mercoledì 9 ottobre 2019

Pordenone 38. Siamo qui soprattutto per studiare attentamente le buffonate


Roberto Silvestri 



La star Marion Davies (a destra) fa l'uomo in Beverly of Graustark di Sidney Franklin 1926


L'attore nglese Reginal Denny, pugile, inventore e divo comico degli anni Venti
Pordenone
Ci sono i festival star-system e i festival studio-system. Qui alle Giornate del Muto le celebrities non ci sono più (c'erano ancora quando si cominciò, 38 anni fa...) e dunque si studia il cinema.
Si chiamano anche festival di ricerca, come era Pesaro come è I mille occhi (a proposito auguri a Sergio Grmek Germani di pronta guarigione, vediamo che si è ripreso, alla proiezione di Frammenti di un impero, di Fredrik Ermler, URSS 1929, questo martedì sera non poteva mancare!). Però ci si diverte anche molto. Mai sentito infatti un pubblico,anzi tanti spettatori consapevoli provenienti da tutto il mondo (circa 1000 gli invitati), così vivace e partecipe. Nessun cellulare acceso, o comunque sempre gentilmente nascosto al vicino. Applausi sempre, a ogni fine programma. Se non altro perché ci sono i musicisti in sala che si esibiscono (benissimo), da soli in band o in orchestra, come in un auditorium da concerti. La sensazione è di stare all'Hermitage o al Louvre che espone opere d'arte cinematografica. Ma non solo. Sembra anche di stare all'antologhy film archive, perché molti dei film che vediamo li vede l'umajnità per la prima volta, perché a forza di ricostruire, torvare i pezzetti censurati di qua e di là per motivi opposti per la prima volta si vedono i film pensati dai registi e non dagli apparati di otere. Insomma qui si vedono davvero prime anteprime mondiali!
Si dice a ragione che a Pordenone molti luoghi comuni tramandati dalle storie del cinema ortodosse vengano cancellati per sempre. Non si tratta solo di rendersi conto che il cinema non è mai stato muto né in bianco e nero. E che come scrive Mereghetti oggi sul Corriere (più attento di Repubblica ai fenomeni culturali importanti, qui alle Giornate una troupe brasiliana sta addirittura girando un film sul festival!) a proposito del film di Ermler “Frammenti di un impero” che anticipa di parecchio Goodbye Lenin!: “niente di nuovo si inventa”. Si viene qui per scrivere l'altra storia del cinema, capovolgere gerarchie, ed esigere che ciò che è stato per decenni censurato e nascosto torni in vita. Sia finalmente risarcito.
Abbiamo capito perché un bel film di Robert Vignola “The moment before” del 1916 non è mai stato visto in Italia. La censura del 1922, già fascista, quando il film richiese il visto, disse no perché non era ammissibile alcuna promiscuità razziale. Il melodramma d'amore coinvolge infatti un bizzarro e anticonformista rampollo dell'aristocrazia (oltretutto deviante perché ribelle e beve pure troppo in pieno proibizionismo, ed è l'eroe) e una zingara d'accampamento con tanto di pelle scura e vestiti gitani (ed è l'eroina) costretta dalla violenza della tribù a sposare un bruto. I due sono anche assassini. Lui almeno lo crede e lei ha sparato davvero, ma per amore, al marito. I due sono anche filantropi che faranno del bene ai poveri per tutta la vita. Non solo, Vignola lancia anche frecciatine perverse contro la chiesa cattolica che approfitta dei sensi di colpa dei fedeli più sinceri per accaparrarsi le loro ricchezze, subdolamente. Insomma tra w l'alcool w l'antirazzismo e abbasso il Vaticano dell'epoca marianae dei Pii, non si può dire che via della Ferratella (o come si chiamava allora il minculpop, ministero della cultura popolare) si sia comportato mussolinianamente in modo scorretto.

