mercoledì 7 settembre 2022
Venezia 90. Argentina, 85. Aronofsky, Loznitsa, McDonagh
Roberto Silvestri
Argentina 1985 di Santiago Mitre (Argentina/Usa)
La “sporca guerra”. Smuove ancora l'inconscio collettivo dell'America Latina (e il nostro) quel che ha commesso di politicamente scorretto ma anche di “sadisticamente corretto” la dittatura militare scatenata dai generali Videla e Massera (complici gli Stati Uniti d'America) contro il movimento democratico e rivoluzionario degli anni 70.
Ricordo un celebre filmato tv con Oriana Fallaci, invitata alla tv argentina per un dibattito, poco dopo la caduta della giunta. Lei (che non aveva vissuto in Argentina, con i mitra puntati addosso, in quei giorni cupi) si permetteva di additare uno per uno tutti i prestigiosi presenti e li rimproverava: “se siete qui vivi a parlare vuol dire che siete stati complici anche voi degli assassinii, delle torture e degli altri crimini della giunta militare”.
Proprio di questo parla il film di Mitre, del risveglio delle coscienze dopo lo shock delle Malvinas grazie alla insorgenza di una generazione di giovani senza responsabilità alcuna. E sembra alludere anche alla questione di fondo che i cileni si sono trovati di fronte respingendo il referendum costituzionale e preferendogli la dottrina Pinochet. Ovvero. Una costituzione democratica serve a proteggere la proprietà privata o il cittadino qualunque? Trump, Videla e molti altri nel mondo oggi, con ogni mezzo necessario, lottano contro il pericolo della “plebe informe”, e studiano solo come contenere le sediziosa maggioranza. Il ricordo alla tortura e allo sterminio, è tra le opzioni. Ovunque.
Prodotto da Amazon, distribuito dalla Sony in Argentina, diretto dal vincitore, nel 2015, della Settimana della critica di Cannes con Paulina (La Patota), interpretato da un magnifico Ricardo Darin, coi baffi alla Flaiano, già protagonista nel 2017 di La Cordillera di Mitre, questo film di classico genere giudiziario, ha conquistato i cuori e i cervelli del pubblico e della critica della Mostra di Venezia (il manifesto a parte). Dieci minuti di applausi.
Non è stata solo la “forza dell'argomento”, la sostanza conoscitiva scodellata a decretarne il successo, cioé la capacità che ha avuto il paese, appena uscito dall'incubo militare, e durante la fragile presidenza del radicale Raul Ricardo Alfonsin, di allestire in pochi mesi, e non senza ostruzionismi istituzionali e provocazioni fasciste, grazie a un pool di giovani giuristi partigiani scatenati, un processo rigorosamente documentato (e non senza pericoli) alla giunta militare tutta. O la forza giuridica inaspettata, espressa da una magistratura (così connivente per anni e intatta nella composizione), di condannare i maggiori responsabili dei crimini da loro ordinati fin dal 1976 (almeno in un primo momento, prima dell'amnistia che ha mantenuto perseguibili successivamente i soli reati di infanticidio: e comunque Videla è morto in carcere nel 2013 a 87 anni).
Ma hanno conquistato tutti la forma e la sostanza dell'espressione utilizzati dal quarantenne regista e sceneggiatore di Buenos Aires. Se cinema (e non la “visualità autoritaria” tv) vuol dire capacità di vedere meglio e altro rispetto a quel che vogliono farci vedere, contemplare, e saper ravvivare contemporaneamente la sensazione, la percezione, la riflessione e l'immaginazione degli spettatori, ecco un film antifascista (e forse persino anti-peronista) anche nella forma. Che sa indicare nell'immagine non un percorso autoritario da seguire, di sguardi che ipnotizzano e ti guidano, ma sempre un “fuori campo” da riattivare. Pensiamo a come Mitre e il co-sceneggiatore Mariano Llinàs abbiano contemporaneamente studiato e modernizzato la lezione del cinema politico anni 70 di Costa Gavras e Rosi e di quello contemporaneo (per esempio Il caso Spotlight di Tom McCarthy, 2015), la capacità di maneggiare cioé, con grande obiettività e senza manicheismi, i movimenti profondi della storia e di trovare il punctum esplosivo di uno scontro etico-politico e sintetizzarlo senza patetismi o sentimentalismi. Grazie anche alla micidiale potenza del loro umorismo, quasi un omaggio esplicito al fraseggio di Osvaldo Soriano.
The Whale di Darren Aronofsky Usa Concorso
L'anima turbolenta di Herman Melville viene sempre richiamata in campo dal cinema americano quando qualcosa di mostruoso, come la “balena bianca”, The Whale, appare all'orizzonte come metafora di una minaccia alla democrazia. E così tutta la squadra dei “fedeli d'amore”, Thoreau, Whitman, Jefferson, Emerson...i super eroi dell'immaginario statunitense vitale, illuminista, utopista, controculturale, romantico, che combatterono da una parte gli scettici liberali (che invece professano la democrazia dai loro scranni di potere solo per legarle le mani). E, dall'altra parte, contrastano i reazionari e i conservatori, i succubi del dio protestante e vendicativo, i puritani che confondono ancora Gesù con il dio dell' Antico Testamento, adorano il Signore dell'odio e non quello dell'amore, cioé chi vede e punisce peccatori ovunque, ma guarda cosa non tra chi fa da da più di un secolo stock-watering, cioé impiega il capitale azionario all'insaputa degli azionisti (qui ne vediamo un giovane e contraddittorio rappresentante, neanche troppo pio, Thoms, cioé l'attore millenniale TySimpkins).
