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mercoledì 9 dicembre 2015

A testa alta. Un altro film francese di recente esportazione, piuttosto malsano. Con Catherine Deneuve


di Roberto Silvestri 

Dal 1980 non ricordiamo un film d'apertura di Cannes così brutto e abietto. Neanche quel polpettone nazionalista di Fort Saganne, tanti anni fa. Con Gerard Depardieu legionario giovane, quello. E questo con l'altra gloria nazionale e leggenda vivente, Catherine Deneuve, nel ruolo di un giudice minorile, sempre con quell'aria distratta, sufficiente, appagata compunta ed “eternamente giovanile.
A testa alta, che era fuori competizione a Cannes e in Italia è uscito senza grande successo qualche settimana fa nelle sale, è diretto anzi riportato all'ordine da una messa in scena squadrata e autoritaria dall'attrice-sceneggiatrice-regista Emmanuelle Bercot (già semiresponsabile di quell'elogio lepenniano alle forze dell'ordine che era Polisse, 2011, regia della amica e complice Maiwenn, che l'ha diretta nel gemello Mon Roi). E comunque si avvale di due attor giovani, il biondo protagonista Malony (Rod Paradot) e la sua amata ragazzina skinhead Tess (Diana Rouxel) che sarà bene tener d'occhio perché sembrano sarcasticamente distaccati dall'atmosfera nella quale sono costretti a muoversi qui e cioé come - si immagina – facciano gli strafattoni adolescenti di oggi. Cinici maleducati arroganti e indemoniati.
La polemica sotterranea del film è contro l'ispirazione giuridica imposta dai rooseveltiani nordamericani nel 1945 alla Francia e nonostante tutte le sei sette riforme del settore postbelliche ancora valida, e che pretende la rieducazione e non la più severa punizione per i delinquenti (e non solo minorenni) che come si sa sono irrecuperabili. I film americani ci dicono che negli Usa quella ispirazione giuridica è stata già tradita (anche in Vizio di forma ce ne siamo accorti, e si era attorno al 68). Cosa aspetta l'Europa a girare pagina e privatizzare le carceri minorili e trasformarle in ditta di correzione severa?
Il nostro protagonista quindicenne-sedicenne guida senza patente e quasi non manda in paradiso il fratellino; si immagina che si faccia di tutto; distrugge macchine; ruba e rapina; lavora più che svogliatamente, altro che art.18; urla a perdifiato sempre; butta un tavolo contro la pancia di una donna incinta di 7 mesi; tenta di picchiare gli educatori, appena possibile; evade dal correzionale più volte (e, non essendo né nero né maghrebino, non verrà rispedito mai in carcere)... Ma è buono dentro, perché invoca sempre, quando è alle strette, la mamma e considera l'aborto il peggiore dei crimini. Ci fossero più schiaffoni paterni in famiglia, e manette più strette, tutto sarebbe risolto, sembra suggerirci la regista. E magari aboliamo anche il divorzio che ha davvero distrutto nel profondo la sacra famiglia... Oltre al matrimonio gay (non mancano battute omofobe di Malony) e alla marjiuana come erba curativa.
Liberation definisce A testa alta un “film sociale sarkoziano”. Di centro destra. Ed è un eufemismo. Si finge di far pubblicità al sistema giudiziario francese e agli sforzi immani e commuoventi di un magistrato (donna) e di un rieducatore dai femminei soprassalti emotivi (e dei carcerieri, mai così ridicolmente sensibili e comprensivi) per riportare, con faticosa abnegazione, ai sommi valori (la compostezza dei gesti, la paternità, l'ideologia del lavoro) un ragazzino francese di colore bianco (truccato e shakerato come fosse Brad Dourif da cucciolo), disadattato e nevrastenico, bisognoso piuttosto di un buon psicologo, perché a disagio perfino nella doom, X, no future e black block generation. Insomma. Una scarica di cattive vibrazioni adrenaliniche, addomesticate da uno sguardo paramilitare preoccupante. Cosa ribolle di malsano dentro la pancia della Francia?

Emmanuel Levinas contro Emmanuelle Bercot. Mon Roi e quel che sta succedendo in Francia oggi dopo il trionfo del Front National




Roberto Silvestri

Dopo il successo parziale del Front National nelle elezioni regionali di Francia, e le copertine dei quotidiani e dei settimanali transalpine che raffiguravano la biondissima Madame Le Pen come una novella Giovanna d’Arco, soldato della cristianità in armi contro pagani, infedeli e eretici, ci si chiede, analizzando un film che è nei nostril cinema in questi giorni, Mon roi,  cosa c’è questa volta dietro una grande donna di destra, che senza il suo uomo dominante non è nulla. Certo. C’è un papà illustre, come mon roi, anche se è stato messo provvisoriamente da parte perché più impresentabile del boss Trump. C’è lo Spirito della Francia cattolica. Ma io credo che ci sia qualcosa di più. Non l’Europa, che è sostantivo femminile e che andrebbe messa in epoché, secondo la signora col tricolore sbandierato.
C’è l’Idealismo come inguaribile mon roi delle nostre destre, dai Salvini agli Orban. C’è l’Io. C’è il solipsismo che di tanto in tanto riemerge a cancellare ogni vizio cosmopolita. C’è l’incapacità di definire l’altro se non alieno, differenze e anche un po’ pericoloso.

Emmanuelle Bercot in Mon Roi di Maiwenn

Secondo il filosofo fenomenologo Emmanuel Levinas, le cui origini ebraiche certo, secondo i Le Pen, compromettono la sua francesità, scriveva che “l’Io non è né soggetto, né amore attraverso i quali tenderebbe all’essere. Il dialogo non riassume la società, perché non include il terzo. La condizione di un io nel mondo non si definisce né con la sua struttura di soggetto – che pensa il mondo come oggetto – né con la sua struttura d’essere che ama scegliendo un essere ma dimenticando gli altri. L’Io si definisce, a differenza che nell’Idealismo, con la giustizia. Il rapporto tra uomini non va da me a te, o da me al mio alter ego, ma passa attraverso gli altri, l’apparizione degli altri. Io=io dono agli altri”. Tradotto in politica non c’è sinistra senza donare agli altri. Lo ha fatto Roosevelt I e II. Kennedy e Obama. Tradotto in cinema è il grande insegnamento etico che, dalla costituzione Americana, quella che punta alla felicità di tutti, è diventata nel cinema l’individualismo democratico, da Frank Capra a Spielberg, Dante, Zemeckis e Landis. Un quartetto composto dai valori che guidano il comportamento non degli europei ma di tutto il mondo anti fascista. Libertà, eguaglianza, fraternità e giustizia. Invece il cinema francese degli ultimi anni sta emanando cattivo odore e pubblicizzando cattivi umori.
Prediamo Mon Roi.  
     