Reginald Denny (a sinistra)
Altro esempio. Quest'anno il punto focale della rassegna è lo studio della comicità anarchica europea (erede di millenarie tecniche del riso, anche yiddish e medioorientali) per comprenderne meglio la sua metamorfosi hollywoodiana (The Kid, Reginald Denny, etc). Insomma il filo che collega e divide molti comici del nostro continente, dai clown a Lubitsch, da Laurel a Linder, da Chaplin a Reginald Denny (di cui non avevamo mai sentito parlare prima di Pordenone 38). Da una parte il repertorio di gag del comico e dall'altra la più complessa struttura di commedia. La slapstick, tutta azione vorticosa e parola svitata da una parte e la “commedia sofisticata”, tutta giocata sulla serietà massima con la quale si affronta la situazione più assurda, illogica, farsesca  e paradossale, dall'altra.
Le nasty girls, le gags, i comici eleganti o straccioni, le torte in faccia, le cadute, gli scherzi, le eccentricità a ripetizione, la tradizione antichissima del duo grasso/magro e stolto/finto colto .... insomma quella che poi ritroviamo in Stan Laurel e Oliver Hardy di The Duck Soup. E le pagliacciate a ripetizione che durano poco ma fanno ridere molto devono diventare altro se si passa al lungometraggio dotato di una struttura più complicata e psicologie meno primordiali e poi al film parlato. E comunque non si devono mescolare i generi, non ci si può sovrapporre. Jerry Lewis  con Dean Martin è una cosa, Jerry regista un'altra. Non si può fare commedia sofisticata esagerando nelle pagliacciate continue perché già la situazione che si descrive nella commedia è “al limite”, assurda, paradossale. E' questo l'insegnamento che Reginald Denny, star dell'Universal negli anni 20, consegna al suo successore dell'era parlata, il connazionale Cary Grant, polemizzando con il suo primo regista di studio, Harry Pollard, che vorrebbe esagerare nelle scemenze a ripetizione (Oh Doctor, con una bellissima Mary Astor giovane) mentre impone a Carl Leammle un più misurato e raffinato regista, William Seiter (di What Happened to Jones) per rendere il divertimento più sottile ed efficace, meno puerile e più, appunto,'sofisticato'. Sarà Cary Grant con un inglese meno radicale di quello di Denny a ottimizzare il percorso assieme a Hawks e Katharine Hepburn. La faccenda non è solo estetica è anche etica. Per combattere le dittature europeee occidentali e le loro culture democraticamente autoritarie e fasciste, dunbque portatrici di valori davvero eccentrici e paradossali nno c'era nessuna arma di distruzione di massa così efficace e potente come l'umorismo hollywoodiano. 