Melville, dal suo ufficio doganale, si addentrava nella vita di uomini e donne, invece, originali e pieni di colore. Proprio come il protagonista del film, questo stravagante Charlie (un Brendan Fraser, da premio, anche se la fascistoide “coppa Volpi” proprio non gli si addice), professore di inglese super obeso, anzi così sproporzionatamente grasso, da tenere le lezioni web a distanza di letteratura e scrittura “creativa”, senza la telecamera accesa, per non turbare gli acerbi allievi. Ancora più difficile il rapporto, poi, con la figlia teenager anticonformista Ellie (una caldaia di energia incontrollabile, Sadie Sink, magnifica) che lui ha trascurato per anni, sconvolto da un amore poi finito tragicamente, e divorziando per questo dalla moglie Mary (Samantha Morton), mentre chi lo assiste (ne ha estremamente bisogno data la stazza) è Liz, la sorella asiatica di quel suo secondo amore.
The Whale ricorda per l'atmosfera dark da kammerspiel, e per la forte componente religiosa, più Pi greco che ogni altro film di Aronofsky, compreso quello che ha vinto nel 2008 il Leone d'oro a Venezia, The Wrestler. Ovvio che si tratti di un lavoro teatrale, di Samuel D. Hunter, e che è stato girato fuori Los Angeles, a Newburgh, stato di New York.
The Kiev Trial di Sergei Loznitsa Fuori concorso
Non piace agli ucraini il bielorusso Loznitsa, ma ucraino di adozione, e attualmente olandese di residenza, per alcune prese di posizioni non allineate al pensiero unico sull'aggresione russa. E alcuni dei suoi lavori non piacciono neanche a me. Per esempio quel documentario sul processo al partito degli industriali, usato da Stalin per colpire, assieme a Trotzky e Bucharin, l'ala destra del partito, e lanciare i piani quinquennali, rimontaggio di un documentario di epoca sovietica uscito regolarmente nelle sale, piuttosto importante per la storia del Pcus, ma trasformato, dopo montaggio nascosto e manipolatoria scritta finale, in materiale di piatta e opportunista propaganda, anticomunista ma soprattutto pasticcione.
Questa volta Loznitsa, appena premiato a Cannes per History of Destruction, mette ancora le mani su materiali di archivio, come Duchamp faceva sui cessi pubblici, e li 'santifica' con il suo “genio”, tagliando e spostando le sequenze e la continuità. Si tratta del processo 1946 ad alti (e più piccoli) esponenti dell'esercito nazista d'occupazione dell'Ucraina, delle SS e dei servizi segreti tedeschi (aveva già parlato dell'invasione, fiancheggiata dalle truppe dell'oggi glorificato Bandera, in Babi Yar Context). I processati si riconoscono tutti colpevoli di atrocità (ed è sconvolgente sentirli enumerare, senza alcuna partecipazione emotiva, anzi con l'annoiata e precisa pignoleria del burocrate, alle loro imprese) e li vedremo alla fine appesi atrocemente alla forca ma in bianco e nero mozzafiato. Loznitsa torna a Venezia dopo Funerale di stato del 2019.
The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh Concorso Uk
Tra i film testa di serie della Mostra 90 di Venezia c'è questo duello all'ultimo sangue, quasi punk e tarantiniano, che trasformerà il concetto di “dita” (di una mano) nel concetto, più sessualmente allusivo, di “diti” (quando sono singolarmente presi, o tranciati), messo in scena (e prodotto) in una isoletta irlandese di fronte alla costa occidentale dell'isola più grande (già divisa: siamo nel 1928, e nelle contee rimaste al Regno Unito dal 1922 c'è guerriglia) da un cineasta che di questi conflitti interpersonali è specialista. E' il regista irlandese (del nord?) McDonagh, nato però in Inghilterra, che ha vinto il Leone d'Oro nel 2017 con Three Billboards Outside Ebbing (prima di vincere due oscar e 5 Bafta). Due vecchi amici di pub, improvvisamente rompono ogni relazione quando uno di loro, Colm (Brendan Gleeson), più grasso e carismatico, si accorge che l'altro, il più magro e svanito Padraic (Colin Farrell), lo annoia a morte. E visto che la morte si avvicina a passi da gigante, Colm non ha più voglia di perdere tempo con le chiacchiere di un disinteressante, anche se gentile, stupido pastore (la cui sorella, Kerry, invece, è intellettualmente e politicamente fuori schema) ma vuole dedicarsi con tutta la concentrazione e il silenzio possibili alla musica, vuol creare canzoni e ballate 'immortali'. Il conflitto assume dimensioni di una stupidità crescente, entrano in campo e complicano lo scenario anche lo scemo e la strega del villaggio, diventando quasi una irritante parodia del beckettiano teatro dell'assurdo.
Ovvio che il gioco performativo, già rodato in Bruges, tra Gleeson e Farrell, in debito con Stanlio e Ollio per i tempi e i silenzi dell'azione e dei dialoghi, regge interamente sulle proprie spalle questo grottesco sull'indifferenza (lì vicino si fa la storia, si impiccano quelli dell'Ira che sono contro il compromesso firmato da Michael Collins) che non si esime dal prendere feroce posizione contro le ipocrisie e le miserie anche morali del clero cattolico molestatore, dell'autorità poliziesca britannica marcia e di quelle brutte abitudini irlandesi che tanto fanno ridere gli inglesi (la loro proverbiale convivenza con gli animali, in questo caso un asino, che finirà proprio come Baltazhar).
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