Louis Garrel in Mon Roi
"Tu, tu. Mio tetto, mio tutto, mio re" canta l'idolo pop uruguagio Elli Mederios in questo emblematico film dei nostril tempi. E’ nelle nostre sale, dopo la prima mondiale a Cannes e l’enigmatico trionfo in Costa Azzurra, il film-Eurocanzone Mon Roi, love story diretta da Maiwenn, genere sentimentale, quello che i registi e le registe transalpine sanno maneggiare con maggiore perizia e sfoggio di nuances - ma qui è più che altro idolatria da matrimonio che non ammette sfumature - e che ha permesso alla attrice e regista Emmanuelle Bercot (nonché collaboratrice alla sceneggiatura di Naiwenn in Polisse che fu a Cannes qualche anno fa e fu miracolosamente fu premiato) di aggiudicarsi ex aequo la Palma d’oro per per migliore sposina del festival.  Inspiegabile, anche se un riconoscimento ex aequo. Ma non va confuso (anche se i maligni lo hanno fatto) con il riconoscimento semiserio assegnato al cane di Le mille e una notte di Miguel Gomes, "miglior animale recitante" del festival.
Eppure Bercot, nel ruolo di una donna autodistruttiva, non smania forse a 360°, e con la gola e con la lingua, guaisce perfino, per essere o tornare ad essere "la più fedele adoratrice del maschio latino"?
Questi problemi d’identità sessuale, di riconquista del genere, più che una epidemia misteriosa da suicidio-omicida che colpisce i ventenni d’ambo i sessi, spiegano l’attrazione fatale di uomini molto barbuti verso il califfato molto fascista. E quella di donne inquiete in cerca di una collocazione più precisa, dentro un burka, e al fianco (e un po’ sotto) dei loro uomini tornati, grazie a dio, definitivamente machi padroni.
Mi sa che per la Bercot, in questa commedia deprimente serissima, "Je suis Charlie" vuol dire, approfittando del doppio senso in francese, "io seguo Charlie", vengo sempre dopo di lui... Se sono rotta dentro mi riaggiusto e ne riconquisterò la tenerezza che so nascondersi dentro la scorza del duro... Inquitante davvero se fosse così.
Il film (del genere rimatrimonio, ma per nulla screwball) è un inspiegabile duetto d'amore e odio, un'odissea di liberazione che dura estenuanti 2 ore e più, dopo una relazione decennale complicata da scenografie coi colori pop sparatissimi e oggettistica kitsch sbandierata ovunque, dentro e fuori gli interni domestici.
L'idea centrale è quella che il super macho smetta a un certo punto di esser solo attratto da donne-manichino, sempre tutte uguali e noiose. E a quel punto una donna che sa giocare di contro balzo e mettere nel sacco un paio di battute spiritose e inaspettate (aiutata da un fratello, Louis Garrel, per la prima volta davvero brillante, quasi lubitschiano) che riescano a sorprenderlo, a scoprirne le zone dark, intime e pornografiche del "sentimento", lo farà suo.
Non troppo originale, vero, questa apologia della donna con le palle che sa sottomettersi?


Così lei, Tony, in un night riadesca nel giorno giusto (letto sull'oroscopo?) un lui, Georgio, Vincent Cassel, che già l'aveva fulminata da studentessa-lavoratrice. Ora è un imprenditore farfallone di effimero successo (ristoratore) e, non lo manda a dire, da sempre un impenitente sciupa femmine. Ma la fa tanto ridere.  Tony e Georgio in effetti sembrano nomi scelti per rendere universale il film, e farlo piacere non solo fuori dalla Francia ma anche dalle coppie gay e lesbiche. Georgia on my mind.... Mon Roi Cassel (piacionissimo, che si compiace di farsi vedere, come al solito, dall'epoca di L'odio non riesce mai a portare se stesso in un viaggio schermico avventuroso e inquietante, fuori dall'ammirazione obbligatoria), il disinvoltone, miracolo, se la sposa. E prende tutti in contropiede. Poi il figlio. E le corna. Scandalo, urla, separazione. Forse un ritorno.. Più probabilmente un suicidio (di lei). Il pubblico dice: approfittane! scappa! scappa!