Reginald Denny
Insomma quest'anno si analizza seriamente il buffo, i buffoni e la loro pericolosità. La comicità europea d'inizio 900 che diventerà scienza seriale a Hollywood. La tradizione circense, vaudeville e di farsa popolare da strada che poi da slapstick comedy effimera, con inseguimenti al cardiopalma di poliziotti perennemente beffati, entrando in metamorfosi consegnerà alla 'commedia sofisticata'.
Si radiografa anche il trapasso dal cortometraggio al lungometraggio. Passaggio possibile, industrialmente, solo dando alle banche che anticipavano i capitali garanzia di tenuta di tutta la macchina attraverso un prodotto differente da quello che fino al 1914-1915 aveva permesso all'oligopolio Biograph-Vitagraph di dettar legge esclusivamente con il corto, e possibilmente senza star. Come si passa dall'inglese Reginald Denny all'inglese Cary Grant che decide lui con chi e come fare i film? Come Charlot "il francese" diventerà Chaplin regista di lungometraggi? Come fanno Oliver Hardy e l'altro inglese Stan Laurel a resistere al passaggio cinema muto-cinema sonoro senza disturbare il pubblico americano che detesta l'accento Oxford almeno quanto l'accento cockney? Perché Ernst Lubitsch di cui vediamo la farsa “sbagliata” del 1914 “L'orgoglio della ditta”, che lo vede protagonista (ed è già un personaggi di commesso di moda costruito come avrebbe fatto Jerry Lewis) ma non regista (è d Karl Wilhelm) dovrà andare in California, letteralmente spintonato da Mary Pickford, per sprigionare davvero tutta la sua potenza comica sovversiva? Perché il razzismo congenito nelle società aristocratiche e assolutiste dell'Europa pre -bellica (e figuriamoci post bellica) non può sopportare una commedia nella quale i modelli di bellezza e di etica non siano caucasici e ariani e il senso dell'umorismo yiddish già tutto collegato alla tecnica di sopravvivenza economica, appare scandaloso all'ipocrisia cattoprotestante?
Su queste domande il direttore Jay Weissberg ha costruito il bellissimo programma 38.
Ricordiamo che Reg Denny, pugile professionista peso massimo (ha utilizzato abbondantemente questa sua arte secondaria nei film) è stato anche un ingegnere esperto in modellistica, anzi i suoi esperimenti hanno contribuito alla costruzione di droni militari adottati perfino durante la seconda guerra mondiale. E nella sua industria, la Radioplane Company, che produceva soprattutto aerei telecomandati per ragazzi, ha lavorato una giovanissima operaia di nome Norma Jean Morrison, la futura Marilyn Monroe.
Marion Davis
Marion Davies, raffigurata a colori nel poster dell'edizione 2019, è la protagonista di una eccellente commedia romantica da operetta mitteleuropea, a forti striature sofisticate, e brani girati a colori, diretta nel 1924 da Sidney Franklin, Beverly of Graustark, e il set le è particolarmente caro perché per tutto il tempo sembra di stare, sala da pranzo soprattutto, nel castello medievaleggiante e un po' cupo del suo magnate amante, Mister Hearst, presso Cambria, California. Il film è molto inquieto perché è uno dei primi concentrati sugli equivoci nati dal cambio di sesso e di vestiti. Il cross-dressing, lei si veste da uomo, per conquistare un trono, e poi si dovrà "travestire" da donna, per conquistare la sua guardia del corpo (la parodia, in anticipo di qualche anno, però, è di Marlene Dietrich, zarina di nome Caterina nel film di von Sternberg) provocando lo stesso effetto che fa Stan Laurel quando in The Duck Soup è costretto a travestirsi da cameriera, turbatissima quando la padrona nuda le chiede di massaggiarle la schiena. E' un altra situazione proibita nel cinema europeo delle dittature razziste, sessuofobe e assai turbato da ogni accenno gender negli anni venti e trenta. E proprio sul cross dressing probabilmente Weissberg potrebbe costruire nei prossimi anni una riflessione più approfondita. 
Marion Davis mezzouomo e mezzodonna in Beverly of Graustark


ps. In "Oh Doctor", l'ipocondriaco Reg Denny guarisce alla sola vista della infermiera Mary Astor. Colpo di fumine.  Ma essendo un ragazzotto (somiglia nel film un po' a Harold Lloyd e un po' a Paolo Fabbri) che ha paura di tutto, perfino delle bistecche, è convinto di morire da un momento all'altro, e soprattutto non sa proprio come comportarsi con le donne, per guarire chiede alla sua cameriera scatenata e danzerina quali sono le qualità che servono per conquistare le ragazze. Sono 4. 1. Guidare la macchina. 2. Saper ordinare a cena. 3. Saper ballare e 4. Non avere paura di niente. Inizia allora un indiavolato esperimento su stesso e la sua capacità di mettersi all prova. Guida bolidi da corsa inautodromo (ma contromano), la motocicletta senza averla mai presa in mano e decide di dipingere il pennone di un grattacielo sfidando il suo terrore delle vertigini. Ma chi è più terrorizzato di lui sono 3 banchieri (sui quali John Landis si baserà per i cattivi di 48 ore) che gli hanno prestato 100 mila dollari in cambio dei 750 mila che riceverà in eredità tre anni dopo, a meno che non muoia prima....   

