lunedì 12 settembre 2022
La Magica Roma dell’arte al potere. "Era Roma", il nuovo film di Mario Canale alle Giornate degli Autori di Venezia
di Roberto Silvestri
C’era una volta… Roma “centro del mondo”. Molti non ci crederanno oggi, ma tra il 1963 e il 1979 dopo Cristo lì avvennero incanti. Nel suo nuovo film Mario Canale, documentarista ex Il Male ed ex Potere Operaio, dall’emblematico titolo Era Roma, montaggio di un superbo materiale di repertorio, una cinquantina di sequenze da film underground rarissimi e film classici popolari, e interviste a una settantina di testimoni dell’epoca, si cerca di scoprire il mistero di quella estasiante e contagiante atmosfera. Effimera, anzi, secondo il noto aggettivo che scientificamente la definisce, sintesi neobarocca acutamente ripresa dall’assessore Renato Nicolini, per spiegare quell’ onda condivisa e aggregante, ma mutante e devastante, sempre imprevedibile e cangiante, costruttiva di pulsioni e desideri collettivi a venire. Bertolucci la definisce una “atmosfera entusiasmante che unì musica, cinema, politica e sesso in un'unica passione travolgente”.
Una fioritura artistica, culturale e vitale inaspettata, un intreccio inaudito e indisciplinato ma fecondo di “nuovo” cinema, e teatro altro, televisione sperimentale, rock inaudito, letteratura selvaggia e cibernetica, “droga che dilata la coscienza”, danza e moda mozzafiato, pittura-non-pittura, sesso multiverso, musica post weberniana spinta, fotografia pre-punk, cucina post-antica (“anche la pasta e fagioli è poesia!” urla un dissidente a Castelporziano, assaltando il palco dei performer lirici – tutti “atroci” tranne Ginsberg e Evtushenko - che crollerà, nei ricordi di un allibito e divertito Carlo Verdone) … causato da una pluralità di circostanze e che ha improvvisamente “messo caos nell’ordine di un mercato dei consumi culturali e dei comportamenti consentiti troppo disciplinato e che funzionava a compartimenti stagno”.
Silvano Agosti ricorda che venne al Centro Sperimentale di Cinematografia perché era l’unica scuola dove si mangiava gratis e a Roma gli affitti in centro storico erano bassi…
Arbasino ricorda che si approfittò del boom economico per fare arte “libera”, finalmente, senza scopo o ansia di lucro e senza più assoggettarsi al mercato.
Quelli di Quindici eredi del Gruppo 63, come Nanni Balestrini, così odiato dai sovietici perché giudicati succubi del neocapitalismo “a causa di giochi linguistici incomprensibili dalle masse”, sono però tuttora convinti – ricordava Guglielmi - che la loro rivista anticipò tutte le tematiche del 68 (così come il Male in qualche modo ne scrisse la parola fine).
Enrico Vanzina ama citare una frase di Ennio Flaiano (che di questo viaggio nei misteri di Roma antica è un po’ì il Virgilio) a proposito del misterioso fascino di una città così poco maneggiabile: “E’ avvolta dall’eternità, Roma assolve sempre, mai condanna”.
Per il poeta Aurelio Picca: “Roma è un fotogramma che cattura l’eternità”.
Rodolfo Sonego e Alvin Curran restano di sasso quando arrivano tra i 7 colli: il primo quando mangia nelle trattorie prende appunti sui tipi che le frequentano che diventeranno il coro della commedia all’italiana; e il secondo è affascinato dal rumore della città, dalle donne che cantano sui balconi di prima mattina, per esempio, e dal trovare “paese” una così grande capitale. I vigili urbani di piazza del Popolo quando passa Sophia Loren fermano il traffico. E Panatta teenager si ricorda ancora dalla presenza attiva dei più famosi playboy (Franco Rapetti, Beppe Piroddi, Federico Martignone e Federico Pantanella). “Roma era la città delle più belle donne del mondo”.
Citto Maselli ancora non si capacita del fatto che le Stelle di Mario Schifano incassassero il doppio al Piper dei Procul Harum.
I cineasti in quegli anni poterono girare non i film su commissione, come avviene oggi, ma i film che volevano dvavero fare, grazie all’art.28 (come ricordano Enzo Porcelli e Italo Moscati, che produsse per la Rai gli amati e famigerati “sperimentali tv). Poco prima Marco Bellocchio aveva aperto la strada del cinema fuori schema con I pugni in tasca che poté girare solo perché il fratello aveva dei soldi da parte. Le porte di Cinecittà, che pure davano lavoro a 150 persone, più che alla Fiat, erano sbarrate per chi voleva fare cinema d’artista come Agosti, Tretti, Miscuglio, Leonardi, Grifi, Ponzi, Brocani, Schifano, Sergio Rossi (suo il bellissimo Policeman, molto poltiico, che in realtà fece infuriare sia Cesare Brandi che Michelangelo Antonioni che decise di non assumere più Lou Castel per Professione Reporter perché lo aveva interpretato) . Ma ne potevano fare a meno. I film d’artista in 16mm, super 8 e video avevano le loro sale e i loro festival.