Il film inizia dalla fine, e poi fa un lungo flashback, con l'incidente di sci che rompe la gamba, malamente a Tony, ricoverata in un centro di riabilitazione dove la ritroveremo nel corso della storia tra le mani sapienti di un fisioterapista. Una paziente in via di guarigione, attorniata da una assistenza di lusso (congratulazioni per il ministero della sanità) e soprattutto da una rosa multiculturale e sorridente di riabilitati, che neanche Benetton.  
Cassel, Maiwenn e Bercot a Cannes 2015
La bionda Bercot, intimamente complice della regista, suo alter ego castano scuro, si è fatta confezionare una partitura rococò (merito anche di Etienne Comar) per sfogare narcisisticamente tutto il suo repertorio di smorfie, gesti di mano e sguardi ululanti, un po' come fa Mag Ryan o Camern Diaz quando producono un film con sé stesse super star.
Il suo personaggio si nasconde dietro il ben dire, ma non riesce mai a catturare una sonorità charming o la postura sexy e impudica di chi sa indagarsi dentro e rappresentare un orginale bersaglio del desiderio. Tony non è una donna problematica a tal punto da giustificare un approccio così  tecnicamente variegato e costantemente sopra le righe. E' una masochista moderata che ha perso la gioia di vivere, da quando il suo uomo, Giorgio l'ha abbandonata, facendole perdere l'equilibrio interno ed esterno. E soprattutto si è fatto pignorare maldestramente un mobile di famiglia a cui teneva profondamente.
Così assistiamo all'ascesa e alla caduta  e alla ricucitura di un personaggio senza essere mai "trascinati dal vento", senza esserne travolti. Piuttosto sfogliamo un saggio da scuola di recitazione. Bercot è manierata nel pianto, nel riso, nell'urlo di disperazione; se la cava così così nei litigi, nella seduzione, nell'amplesso, nell'amore filiale, sfuma lo sbigottimento, accentua la perplessità... come soltanto una professionista da sit-com sa fare, stile Giorgio Albertazzi nella parodia di Carmelo Bene.
Non è, purtroppo, un robot commuovente che cresce tra le mani del dottor Frankenstein. E' Bercot. Al naturale. Rappresenta solo i bordi estremi di un personaggio (non standogli mai "un po' accanto", secondo il saggio metodo brechtiano di Margherità Buy in Mia madre) memorizzato anche nei gesti più improvvisati, sempre conditi con tic e orpelli. Insomma passeggia sullo schermo come su un marciapiede. Diciamola tutta. E' tremendamente, oscenamente disinvolta. O è solo tutta colpa degli anti dolorifici? 


martedì 26 maggio 2015

Georgio on my mind. "Mon Roi". Perché non siamo d'accordo con il premio a Emmanuelle Bercot

Emmanuelle Bercot e Vincent Cassel  in "Mon Roi" di Maiwenn
Roberto Silvestri 

dopo Cannes

Per farla finita con Cannes 68, anno 2015, ritorniamo su alcuni film che non abbiamo avuto il tempo di recensire nei giorni del festival. O perché sono particolarmente brutti, come questo di cui scriviamo, o troppo complessi, ed è bene pensarci sopra più a lungo, o perché sono sfuggenti, come quell'oggetto d'arte formato da sole lamette da barba acuminate di La collezionista di Rohmer....Purtroppo per difficoltà indipendenti dalla nostra volontà non siamo riusciti a vedere né i due film diretti dai Garrel, figlio e nipote, Philippe e Louis,  né Desplechin, né Gaspar Noé, né Jaco van Dormael, e neanche il film colombiano che ha vinto la Camera d'or. L'irrazionale palinsesto di Cannes, abitualmente sadico con gli addetti ai lavori, quest'anno era particolarmente mal congegnato.

"Tu, tu. Mio tetto, mio tutto, mio re" canta l'idolo pop uruguagio Elli Mederios. Inizierei proprio dal film-Eurocanzone Mon Roi, love story di Maiwenn, il genere sentimentale è quello che i registi e le registe transalpine sanno maneggiare con maggiore perizia e sfoggio di nuances - ma qui è più che altro idolatria da matrimonio - e che ha permesso alla attrice e regista Emmanuelle Bercot (nonché collaboratrice alla sceneggiatura di Naiwenn in Polisse che fu a Cannes misteriosamente qualche anno fa e miracolosamente premiato) di aggiudicarsi ex aequo il premio per la migliore sposina del festival. Con Vincent Lindon miglior attore maschile (per il film politico di sinistra Le leggi del mercato) la Francia prende tutto e manda giù dal podio il cinema italiano anche nel genere d'impegno civile, suo ex cavallo di battaglia. La giuria ha giudicato evidentemente le sue allegorie fiacche, compiaciute e formaliste. Bisognerà tenere d'cchio questo Alain Attal, il produttore, che ha portato a Cannes anche Les Cowboys (alla Quinzaine)  perché cerca di mixare gusti popolari all'appoggio della critica meno autocritica, e ama gli indipendenti amati da France 2 Cinema che, cioé, sanno fare mercato. E' infatti vero che l'ispirazione sembra quella operaia di Una moglie di Cassavetes capovolta per renderla masticabile al grande pubblico. Ma si sente troppo la puzza del format. E se si mima la struttura del film-jazz è solo a quello da ascensore che ci si aggrappa.

La regista, sceneggiatrice e attrice Maiwenn
 

La palma d'oro a Bercot però resta inspiegabile, anche se ex aequo, ma non si deve assolutamente confonderla con il riconoscimento scherzoso assegnato al cane di Le mille e una notte di Miguel Gomes, "miglior animale recitante" del festival. Eppure Bercot, nel ruolo di una donna autodistruttiva, non smania forse per essere o tornare ad essere "la più fedele adoratrice del maschio latino". Mi sa che per lei "Je suis Charlie" vuol dire "io seguo Charlie", vengo sempre dopo di lui... Se sono rotta dentro mi riaggiusto e ne riconquisterò la tenerezza che so nascondersi dentro la scorza del duro... Inquitante davvero se fosse così.

Emmanuelle Bercot
Il film è un inspiegabile duetto d'amore e odio, un'odissea di liberazione di oltre 2 ore, dopo una relazione decennale complicata da scenografie coi colori pop sparatissimi e oggettistica kitsch sbandierata ovunque, dentro e fuori gli interni domestici. L'idea centrale è quella che il super macho smetta a un certo punto di esser solo attratto da donne-manichino, tutte uguali e noiose. E a quel punto una donna che sa giocare di contro balzo e mettere nel sacco un paio di battute spiritose e inaspettate (aiutata da un fratello, Louis Garrel, per la prima volta davvero brillante, quasi lubitschiano) che riescano a sorprenderlo, a scoprirne le zone dark, intime e pornografiche del "sentimento", lo farà suo. Non troppo originale, vero, questa apologia della donna con le palle che sa sottomettersi?