martedì 8 ottobre 2019

Pordenone 38. Le Giornate del cinema muto ovvero Back to the Future


Roberto Silvestri, da Pordenone

Marion Davies nel poster di Pordenone 38
Giornate del cinema muto numero 38. Fino al 12 ottobre.
Una festa unica che si svolge quest'anno dal 5 al 12 ottobre nel teatro Giuseppe Verdi, restaurato anzi rifatto ex novo e molto male, trasformato in una specie di gigantesco Vespasiano di marmo bianco, durante la gestione cittadina della Lega di una volta.
Al primo piano del teatro poster, merchandising, rarità bibliografiche e dvd del cinema muto, introvabili altrove. Ho comprato un Protazanov a 16 euro. Gvozd' v sapage. Del 1932. Censuratissimo da Stalin perché prendeva in giro, fin dalle scaturigini, i processi stalianiani diretti da Andrej Januarevic Vyzinskij. Qui si svolgono le presentazioni dei libri e dei progetti che riguardano il 'silent movie'. Mercoledì Marco Giusti presenta il suo lavoro su Polidor e Polidor, ovvero un saggio che costa 20 euro su un grande clown e comico delle origini, Ferdinand Guillaume (1887-1977) che con Fellini girò Le notti di Cabiria e La Dolce Vita, e sul fratello Edouard,
Perché il clima di Pordenone è diverso dagli altri?
Non è solo un appuntamento (tra i più prestigiosi del panorama italiano cinematografico, se non il più autorevole) diretto da un americano a Roma, Jay Weissberg. Rispetto al predecessore inglese, lo storico David Robinson, il giornalista di Variety ha abolito completamente le lunghe o brevi presentazioni dei film serali, consegnando tutto quel che c'è da dire sui singoli film, sulle specifiche cinematografiche e sui “movimenti” e le sezioni al catalogo (13, 14...), ricco e esaustivo.
Ma è proprio l'unico “festival” che si svolge in Italia nel quale la lingua principale è l'inglese.
Un meeting e un melting pot di specialisti che vengono da tutto il mondo, restauratori, filologi del cinema “primitivo”, prima che di appassionati e di storici generici e di critici e di pubblico che comunicano con la lingua mondiale. Qui al bar, tra un bicchiere di bianco e l'altro, prima di pranzo, due anziani del posto col Gazzettino in mano parlano di.. cinema e non di contanti o carte di credito?. “C'è un film bellissimo”.... “Dove, al cinema muto?” “Ma che cinema muto! a Cinemazero... con quell'attore di cui parlano tutti... bravissimo.... ah si Ad Astra... mi hanno detto che è bellissimo”. Tutto in dialetto. Sorprendente.
Il cinema muto, a lungo andare, fa benissimo anche al cinema sonoro... E lo rende anche più comprensibile. Venendo qui scopriamo che le idee iconiche che credevamo moderne sono invece antichissime. Sguardi in macchina e a colloquio con lo spettatore? Ben prima di Billy Wilder e J.-L. Godard ritroviamo il vezzo brechitiano in Il bacia cuoio cioé The Leather Pusher di Harry A. Pollard con Reginald Denny (Usa, 1922), gentleman boxeur costretto ai guantoni dopo il crack finanziario del padre miliardario. Il suo manager, a dieci minuti dall'inizio del film, racconta la trama a chi è arrivato un po' tardi allo spettacolo... Questo Reginald Denny, bellezza charmant, è una star dell'epoca muta che ha avuto anche tanta parte nella storia dell'industria bellica, perché ha inventato cose ingegneristiche che più tardi sarebbero state utilissime per costruire i droni. Il rapporto tra cinema e ingegneria non si limita dunque alle scoperte radar di Hedi Lamarr o alle origini universitarie di Alfred Hitchcock...
