venerdì 28 ottobre 2022
Patafisica del vento. “Bentu” di Salvatore Mereu
Roberto Silvestri
Via col vento, Vento di terre lontane, L’altra faccia del vento… e naturalmente Canne al vento,
Questo vento (Bentu in sardo), protagonista trasparente del nuovo film, didattico-colturale, e a colori vivi, di Salvatore Mereu, modifica il paesaggio, danza tra il giallo intenso dei campi di grano e il blu assoluto del cielo, e produce incanti. Si potrebbe definire il lungometraggio breve di Mereu una perfetta (ma anche atroce) fiaba slow food. Senza principi né principesse. Ma con gli orrori e la morale dei racconti popolari.
Siamo a Sanluri, nel Campidano, al centro della Sardegna. Terre aspre e feconde che producono grani antichi (repellenti all’OGM) e un pane unico, il Civraxiu.
E terra di cavalli e asinelli, di turismo equino, sagre e corse in costume. Nel 1409, proprio in queste pianure, i catalani infransero il sogno di una Sardegna sarda. Ma, ironia della sorte, nessuna delle due nazioni, poi, divenne stato…
Non siamo comunque dentro un’opera “film commission”, anche perché in Sardegna funziona come deve il rapporto tra immaginario e promozione/valorizzazione del territorio, che deve essere obliquo, indiretto, inconscio. Non ci si accontenta qui di cartoline illustrate.
Liberamente tratto da una novella di Antonio Cossu (1927-2002), dalla raccolta "Il vento e altri racconti", Bentu si svolge nella seconda metà del '900. Il cinema contemporaneo ci ha abituato (da Lisandro Alonso a Fabrizio Ferraro, da Tarkovski a Apichapong Weerasethakul) ad andare contro corrente rispetto alle abitudini del telespettatore smanioso di attenzione continua e terrorizzato dai tempi vuoti. Se un film, come suggeriva Pasolini, è un corpo, si cerca di restituirgli la respirazione umana. Ma già negli anni 50 e 60 del secolo scorso l’era del boom economico (per pochi) non si parlava che di sorpasso.
E avanzava possente lo sviluppo industriale nelle campagne, e arrivavano le trebbiatrici meccanizzate ad alleviare la fatica nei campi. Ma nell’Italia democristiana la riforma agraria non ha sbriciolato, se non nei bordi, il latifondo (inebriato di bracciantato a costo zero, e dalla quantità mai dalla qualità del raccolto) né collettivizzato le terre, per la gioia, soprattutto cinematografica, del kolkoz ucraino.
Solo pochi agricoltori indie, dalla vista lunga e di antica sapienza, si battevono istintivamente e anacronisticamente per la difesa della biodiversità e contro l'omologazione dei sapori, l'agricoltura massiva e le manipolazioni genetiche.
Uno di questi presidi involontari è l’appezzamento dell’anziano e burbero contadino Raffaele. E trasmette la sua scienza al suo piccolo, scalpitante e recalcitrante nipotino Angelino: c’è differenza tra sviluppo, che è per il Pil, e progresso, che è per il Pop(olo). E’ Raffaele la modernità, addirittura la fantascienza che già immagina agio e lauti profitti grazie a Kamut, grano Cappelli e Carlo Petrini. Il piccolo Angelino che è anche un vivace pescatore di anguille, e ha già colto il ritmo frenetico del nuovo mondo, non si accorge però che è un falso movimento fare un passo in avanti per poi rischiarne due indietro. E che vanno perciò rispettati i tempi asincroni e dissonanti della terra e i piaceri nascosi dell’habitat. Bisogna saper aspettare il vento, che liberi il grano dalla paglia. E anche attendere il momento giusto per cavalcare. Ma Angelino, coi suoi 10 anni, è troppo smanioso. Accetta di “alzare l’aria”, cioè di sollevare il raccolto di grano da terra con il forcone per separarla dalla paglia pur di ricevere, come premio, il permesso per l’agognata cavalcata che lo farà uomo prima degli amici.