Così lei, Tony, in un night riadesca nel giorno giusto (letto sull'oroscopo?) un lui, Georgio, Vincent Cassel, che già l'aveva fulminata da studentessa-lavoratrice. Ora è un imprenditore farfallone di effimero successo (ristoratore) e, non lo manda a dire, da sempre un impenitente sciupa femmine. Ma la fa tanto ridere.  Tony e Georgio in effetti sembrano nomi scelti per rendere universale il film, e farlo piacere non solo fuori dalla Francia ma anche dalle coppie gay e lesbiche. Georgia on my mind.... Mon Roi Cassel (che si compiace di farsi vedere, come al solito, dall'epoca di L'odio non riesce mai a portare se stesso in un viaggio schermico avventuroso e inquietante, fuori dall'ammirazione obbligatoria), il disinvoltone, miracolo, se la sposa. E prende tutti in contropiede. Poi il figlio. E le corna. Scandalo, urla, separazione. Forse un ritorno.. Più probabilmente un suicidio (di lei). Il pubblico dice: scappa! scappa!

Il film inizia dalla fine, e poi fa un lungo flashback, con l'incidente di sci che le rompe la gamba, malamente. Fatto sta che Tony viene ricoverata in un centro di riabilitazione dove la ritroveremo nel corso della storia. Una paziente in via di guarigione, attorniata da una assistenza di lusso (congratulazioni per il ministero della sanità) e soprattutto da una rosa multiculturale e sorridente di riabilitati, che neanche Benetton.  

La bionda Bercot, intimamente complice della regista, suo alter ego castano scuro, si è fatta confezionare una partitura rococò (merito anche di Etienne Comar) per sfogare narcisisticamente tutto il suo repertorio di smorfie, gesti di mano e sguardi, un po' come fa Mag Ryan o Camern Diaz quando producono un film con loro stesse super star.
Il suo personaggio si nasconde dietro il ben dire, ma non riesce mai a catturare una sonorità charming o la postura sexy e impudica di chi sa indagarsi dentro e rappresentare un orginale bersaglio del desiderio. Tony non è una donna problematica a tal punto da giustificare un approccio così  tecnicamente variegato e costantemente sopra le righe. E' una masochista moderata che ha perso la gioia di vivere, da quando il suo uomo, Giorgio l'ha abbandonata, facendole perdere l'equilibrio interno ed esterno. E soprattutto si è fatto pignorare un mobile di famiglia a cui teneva profondamente.
Così assistiamo all'ascesa e alla caduta  e alla ricucitura di un personaggio senza essere mai "trascinati dal vento", senza esserne travolti. Piuttosto sfogliamo un saggio da scuola di recitazione. Bercot è manierata nel pianto, nel riso, nell'urlo di disperazione; se la cava così così nei litigi, nella seduzione, nell'amplesso, nell'amore filiale, sfuma lo sbigottimento, accentua la perplessità... come soltanto una professionista da sit-com sa fare, stile Giorgio Albertazzi nella parodia di Carmelo Bene.
Non è, purtroppo, un robot commuovente che cresce tra le mani del dottor Frankenstein. E' Bercot. Al naturale. Rappresenta solo i bordi estremi di un personaggio (non standogli mai "un po' accanto", secondo il saggio metodo brechtiano di Margherità Buy in Mia maadre) memorizzato anche nei gesti più improvvisati, sempre conditi con tic e orpelli. Insomma passeggia sullo schermo come su un marciapiede. Diciamola tutta. E' tremendamente, oscenamente disinvolta. O è tutta colpa degli anti dolorifici? 

domenica 24 maggio 2015

L'uomo che amerete Audiard. Palma d'oro a Dheepan, tra Rambo e Rosi

Valeria Golino premia Hou Hsiao Hsien come migliore regista per "L'assassino"
Roberto Silvestri