Prendiamo poi In the sage brush country di William S. Hart, il primo grande cowboy di Hollywood. Il cattivissimo, una sadica 'jena ridens' messicano, rapinatore con tanto di sombrero, rapisce la bella ariana e la vuole concupire. Lei si barrica, lui prende l'ascia e sta sfondando la porta, proprio come Jack Nicholson in Shining. Kubrick era molto più colto visivamente di quanto potevamo immaginare. Arriva l'eroe Hart (che in realtà vuole liberarla, ma per rapinarla...) e.... Il film è del 1914. L'eroe è sempre inizialmente non un 'senza macchia e senza paura', ma proprio un fuorilegge che si caracolla con il suo gilé fantasia (Marilyn Monroe non a caso farà una frecciatina contro Hart in Quando la moglie è in vacanza), un rapinatore o un criminale inferocito e incarognito dalla malvagità generale, che poi ritrova sempre un surplus di umanità in più. Rispetto ai buoni ipocriti e ai cattivi inguaribili che lo circondano, siano donne di malaffare e traditrici dagli occhioni prensili o loschi individui incrociati nei saloon che vogliono solo raggirarlo. Sarà l'unico, lui e il suo fido, velocissimo cavallo pezzato King, capace di farsi ipnotizzare dal messaggio che angeliche creature ingenue, in genere adolescenti bionde, candide d'espressione e di bianco vestite, sanno trasmettere. E' quello che succede in “The aryan”, del 1916, notare il titolo, piena epoca Nascita di una nazione, nel quale in nome di istanze patriottiche (la guerra anche commerciale contro il Messico) si riappropria della sua identità wasp e tradisce i suoi complici criminali che sono tutti brutti, ispanici e indiani. Non c'è che dire, Hart è proprio il simbolo dell'imperialismo razzista senza vergogna In un bellissimo corto sonoro e a colori del 1939, “Tumbleweeds” di William Berke, Hart, ormai anziano, ma sempre vestito da cowboy, rievoca la grande corsa alle terre rubate ai Coman
che dal governo Usa nonostante patti e contropatti. Prima quelle terre appartenevano agli indiani. Poi Washington le ha date agli allevatori e nel 1889 a chi, bianco e cristiano, voleva prendersele, semplicemente decidendo che le avrebbe coltivate e che avrebbe costruito lì sopra la casetta dei suoi sogni difendendosi con pistole e fucili dagli avidi gruppi finanziari in cerca di petrolio o di speculazioni ferroviarie. E lo dice candidamente, senza rendersi conto dell'orrore. JohnWayne avrà la stessa faccia tosta e ruberà le sue stesse due espressioni, col cappello e senza. Ma come sono ineguagliabili e artisticamente complesse quelle due espressioni. Non c'è neppure bisogno del trucco agli occhi, sopra e sotto, quel nero utilizzato per affidare all'espressione dello sguardo il tragitto narrativo di tante sequenze mute.
Dicevamo atmosfera unica. Piuttosto calorosa, anche per sottolineare gli accompagnamenti musicali, non più solo il pianista solista ma spesso piccole band, di raffinatezza inusuale. Qui non ci sono claque, uffici stampa obbligati ad applaudire calorosamente, né interviste da piazzare, purtroppo.
Dicevamo del programma, fittissimo, di questo numero 38. Una cinquantina gli appuntamenti cinematografici, divisi in quindici sezioni. Quelle personalizzate, oltre a Hart e Reginald Denny riguardano Mario Bonnard, ovvero i giri europei di un cineasta italiano dopo la grande crisi della nostra industria per colpa della grande guerra; le super star francesi Mistinguett (le gambe più “assicurate” della storia, ma anche le mani erano di rara potenza seduttiva) e Suzanne Grandais. Oltre alla prosecuzione della monografia John Stahl.
Una riguarda una cinematografia nazionale poco conosciuta e interessante, l'Estonia.