Ma la prima causa scatenante quell’anarchia fertile che mi viene in mente è stata fine politica del monopolio della Dc più bigotta (i processi Braibanti-Valpreda furono il loro canto del cigno). Il Psi al governo, pungolato da Pci e Psiup, che modernizzò leggi del settore e affidò a professionisti, finalmente adeguati, istituzioni culturali e finanziamenti ben finalizzati. L’emergenza, poi, di personalità molto forti, capaci di cambiare le cose: editori come Feltrinelli e produttori coraggiosi come Alberto Grimaldi, direttori di gallerie (Palma Bucarelli) o di teatri visionari (da Grassi a Strehler fino a Nanni e Perlini), compositori e artisti che bombardavano le Accademie (Nono e Schifano, Bene e Sandro Franchina, Annabella Miscuglio e Augusto Tretti), cineasti capaci di trasformare nuove idee in visioni non addomesticabili e spazi magici come il Filmstudio 70, L’occhio l’orecchio la bocca o Il Politecnico. O il Piper e il Music Inn. Il Folkstudio e La Tartaruga di Plinio De Martiis. L’Attico di Fabio Sargentini e il Camion di Quartucci e il teatro Tenda…
Pensiamo, per fare un altro nome (che Mario Canale dimentica di ricordare), al critico e regista teatrale Gerardo Guerrieri che inventò la collana di teatro dell’Einaudi (quella che portò in Italia il teatro dell’assurdo, Ionesco e Beckett, e poi Brecht e Arthur Miller) e poi inventò il “Teatro Club”, portando a Roma per primo il fior fiore delle avanguardie mondiali, grazie anche a finanziamenti garantiti dal presidente del consiglio dei ministri dal 1963 al 1968, Aldo Moro (tessera del Filmstudio in tasca). Un magnifico documentario di Fabio Segatori del 2018 ha risarcito la sua straordinaria importanza (e forse per questo Canale lo ignora).
Altro imput fu la crisi di Hollywood e la contemporanea insorgenza nel mercato internazionale del nostro cinema d’arte e di genere (western, poliziottesco, commedia, erotico…), capace per una volta di ibridarsi e contaminarsi tra pratiche alte e basse (per esempio la presenza di Pier Paolo Pasolini e Lou Castel, attori, in Requiescant, western spaghetti di Lizzani del 1964) e di non farsi ricattare dal finanziamento pubblico, attirò sperimentalisti da tutto il pianeta e provocò sperimentalismi artistici intrecciati. Dal vinaio di Campo de Fiori si incontravano Orson Welles e Chat Baker, Gregory Corso e Cohn Bendit, Jean Luc Godard e Franco Brocani, Steve Lacy e Mario Schifano, il Living con Olimpia Carlisi, Sergio Rossi e Franco Angeli, Glauber Rocha e Juliet Berto, Domenico Guaccero e Cathy Berberian, Lorenza Mazzetti e Titina Maselli, la pittrice islandese Róska Oskardottir e Gian Maria Volonté, Alvin Curran e Alberto Grifi, Thomas Harlan e Anne Wiazemsky, Titon Alea e Paulo Saraceni, Twombly e Uliano Lucas, Tano D’Amico e Trisha Brown, Yvonne Rainer e La Monte Young, Victor Cavallo e Charlemagne Palestine, Sargentini e Carlo Di Leo, Straub e Huillet… E così via.
Certo. I palazzinari avevano qualche anno prima compiuto l’ennesimo capolavoro, il loro ultimo sacco della Capitale e massacrato una periferia eletta da Italia nostra capitale mondiale della speculazione edilizia e del degrado urbanistico.
E nel 1960 Federico Fellini apre La dolce Vita (che imporrà al mondo la sovranità culturale di Roma e di via Veneto, luogo attraente e moderno dove tutto può accadere, poco dopo la Parigi di Godard e Truffaut) sorvolando l’Urbe in elicottero e svela quello scempio di Cinecittà, quartiere dormitorio, con schiacciate sull’antico acquedotto baraccopoli indecenti, piene di immigrati affamati di salario, e si trascina svolazzante una statua gigante di Cristo lavoratore che benedice, non senza imbarazzo, cemento e tettonica.