Cannes
"I premi? Non servono a niente. Non rendono migliori gli attori e i registi" ha appena dichiarato a Elle Catherine Deneuve. Però Vincent Lindon, accettando commosso la sua palma come interprete maschile di un film politico di sinistra, sui precari che si massacrano a vicenda,  Le leggi del Mercato di Stéphan Brizé, "il primo riconoscimento che ho vinto nella carriera", sembrava davvero rinato.  Già. E chissà quanti premi dovrà infatti conquistare ancora Jacques Audiard per diventare un regista civile interessante. La sua palma d'oro, tra gli applausi (non è più tempo di Pialat, sarebbe stato divertente vedere Gus Van Sant quest'anno sul podio) lascia molto perplessa la critica.
Dheepan (lo ha acquistato la Bim per la distribuzione in Italia), a parte la simpatia a pelle dei due interpreti principali indo-cingalesi,  è un mediocre psico-thriller francese che smuove soprattutto i sensi di colpa e l'assistenzialismo caritatevole dello spettatore. E, non essendoci più "il cinema francese" può permettersi di rubare di qua e di là. Si chiama globalizzazione d'autore. Con retrogusto imprenditoriale. Il ricco mercato indiano fa molta gola... Allora.  Dal cinema civile italiano dell'epoca Rosi si prende l'indignazione: perché la questione dei profughi politici è di grande e struggente attualità. E bisogna pur spezzare qualche lancia in favore del ministero degli interni perché si riconosca che la Francia ne ha già presi troppi di questi profughi politici... Niente quote. Da Ken Loach si cita un po' di umorismo da "dannati della terra", con qualche tocco di femminismo paternalista per non sembrar populisti (ma non mancano sviolinate spiritual-religiose).  Si pizzica poi, nel finale, qualcosa dalla saga hollywoodiana di Rambo - anche se sembrerebbe soprattutto una deviazione onirica - perché quando una macchina di guerra impazzita si rimette in moto, nella giungla metropolitana, sono dolori per tutti. Dheepan come Stallone. Deve molto, inconsciamente, Dheepan, anche alla "sensibilità vincente" del Front National, nuova gestione, perché la descrizione grigiosporca delle periferie avvelenate e abbandonate, in mano non all'ordine repubblicano ma al casino organizzato dalle pericolose e trinariciute gang afro-maghrebine armate di bazooka, è tutta un manifesto politico anti Holland. Dov'è la polizia? Contrasta la droga e i mitra solo uno scrupoloso e servizievole portiere induista, capace di rimettere a posto le luci al neon divelte, l'immondizia disseminata ovunque e l'ascensore divelto, come suggeriva di fare Marc Augé per dare anima ai non luoghi. Eppure perfino dentro l'uomo d'ordine più buono del mondo, il graffitista etico dei suburbi,  può celarsi una indemoniata "cellula dormiente", pronta a tirare fuori gli artigli, come una Tigre Tamil. Insomma il cuore del film inquieterà non poco il contribuente transalpino. E anche il nostro. E nessuno ricorda (neanche questo squisito film civile) che i Tamil furono vittima di un genocidio, sterminati dai buddisti di Colombo senza che l'Occidente dicesse o facesse nulla. Che neppure questo film "palmizzato" ne faccia cenno è scandaloso.
Nel Palmares ci sono anche riconoscimenti condivisibili a film intensi (e riusciti come Mia madre di Moretti):  L'aragosta di Lanthimos, premio della giuria, un grottesco di fantascienza che dà ragione a Godard quando afferma che "Hitler ha vinto la guerra, almeno in Grecia";  e Il figlio di Saul di Nemes, per esempio, gran premio della giuria, da vedere, visto che Teodora lo distribuisce, anche se nel discorso, preso anche lui nel vortice dei "ringraziamenti" ha dimenticato di ringraziare anche "Hitler senza il quale questo film non sarebbe mai stato possibile" (*), ma altri sotto-premi producono come dei "danni collaterali", hanno un retrogusto perfido. Carol di Todd Haynes (che con L'assassino di Hou Hsiao Hsien, consacrato per la migliore regia,  è il film che mi sentirei di consigliare agli amici che apprezzano i film d'azione interiore con più entusiamo) poteva essere premiato almeno per la sceneggiatura. Una maniera elegante per ricordare la "giallista di profondità" Patricia Highsmith, una inquietante "squilibrista" dell'immaginario. Invece Rooney Mara (nella deliziosa parodia lesbica di Audrey Hepburn, degna di quella spontanea e vitale popcorn venus) deve dividere il premio con l'esecuzione, imbarazzante e imbarazzata, di un copione pessimo che espone Emmanuelle Bercot a recitare sempre sopra le righe tranne quando deve urlare di dolore. Responsabile la regista Maiween di Mon roi (uno spot per gli istituti francese di rieducazione degli arti traumatizzati). Invece  Chronic di Michael Franco (Messico) certamente sostenuto da Guillermo del Toro perché è uno dei film più estremi e insostenibili della gara, che applica il metodo nouveau roman ai malati terminali nei loro rapporti con chi li segue fino all'ultimo respiro, è tutto tranne che un film scritto. E, come diceva Godard, è il montaggio che scrive un film, non il copione. Non c'è neanche nei titoli di testa di "Chronic" la dizione: sceneggiatura di... Dunque premiarlo per il copione è stato un vero sgarbo.          

Todd Haynes riceve il premio di Rooney Mara per "Carol"
E il giudizio sul festival? Certo. Non possiamo pretendere un Adieu au language ogni anno. Ma il bilancio di questa Cannes 2015 non è positivo, anche se ci sono stati altri film "monstre" capaci di mettere tutto sotto sopra, come fa Jean Luc Godard. Ai margini della competizione, stipati lì (ora sappiamo meglio perché), siamo stati oggetto di attentati benefici ai nostri set mentali e emotivi. Pensiamo a Le mille e una notte di Miguel Gomes, Cimitero di splendore di Weerasethakul Apichatpong o al quarto Mad Max di George Miller...
Ma. Il festival sta cambiando, nello spirito e nella strategia, proprio come il paesaggio turistico-culinario-sponsoristico della cittadina governata con mano di ferro da David Lisnard (Ump), che ha dichiarato guerra agli "incivili", tolleranza zero per homless e piccola criminalità, più polizia e telecamere dappertutto, ormai diventata una macchina sforna-eventi a ripetizione, un "non luogo", un centro commerciale da aeroporto vip. Lo aveva già compreso, questo destino, di capitale dello spettacolo, il giovane Guy Debord... La suite del Majestic? Costa 39 mila euro a notte. Però un motivo c'è, l'ha firmata Pascale Deprez...e poi dove ospitare i magnati sauditi e cinesi! Ma perché un qualunque hotel con stanze da 100 euro a notte nei giorni del festival alza la tariffa a 700, senza che nessun magistrato indaghi? E la palma d'oro quanto costa? 20 mila euro: è composta da 19 foglie, tante quanti i film in gara. E poi lo sponsor Chopard, il gioielliere che l'ha creata, con tutti i soldi che mette, potrà anche imporre un documentario a sua gloria, sulla Colombia che produce oro equo e sostenibile, e nella Selezione ufficiale, no? Sul film colombiano che ha vinto la Camera d'or non possiamo però ironizzare. Non si riesce mai a vedere sulla Croiesette tutto quel che si vorrebbe....Tra un caffé da 2 euro e venti e un altro (a meno che non si è drogati di nespresso, gratis per gli accreditati).
Il sindaco Lisnard, non a caso, per molti anni ha gestito da manager sarkozyano proprio il cuore della Croisette, tutte le attività del Grand Palais, il bunker, il centro del festival del cinema e di mille altre fiere annuali, di moda, di televisione, di video giochi, etc.... Un edificio che non si vede l'ora che venga raso al suolo per farne uno ancora più gigantesco, e speriamo meno irrazionale, che cementifichi davvero tutta la spiaggia circostante, mandando in orgasmo gli azionisti di maggioranza. Degno insomma della nuovo concorrenza, alla Shanghai o alla Pechino (dove, non a caso, a dirigere è andato Marco Mueller), che esige ambizioni da Spectre... Quelle ci sono. Dall'umile corruzione si passa a quelle grandi, alle speculazioni edilizie, alle urgenze della globalizzazione che vuole una economia di scala crescente ben governata da un unico centro di potere... C'è infatti chi propone, per capire davvero Cannes, un documentario sul F.C. Cannes, la squadra di calcio locale che fu di Zidane e Vieira, che è progressivamente decaduta, dal 1993, dalla massima serie alla serie d e ora è, come il Parma, in situazione semifallimentare, in serie Dh... Non sarà facile dunque per Lisnard assicurare alla sua città e alla natura circostanze la qualifica di "patrimonio mondiale" dell'umanità Unesco. Lo ha chiesto ufficialmente, con tanto di Gilles Jacob nel comitato di sostegno e dell'abate dell'abbazia circense di Saint-Honorat,  il 19 maggio scorso. Le isole Lerins e la Croisette hanno ancora un valore universale eccezionale? Strano che la città del cinema non abbia ancora neanche un multiplex (lo stanno costruendo, 12 schermi, nella zona Bastide-Rouge). Strano che non abbia ancora un museo del cinema. Lo stanno allestendo. Foto e manifesti di cinema. Ma sarà effimero. Dall'11 luglio al 28 agosto, spazio espositivo di 7000 metri quadri  nella hall Riviera del palazzo del cinema. Con Gondry che animerà l'officina dei cineamatori. Ma la Costa Azzurra ha una film commission molto attiva che nel 2014 ha creato un giro di affari di 37 milioni di euro (grazie a 12 lungometraggi, tra i quali una produzione di Luc Besson).
Comunque, avesse vinto la palma Nanni Moretti chi poteva scandalizzarsi? Ma non siamo dispiaciuti per la mancanza nel palmares di cineasti italiani. Anche il più fragile e perturbante tra di loro, e quello più superbo e spavaldo, hanno avuto infatti una accoglienza attenta e insperata di pubblico e di critica. Per non parlare della giovane generazione, quella di Minervini, Carpignano e Fulvio Risuleo...
Siamo dispiaciuti per il declino di un festival, che seguiamo dal 1980, quando si aveva il tempo di discutere dei film, perfino in spiaggia, e di vedere tutto ciò che si desiderava vedere (questa volta una manina sadica ha costruito il palinsesto per impedire di assistere sia alla storica proiezione di un film postumo di de Oliveira che a quella dell'iper-porno di Noé, o l'uno o l'altro...). Cannes sta morendo di troppo successo, e non serve più da indicatore delle tendenze, come scoperta dei nuovi talenti ruspanti soprattutto extraoccidentali o per far nascere progetti non istituzionali, sottoposti a ferrea filiera "cinefondation-corto-lungo d'esordio-competizione-premio", come è successo con Laszlo Nemes e altri registi d'allevamento quest'anno.  Ma attenzione il cinema d'autore non deve irrigidirsi in uno standard, in una "maniera" se no i festival esauriscono la loro funzione sorprendente. A proposito. L'assenza della Troma e delle sue parate è un altro pessimo sintomo di malattia degenerativa.

