ dalle majors americane. Una nicchia fertile che
ci ha reso via via ‘colonia’ anche di Parigi. Un esempio. Senza l’intervento
produttivo o coproduttivo francese molti cineasti italiani non riuscirebbero a
produrre. E non solo Nanni Moretti, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino. Un altro
esempio. La Francia non avrebbe mai firmato 20 anni fa un accordo di
coproduzione tra i due paesi se l’Italia non si fosse decisa finalmente a
produrre documentari. Che erano stati semplicemente cancellati dal nostro
Ministero perché non erano redditizi. Già.
Con il
cinema diventato alla fine degli anni 70 satellite del business televisivo, in
balia di poteri finanziari monopolistici, il declino del nostro cinema era
segnato. L’intervento pubblico non è
riuscito a fermarne il crollo: produttivo, distributivo, di esercizio, di
domanda, di scuole, di ricerca, di innovazione...
Anche se la
Francia, almeno a giudicare dall’evoluzione di Arte, e dalle ultime edizione
del festival di Cannes, centralizzate da un manager tv, il signor Pierre
Lescure, rischia di perdere quell’apertura estetica che fece grande il modello
Gilles Jacob, quel rispetto autentico per le “differenze culturali”, di farne
un’ideologia, di formalizzare un altro canone, di mettere a punto uno standard
del cinema di qualità artistica. In modo da gestire meglio un mercato parallelo
e più piccolo ma fluido e dotato anche di una sua certa “qualità commerciale”.
Per esempio promuovendo alcuni stili più riconoscibili di altri, inventando e
imponendo quasi una teologia di autori da culto. Di registi semi-dei depositario di un sapere
inaccessibile agli spettatori… Da Lars
Von Trier ai fratelli Dardenne, da Bruno Dumont a Tsai Ming Liang, Garrone,
Sorrentino… Piccoli blockbuster d’autore. Che naturalmente risentono, proprio
come quelli hollywoodiani, della rivoluzione spot/clip/Mtv anni 80, della
frammentazione della narrativa classica, delle psicologie lineari, delle
dicotomie etiche, reagendo a modo loro. Non certo con la ripetizione di duelli
all’ultimo sangue o di virtuosismi acrobatici e deliri d’azione ogni 10 minuti,
ma con altrettanti, sofisticati - nel senso di adulterati più che di raffinati
- escamotages formali. Dilatazioni, allungamenti e deformazioni spazio-
ritmico-temporali, provocatori controtempi, affinché il gioco cromatico
sentimental-emozional-culturale sia altrettanto cadenzato, sorprendente,
affascinante. Magari abusando di semitoni invece che di tonalità piene.
Insomma ci
si può allontanare dal “realismo” e dal “naturalismo” della verosimiglianza, e
prendere le parti del cinema dell’immaginario, come fa la Hollywood dei super
eroi Marvel, non solo attraverso una sensibilità post-umana, ma anche
attraverso uno stile di scrittura “pensato”, una forma frantumata, una
molteplicità di punti di vista su una materia in movimento, in bilico tra film
diario, film-saggio, film scientifico,
“cinema mentale” che non regala sogno magia evasione e consolazione, ma
esige dallo spettatore uno sforzo
personale di fantastico e di incantesimo.
Come scriveva Cocteau: “L’evasione non ha nulla a che vedere con
l’autentica poesia”. E uno dei nostri critici di punta, Adriano Aprà, che gli
addetti coreani ben conoscono perché è stato l’organizzatore della prima grande
rassegna di cinema di Seul in Italia, a Pesaro, nel 1992, “Corea del Sud
Yong-Hwa”, ben commentava: “E’ l’invasione
che conta, cioè che l’anima sia invasa da termini o da oggetti che non presentando
un aspetto alato, la obblighino a sprofondare in se stessa”.
Torniamo
all’Italia. E’ vero che molti cineasti italiani interessanti emersi negli
ultimi anni sono stati costretti, per i motivi che abbiamo riassunto, a fare
‘gavetta’ sia fuori dei circuiti canonici in sala che all’estero. Si tratta di
documentaristi atipici, Roberto Minervini, Guido Santi, Augusto Contento,
Gianfranco Rosi, Domenico Distilo o di cineasti ai confini tra fiction e non
fiction come Alice Rorhwacher, cha vinto una palma d’argento a Cannes come
migliore regista nel 2013 con Le
meraviglie… Ed è vero che, pur senza presentarsi come movimento omogeno, i
nostri migliori talenti (penso anche a Pietro Marcello, che ha conquistato
Locarno 2015, Luca Guadagnino, Giuseppe Gaudino, Corso Salani, purtroppo morto
giovane, Alina Marazzi, Anna Negri…) hanno fatto un cinema artigianale di
opposizione e resistenza, disinteressati al contenuto di una storia,
naturalisticamente confezionata, o alla documentazione di un fatto,
realisticamente commestibile, ma interessati piuttosto a quel che contiene
un’immagine (luce, suono, flusso…“oggetti e spazi di quella mistura alchemica
che è la vita” come ha detto Frammartino), anche utilizzando forme produttive e
distributive nuove, non utilizzando attori “di nome”, estranei al culto della
sceneggiatura che funziona, del montaggio lineare e consequenziale. Si dice che
siano veleno al botteghino, ma forse questi film difficili hanno incassato più,
grazie alle vendite internazionali, anche televisive, dei blockbuster natalizi
italiani che sono complesse operazioni di marketing incentrate sulle star
comiche televisive del momento. L’ultimo si chiama Checco Zalone. Film che
mimano una realtà modesta, mediocre e squallida. Un mondo privato di ogni
bagliore, abitato da corpi mediocri, omologati da una sorta di “tristezza
antropologica”, direbbe Pasolini, che mancano di bellezza o di bruttezza capaci
di provocare un affratellamento anche doloroso con lo spettatore. Domina la
bassa definizione, la pratica dello sceneggiato tv, quello in cui l’attore
illustra un ruolo scritto sulla carta, rappresenta una parte.