Naturalmente non raccontiamo il finale del film. Ma non c’è bisogno perché il film di Mereu è giù dentro una fiaba sul significato dell’arte, che Viktor Skovskij ruba liberamente alla raccolta indiana di racconti Hitopadesa e riprende in La mossa del cavallo (1923) e che sembra profeticamente anche parlare all’Italia di Giorgia. Immaginate che il piccolo e impaziente Angelino sia diventato il contadino protagonista di questa storia.
“C’era una volta in un regno lontano, un contadino. In autunno mieté il grano, si mise a trebbiarlo e intanto bestemmiava. Passa un vecchio e gli dice: “Perché bestemmi, perché contamini l’aria pura? Non basta la capanna per bestemmiare?
E il contadino: “Come faccio a non bestemmiare? Il raccolto è pessimo. San Nicola ne ha combinata un’altra delle sue; quando ci voleva la pioggia ha mandato bel tempo e quando c’era bisogno di sole ha mandato il gelo. Ma il vecchio era San Nicola in persona. Si offese e gli disse: “Be’, se non t’accontento del tempo, ti darò l’autodeterminazione; eccoti il mandato così il tempo te lo fai da te. Il contadino si rallegrò e si mise a organizzare il tempo a modo suo. Ma quando in autunno fece il raccolto trovò che era brutto, bruttissimo.
Eccolo che trebbia e bestemmia, e bestemmia tanto che i cavalli che arrancano per la strada storcono il muso.
Passa San Nicola e ride:
-Come va il raccolto?
Il contadino bestemmia così forte che le nuvolette di passaggio fanno “ah!” in cielo.
- E’ forse un raccolto questo?
- Be’ raccontami come hai organizzato questo tempo.
Il contadino racconta tutto punto per punto.
Il Santo ride:
- E di vento ne hai fatto?
- Perché mai, il vento non fa che scompigliare il grano.
- Il vento ci vuole; senza vento non viene fecondata la segale né il grano. Scommetto che non hai fatto neppure un temporale.
- No.
- Occorre anche il temporale.
Allora il contadino ci pensò su e disse al Santo.
- Sai che ti dico: fallo tu il tempo.
E il Santo di rimando:
Hai fatto proprio come la gente in Italia che poi è diventata idiota.
- E cosa hanno fatto in Italia per diventare idioti? – chiese il contadino.
- La gente che viveva in Italia (o forse in Giappone?), cominciò ad accorgersi da sé, o forse se ne accorsero gli altri, che diventava più sciocca di giorno in giorno, e d’estate, con l’ora legale, anche tre ore in anticipo. Interrogarono i medici e quelli, dopo molte faticose ricerche, scoprirono l’enigma: quegli italiani mangiavano il riso brillato (o il grano tenero?), mentre il nutrimento indispensabile per il cevello si trova bensì nel riso ma soltanto nella pula.
Allora un medico disse:
- E’ inutile inventarsi il cibo. Non si può prevedere tutto. La gente diventata idiota per non aver mangiato le glumelle del riso assomiglia all’uomo che si è dimenticato del vento…
La morale della fiaba per Sklovskij è che si finanzia, si regolamenta, si giudica l’arte senza sapere cosa sia. “Noi russi trascuriamo l’arte come le glumelle del riso”. L’arte non è uno dei tanti mezzi di propaganda. L’arte adesso viene regolamentata come il movimento dei treni, invece bisognerebbe permetterle di muoversi organicamente, come fa il cuore nel petto dell’uomo. La volontà di strafare conduce al disastro. Lasciate libertà all’arte, non in nome dell’arte ma perché non si può regolamentare ciò che non si conosce. Non a caso Enrico Ghezzi chiamò la sua rassegna ‘filosofica’ di Procida “Il vento del cinema”.
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