Inaugurato male, con un disastroso spot pubblicitario alla giustizia minorile transalpina, imposto dal neo presidente manager Pierre Lescure (l'anno scorso era stato ancora Gilles Jacob, un critico, il garante "artistico") per rendere omaggio al simbolo del cinema francese e sua ex compagna per dieci anni (Catherine Deneuve), proseguito peggio,  tra i malumori dei 40 mila ospiti che ormai hanno bisogno di uno "stadio nuovo" perché il più irrazionale dei bunker è ormai obsoleto, per 40 mila ospiti, e ci sono film che non vengono mai replicati creando notevole irritazione, e lo scodellamento in competizione e ovunque di troppi film francesi stile Canal + (l'ex azienda di Lescure), con tutto l'Olimpo divistico di Francia, serie A e serie B (Depardieu, Huppert, Cassel... Lindon, Emmanuelle Bercot, Meiwaan) bel in vista, è finito molto peggio questo festival 68. E poi ricordarsi di non frequentarlo "mai di domenica". Non troverete più posto....

Inoltre una domanda. Perché uno spettatore francese indignato accreditato come stampa ha urlato alla fine dell'anteprima di Mon Roi: "Nepotismo! Vergognatevi!". L'attuale compagna di Lescure è Emmanuelle Bercot? Maiween? Cassel? Misteri transalpini.

Anche una giuria più qualificata di questa avrebbe comunque avuto difficoltà a mettere in graduatoria i dieci-undici film interessanti di questo cartellone 68. Ma questa qui ha davvero fatto un po' di pasticci. Mancava una guida critica qualificata? Forse.  Siamo arrivati al livello di Berlino d'epoca de Hadeln, quando metà delle proposte erano, come si dice qui, "nul". E i palamers peggio. Non userò infine la cattiveria di Godard che considera i fratelli Coen (e Tarantino) come i portabandiera del "cinema chic". Che per lavarsi la coscienza (e tenere alto il gap industriale tra cinema cinema d'autore americano e resto del mondo) dimostrano di essere colpiti da immagini che siano le più "brutte, sporche e cattive" mai concepibili.   

(*) è vero, è una battuta di cattivissimo gusto, ma adeguata alla serata televisiva, che Sky ha ben tradotto in diretta, metà academy awards, metà spettacolo di varietà del sabato sera, tranne l'incantevole cineballetto cinese, metà predica in chiesa (a parte le bellissime parole di César Augusto Acevedo, il regista colombiano premiato con la Camera d'or per La tierra y la sombre, quando ha dedicato il premio ai contadini, i veri eroi del suo paese). Così mi becco anche io in risposta l'espressione disgustata e enigmatica dei fratelli presidenti di giuria Coen (per tutto il tempo), come se li avessero forzati a emettere quel verdetto.         