In comune
invece i nostri registi sperimentali sono capaci, per crudeltà e sguardo, di
sfondare le forme di questo cinema dominante. Di dare un tono fantastico alla
lezione neorealistica o di recuperare dall’esplosione underground anni sessanta
e da Jonas Mekas l’alterità del cinema diaristico, più self-medium o
group-medium che mass-medium, come ha fatto Nanni Moretti. Mentre sempre
operanti sono ormai i ‘grandi maestri’ degli anni sessanta, Bernardo Bertolucci
e Marco Bellocchio (quest’ultimo appena omaggiato a Locarno 2015 e che ha
ottenuto un grande successo a Venezia con l’ultimo suo film spiazzante, Sangue del mio sangue). Tutto questo
rigoglio, nonostante i problemi gravi del sistema cinema in Italia, è stato
forse reso possibile dalla ostinazione con la quale si sono traghettati fino ad
oggi (grazie a Alberto Grifi, Tonino De Bernardi, Franco Piavoli, e Nanni
Moretti che inizia nel 1976 l’altra
storia del cinema italiano con Io
sono un autarchico girato in super8) i valori di rottura del cinema degli
anni sessanta-settanta, e dalla confluenza fertile e di lunga gittata tra
sperimentalismo e generi popolari, mix che ha reso il cinema italiano di quel
decennio uno dei migliori e fecondi al mondo, e non solo grazie a De Sica,
Rossellini, Pietrangeli, Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini…. Erano anni
nei quali si liberava molta energia vibrante, adrenalinica, euforica. Il
rapporto tra cultura “alta” e “pratiche basse” ovvero alta professionalità nei
generi popolari del cinema, operava mix inaspettati. La forbice tra commerciale e spirituale era piuttosto stretta. Lou Castel, l’icona rabbiosa del
primo Bellocchio, recitava fianco a fianco con Pasolini in Requiescant (1967), il western spaghetti di Carlo Lizzani. Nello
stesso Giulio Questi introduce i traumi cupi e ancora non rimossi della guerra
partigiana antinazista in Se sei vivo
spara. Molti artisti della neoavanguardia, provenienti dal teatro, dalla pittura, dalla poesia e dalla musica
colta, deviano temporaneamente verso il cinema come Carmelo Bene, Memé Perlini,
Mario Schifano, Patrizia Vicinelli o Sylvano Bussotti. Italo Calvino, anche se
indirettamente, e molto a distanza, elabora alcune tesi per un cinema che non
sia più una macchina da presa nel senso di macchina da preda, che liberi la
“soggettività desiderante” dentro e davanti lo schermo, e che invece di
sparare, to shoot, shooting, trasformi l’esperienza schermica in un viaggio ai
confini della realtà buia. In un sismografo che sappia smascherare senza
consolare gli orrori del vivere quotidiano.
E che ci faccia capire che non viviamo più in uno spazio euclideo, come
i pittori che spesso vedono dove i cinematografari sono ciechi già da un secolo
hanno scoperto, Picasso, Braque…nelle Cosmicomiche
Calvino non ci stava indicando un
progetto cinematografico affascinante? Creare un luogo di sperimentazione dove
il più lontano passato biologico possa essere scomposto nell’universo
relativistico e ricomposto viaggiando verso l’infinità di tutti i soggetti
viventi che compongono la vita del pianeta. Progettare un corpo “collettivo”
nuovo, configurare una nuova geografia di passioni molto al di là dei limiti
angusti dell’orizzonte antropocentrico..
Da lì ricomporre una nuova intelligenza abituata a considerare che è il
nostro pianeta, è lui la creatura vivente composta da un intreccio osmotico di
condizioni biologiche, di soggetti viventi diversi, di pulsioni libidiche
differenti tra loro, tante quante sono i suoi abitanti: uomini donne animali
piante… non dimentichiamo che nel pensiero primitivo tutto vie… montagne vento
fiumi. E Zavattini, neorealista
pensito, dichiarava negli ultimi anni: “La finzione spettacolare diffonde le
grandi menzogne e produce una realtà falsa. Bisogna lottare per trasformare la
realtà e non il cinema che la filma così com’è. Per agirla con coraggio, con
urgenza, con enusiasmo, con una nuova forma di solidarietà, con la lotta…”.
Memore di un insegnamento di Duchamp: “la mia arte sarebbe di vivere, ciascun secondo , ogni respiro è
un’opera che non è iscritta in nessuna parte, che non è né visuale né
cerebrale. Che è una sorta di euforia costante”. Solo una vita nuova, non
vissuta esteticamente, si esprimerà con
linguaggi nuovi”. Forse bisogna sbarazzarsi di tutto il repertorio di giochi di
prestigio del mondo della celluloide, d’avanguardia o di cassetta che sia. “Per
realizzare il cinema bisogna liquidarlo”.