Non fu facile sconfiggere la censura in quella occasione, come ricorda il diciottenne Bertolucci, ospite dell’anteprima che Fellini organizzò per difendersi dagli attacchi prevedibili della curia e di Greggi.
Poco dopo Vittorio Gassman, spettro di un pittore secentesco, Giovanni Battista Villari detto “il Caparra” in Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli (1961), si aggira sconsolato in piazza dei Consoli (dove una torre medievale sfuggì al genocidio ed è intatta ancora oggi), si volta disgustato verso un palazzo moderno appena finito al n.50, mostro architettonico grigio e blu fresco di cantiere e frutto di maneggi olimpionici, lo indica con il dito e sentenzia con la voce: “è il più brutto edificio mai concepito da mente umana” (*).
Però lì attorno a questa città, “la più zozza d’Italia”, già si aggiravano gli uomini di Pasolini in cerca di comparse per Accattone e Mamma Roma, perché quella era la “capitale della creatività, del caos e del possibile”. Raccontano la scena artistica e politica della Capitale, allora un centro mondiale dell’arte vivente anche Annarosa Morri, Felice Farina, Luca Ronchi, Marcello Villari e la voce di Alessandra Vanzi (fondatrice della Gaia Scienza).
Il film è stato presentato alla Mostra di Venezia dalle Giornate degli Autori n.19, sezione 100+1. Ovviamente non ci sono tutti i protagonisti di quell’epoca e alcuni di quelli che parlano forse parlano un po’ troppo (avrei preferito più Paola Pitagora che Tortorella o Andreotti o Verdone, più Sergio Lombardo che chi, come il compositore Piersanti (e poteva essere anche Piovani) boicottava con i suoi amici allievi del conservatorio i concerti di quel castrista e operaista di Luigi Nono.
Ma non è questa l’unica critica che si può fare al bel lavoro. Semmai forse non si è analizzato troppo come mai è stata proprio Roma in quei 15 anni ad aver visualizzato meglio il trapasso dalla sensibilità moderna nell’arte (il punto di vista fortemente soggettivo imposto contro tutti e contro tutto, la soggettività desiderante come atto criminale) a quella postmoderna, dove quel punto di vista, di fronte agli orrori della politica internazionale (decolonizzazione sanguinosa, aggressione in sud est asiatico, stragi di stato), non può esimersi dal prendere posizione, sganciandosi dal mercato dell’arte per non essere considerati dei collaborazionisti. Quando gli artisti si rifiutarono, come gesto politico collettivo e planetario, di continuare insomma a fare gli artisti. E a confondere le carte. Scrittori si mettono a girare un solo film. Carmelo Bene lascia il teatro per i set. Pittori facevano cinema pur di evadere dai musei e dalle gallerie. Le gallerie diventavano spazi concettuali pur di non esporre quadri. “I maestri del dolore” (i pittori di piazza del Popolo si autodefinivano così, con ironia, racconta Paola Pitagora, allora compagna di Mambor, citando la popolare collana dei Fabbri Editori “I maestri del colore”) si dedicano anche loro al cinema, così come Sylvano Bussotti “per la sua assoluta insignificanza”. Godard, periodo maoista, lo ricorda Ettore Rosboch ironizzando troppo, gira Vento dell’Est “in un senso di inconcludenza creativa” (direbbe Bifo) chiamando il collettivo degli attori e della troupe in assemblea ogni mattina a decidere scena per scena cosa e come girare e imponendo l’egualitarismo degli stipendi (si opporrà solo Volonté). Qualche artista underground come Alfredo Leonardi, entra nelle organizzazioni rivoluzionarie maoiste o le finanzia (come Mario Schifano che sottoscrive per la nascita di Quindici). Quasi tutti torneranno prima o poi alla loro specializzazione artistica, ma completamente “rieducati”, come dopo aver partecipato a una “grande rivoluzione proletaria culturale occidentale”.
Ma Mario Canale è molto più interessato, come Fellini, a raccontare la sua Roma, attraverso questo viaggio nell’utopia romana. E adora soprattutto quel che afferma lo sceneggiatore Furio Scarpelli, un principe della commedia italiana: “il subconscio ce l’hanno tutti? Sì. Ma il subconscio romano ha il particolare pudore di apparire sensibile, si vergogna di sembrare intelligente, ha il piacere di apparire sguaiato piuttosto che sembrare comprensivo. E quindo sostituisce facilmente la parola di conforto con la parolaccia tipo li mortacci tua o quanto sei stronzo, che, sotto sotto, è solo un’esortazione a fare meglio”. E così il prossimo lavoro di Canale sarà sui “Magnifici quattro della risata”… Gassman, Sordi, Manfredi e Tognazzi.
(*) era la casa in cui abitavo dal 1960 al 1973
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