giovedì 14 maggio 2015

Il Racconto dei Racconti e A testa alta. Cannes, prima giornata

Apertura francese. Rod Paradot in La Tete Haute
di Roberto Silvestri


Cannes. Dal 1980 un film d'apertura mai così naif e istituzionalmente abietto (nel senso del cinema di stato eseguito alla lettera) come La Tete Haute. Neanche quel polpettone nazionalista di Fort Saganne, tanti anni fa. Con Gerard Depardieu legionario giovane, quello.  Interpretato proprio dall'attore preferito della regista di questo, con l'altra gloria nazionale e leggenda vivente, Catherine Deneuve, nel ruolo di un giudice minorile, sempre con quell'aria distratta, sufficiente, appagata compunta ed “eternamente giovanile. Non mi meraviglierebbe la presenza del ministro della giustizia all'anteprimna mondiale.
A testa alta, fuori competizione, è diretto anzi riportato all'ordine da una messa in scena squadrata dall'attrice-sceneggiatrice-regista, figlia di chirurgo e di psicologa, Emmanuelle Bercot (già semiresponsabile di quell'elogio lepenniano alle forze dell'ordine che era “Polisse”, 2011 di Maiwenn, di cui temiamo molto anche “Mon roi”, in gara a Cannes 68, con la Bercot protagonista assoluta). E comunque si avvale di due attor giovani, il biondo protagonista Malony (Rod Paradot) e la sua amata ragazzina skinhead Tess (Sara Forestier) che sarà bene tener d'occhio perché sembrano sarcasticamente distaccati dall'atmosfera nella quale sono costretti a muoversi come - si immagina – facciano gli strafattoni adolescenti di oggi. Cinici maleducati arroganti e indemoniati.
Rod Paradot e il suo giubbotto Los Angeles East Redskins (catena di ristoranti)
La polemica sotterranea del film è contro l'ispirazione giuridica imposta dai rooseveltiani nordamericani nel 1945 e nonostante tutte le sei sette riforme del settore postbelliche ancora valida, e che pretende rieducazione e non più severa punizione per i delinquenti (e non solo minorenni). I film americani ci dicono che negli Usa quella ispirazione giuridica è stata già tradita (anche in Vizio di forma ce ne siamo accorti, e si era attorno al 68). Cosa aspetta l'Europa a girare pagina e privatizzare le carceri minorili e trasformarle in ditta che ricicla i fusi di testa a pagamento ributtandoli sul mercato del lavoro perché siano sfruttati al 100%?
Rod Paradot e Benoit Magimel
Il nostro protagonista quindicenne-sedicenne guida senza patente e quasi non manda in paradiso il fratellino; si immagina che si faccia di tutto; distrugge macchine; ruba e rapina; lavora più che svogliatamente, altro che art.18; urla a perdifiato sempre; butta un tavolo contro la pancia di una donna incinta di 7 mesi; tenta di picchiare gli educatori (perfino il buon Benoit Magimel) appena possibile; evade dal correzionale più volte (e, non essendo né nero né maghrebino, non verrà rispedito mai in carcere)... Ma è buono dentro, perché invoca sempre, quando è alle strette, la mamma e considera l'aborto il peggiore dei crimini. Ci fossero più schiaffoni paterni in famiglia, e manette più strette, tutto sarebbe risolto, sembra suggerirci la regista. E magari aboliamo anche il divorzio che ha davvero distrutto nel profondo la sacra famiglia... Oltre al matrimonio gay (non mancano battute omofobe di Malony a questo proposito) e alla marjiuana come erba curativa.
Liberation definisce “A testa alta” un “film sociale sarkoziano”. Ed è un eufemismo. Si finge di far pubblicità al sistema giudiziario francese e agli sforzi immani e commuoventi di un magistrato (donna) e di un rieducatore dai femminei soprassalti emotivi (e dei carcerieri, mai così ridicolmente sensibili e comprensivi) per riportare, con faticosa abnegazione, ai sommi valori (la compostezza dei gesti, la paternità, l'ideologia del lavoro) un ragazzino francese di colore bianco (truccato e shakerato come fosse Brad Dourif da cucciolo), disadattato e nevrastenico, bisognoso piuttosto di una buona schiera di psicologi, perché a disagio perfino nella doom, X, no future e black block generation. Insomma. Una scarica di cattive vibrazioni adrenaliniche, addomesticate da uno sguardo paramilitare preoccupante, quello della regista sergente maggiore Bercot che pure ha come film preferito in assoluto Ordet di Dreyer, come droga d'affezione la cocaina (intervista a Le Journal des femmes, 19-9-2013) ed è laureata alla Femis. Cosa ribolle allora di malsano dentro la pancia della Francia?
Sara Forestier e Rod Paradot in A testa alta
L'edizione 68 (13-24 maggio) del più “grande festival del mondo” inizia così molto male, a parte il bel tempo. Alberto Barbera gode (ma intanto prende appunti). Sono stati visionati oltre 1500 di film per sceglierne una cinquantina da glorificare sulla Croisette, tra concorso Certain Regard e fuori gara. Ma già il film inaugurale (visto) e quello annunciato di chiusura, “La Glace et Le Ciel” di Luc Jacquet (virtualmente imposti da un grosso neo-sponsor, il primo perché ben rappresentativo della campagna “Women in motion”, il secondo perché ambientalisti si è anche se capitalisti) fanno capire che il Festival di Cannes sta cambiando pelle nel primo anno dell'era Pierre Lescure (il manager, ex creatore e boss di Canal Plus dal 1984, ora nuovo presidente al posto del critico di cinema Gilles Jacob).
Emmannuelle Bercot, profumo preferito? Muschio
Sono due opere impresentabili o evidenziate molto scorrettamente. Molta stampa e molti critici è sono stati respinti dal film in concorso dell'interessante regista giapponese Koreda, stipato in una saletta minuscola, alla Bazin, mentre nel grande cinema Debussy una sala vuota restava stupefatta e a capo chino di fronte a “A testa alta”. A meno di ritenere questo film una pre-apertura, ricorrendo al trucco della finta inaugurazione, me ne ricordo una con Greggio, che da qualche tempo accontenta, a Roma e a Venezia, i capricci dei partner privati che finanziano ormai tutte le manifestazione d'alto prestigio mercantil-culturale per oltre un terzo del budget. In questo caso la responsabilità è del conglomerato di generi di lusso e accessori Kering (la multinazionale francese di Francois-Henri Pinault, il marito di Selma Hayek, proprietaria dei marchi Bottega Veneta, Gucci, Yves Saint Laurent, Fnac...) e che affianca da quest'anno, con Mastercard, gli sponsor principali di Cannes 68, cioé Air France, Renault, Canal +, L'Oreal, Europcar e Chopard (che fa gioielli, di lusso ed è produttore, per il 40%, di un altro doc presente a Cannes, “La leggenda della Palma d'oro”, che magnifica la qualità dell'oro impiegato per la confezione dei premi, che proviene dalle miniere colombiane e si avvale della certificazione “miniere eque e sostenibili”).

Matteo Garrone sul set di Il racconto dei Racconti
In questo momento all'Hotel Majestic una nutrita schiera di attrici e dive (anche la nostra Jasmine Trinca, la produttrice Sylvie Pialat, Isabella Rossellini) sta lanciando il programma “Women in Motion”, per la valorizzazione del ruolo delle donne nell'industria Naomi Kawase. Di tutto si può però rimproverare Cannes tranne che di insensibilità rispetto all'importanza delle donne nel cinema contemporaneo. In giuria ci sono 5 uomini e 4 donne. E poi ne sanno qualcosa Jane Campion, Alice Rorhwacher e Naomi Kawase. O le due cineaste in gara in questa edizione, Valerie Donzelli e la famigerata Maiween... Madrina della manifestazione femminista è comunque proprio Selma Hayek che giganteggia anche nel cast del primo film italiano, ma in lingua inglese - ormai diventato l'esperanto del cinema visto che è utilizzato anche da Sorrentino, dal messicano Michael Franco, dal norvegese Joachim Trier, dal greco Yorgos Lanthimos, dal quebequoise Denis Villeneuve - presentato in concorso, Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, trasposizione di tre delle 50 fiabe, in napoletano del seicento (reso comprensibile per fortuna dall'inglese), di Giambattista Basile, Cunto de li Cunti, miniera letteraria datata 1636, per i successivi e geniali scrittori di racconti fantastici, dai Grimm a Perrault e ad Hans Christian Andersen.

Il racconto dei racconti di Matteo Garrone
Il regista romano è ormai un beniamino, pluripremiato, della Croisette e certamente non si è avvalso della raccomandazione di ferro di Pinault per essere selezionato da Fremaux. Era molto atteso anzi il suo cambio di marcia, di atmosfera, di stile, di costumi e di ispirazione, rispetto agli aspri e sconvolgenti affreschi sulla “grandezza” della malavita e sugli “orrori” dell'immaginario contemporanei, con non pochi tocchi misogini che inebriarono la “critica d'epoca Shreck”, la cultura alla moda, politicamente scorretta e inguaribilmente “cattivista”. Un film in costume. Un taglio fantasy. Un'opera a episodi come nell'epoca decameronistica anni 70. Pasquale Festa Campanile e Una Vergine per il Principe, anno 1965, è la citazione principale che cogliamo, anche in ricorrenza del cinquantenario. Con Cassel al posto di Gassman, Toby Jones invece di Buazzelli e Selma Hayek alias Virna Lisi. In più una spolveratina di mostriciattoli sparsi, provenienti dal magazzino horror-colto di Cronenberg, tipo “Il pasto nudo”. Non a caso il direttore della fotografia, capace di catturare da ogni paesaggio le tonalità pittoriche scelte dal regista, siano El Greco o Dante Gabriele Rossetti, Caravaggio o Arcimboldo, è Peter Sushitzky, artista delle luci di Cronenberg. La cosa serve anche a confondere , dati i riferimenti culturalmente sicuri, le necessarie incongruenze, ripetizioni, errori, disattenzioni, scene troppo prolungate o troppo ellittiche che una intelaiatura barocca esigono. E qui la citazione è per Sergio Corbucci fine carriera e per le sue imprecisioni geometriche di cinepresa, beccate come Trivia ingiustificabili, da un implacabile Marco Giusti (Il Patalogo).

Selma Hayek, crudele voglia di maternità
Scendono in campo questa volta, e il budget è così alto da coinvolgere nel progetto perfino Jeremy Thomas e riferimenti, da scompaginare, al classicismo horror di Mario Bava e Roger Corman, non sicari spietati, ragionieri del crimine, sadismo da sergenti maggiori, trafficanti di cocaina servili, prostitute nigeriane arrendevoli o schiavi docili di Canale 5, ma i loro archetipi millenari: re crudeli e goduriosi, donne che vogliono rimanere eternamente veline, fortezze sull'orlo del baratro, castelli da film commission, negromanti imprecisi, acrobati generosi, clown sfortunati, orchi indistruttibili, streghe involontarie e sortilegi inspiegabili.

Un grande regista del passato, Don Siegel, affermava che servono “tre soggetti di film per fare un buon film”, e qui sono necessarie almeno tre donne, una ragazzina che sogna l'amore perfetto, una donna che sogna un figlio che non potrebbe avere e una vecchia che sogna la giovinezza eterna, per realizzare un affresco sulla “donna moderna” passiva secondo Garrone, che comunque meglio perderla che trovarla. Women in Motion, anche qui. Ma chi le osserva, non è George Miller, ma è più che perplesso Pulci addomesticate e in metamorfosi mostruosa, donne che partoriscono “tutto e subito”, vecchie capaci di scorticarsi vive pur di imitare quelle pulci, arrampicatrici sociali opportuniste che pur di fare la loro ascesa sociale chiuderebbero un occhio davanti al fatto che chi sposa le ha precedentemente fatte scaraventare nel vuoto.

E' insomma colto anche qui quel “masochismo della sinistra” che manda ai pazzi non solo i politici ma anche gli artisti che hanno rispetto alla costruzione del piacere schermico una fretta sadica, una voglia di cambiamento che irride ad altre strategie di potere più consapevoli e rispettose della memoria (Mencken a questo proposito già fu usato, inascoltato, per dare una calmata a Reagan). Insomma se “metafora barocca” deve essere che sia davvero bizzarra e stravagante, che prenda in contropiede, che spaventi e che terrorizzi, che sia di cattivo gusto, che abbia il primo piano. Barocco è parola che deriva dal portoghese, ed esattamente da “barroco”, che significa perla irregolare. Invece il film è equilibrato, classico e regolare. Non uno “sformatino” a volta acido e indigesto come negli horror comici di Bava e Corman. Sfiorati solamente nelle citazioni.
Vincent Cassel in Il raconto dei racconti