Quattro sono invece più storico-critiche: lo “slapstick europeo”, ovvero il contributo comico del nostro continente, e soprattutto dei clown e dei surrealisti gestuali di Francia e Inghilterra, alla nascita della grande comicità “Chaplin-Keaton-Lloyd “; la “pubblicità nel muto” ovvero come si facevano gli spot attorno alla prima guerra mondiale; i “corti del cinema di Weimar”, che aiutano a comprendere meglio un periodo molto complicato della storia tedesca e del suo immaginario. E i “film sul cinema” ovvero come già in epoca 'sorda', si producevano documentari per raccontare i retroscena artistici e industriali della messa in scena, come funzionava uno studio system e il sistema di censura e anche come francesi, tedeschi e inglesi glorificavano il proprio ingegno secolare documentando il contributo specifico, artistico e scientifico, alla nascita della settima arte, tornando indietro nel tempo fino al XVII secolo e alle Lanterne Magiche, per poi passare a Reynaud, Grimoin-Sanson, Marey, Gaumont, i Lumiere e Muybridge, Edison...
Una, di interesse più strettamente museografico, riguarda i tesori dell'Archive de la Planete, ovvero della collezione fotografica e documentaristica parigina Albert-Kahn. Infine le sezioni tradizionali del festival: il Canone rivisitato, cioé la riproposizione di grandi classici (come il Faust di Murnau con un Emil Jennings che spiega a Joaquim Phoenix e perfino a De Niro che c'è modo e modo di strafare e che si può andare anche oltre le righe, ma bisogna essere sempre diabolicamente e subdolamente sorprendenti mai compiaciuti di sé), le riscoperte, i ritratti (Keaton) e gli eventi speciali, che sono gli appuntamenti popolari di grido, per i film celebri o spettacolarmente stuzzicanti, accompagnati dalla grande orchestra, quest'anno: The Kid di Chaplin del 1921; Carmen jr. di Alf Goulding satira esilarante dell'opera di Bizet con la piccola Baby Peggy Montgomery (Usa, 1923); The Lodger di Hitchcock inglese, Dogs of war di Robert F. McGowan (Usa 1923) e Fragment of one Empire di Fridrik Ermler (Urss1929) che, a proposito di furti contemporanei, è il film famoso per il Cristo in croce con la maschera anti gas, e racconta la storia di un sottufficiale che ha perduto la memoria nella grande guerra e che si ritrova dieci anni dopo e a memoria ritrovata in una San Pietroburgo diventata Leningrado e in una Russia ex zarista, ora socialista, costruttivista e avanguardista. Ricorda qualcosa? Goodbye Lenin del 2003, e del post DDR, no?
Tra i film più sorprendenti visti nei primi giorni vogliamo ricordare un “documentario ricostruito”, realizzato in perfetto stile 'terzo cinema' nel 1918 dall'argentino “bianco”, lo scrittore progressista Alcides Greca, El Ultimo Malon, sulla feroce repressione di una insurrezione indigena del 1904. Poveri, sfruttati, umiliati e senza terre dopo la rapina coloniale, un migliaio di indios Macovi, dopo essersi sbarazzati di un capo asservito, attaccarono armati alla meno peggio la città di San Javier, nella provincia di Santa Fé, sicuri che dopo i riti propiziatori sincretici, “le pallottole del nemico si sarebbero trasformate in fango”. Non fu così. Oltre 50 i morti. Una storia autentica nella giungla del Chaco narrata assieme agli stessi reduci della insurrezione. Senza pietismi né paternalismi.
Il film cinese e nazionalista del 1932 (il sonoro in alcuni paesi è arrivato tardi) La lotta, Fen Dou di Dongshan Shi, ambientazione Shanghai, qualità fotografica stupefacente (di Zhou Ke) che a parte la romantica e struggente storia d'amore puro tra un operaio bello, onesto e virile e Rondinella, una orfanella sedicenne, ostruita dalle gelosie del violento padre adottivo di lei e da un lussurioso e corrotto amico di lui, e il richiamo patriottico alla lotta antigiapponese dopo l'invasione della Manciuria, propone interessanti lezioni morali alla Lu Shu, e una alta qualità visuale, tra urnau e Pudovkin, affidata a movimenti di macchina di grande potenza emotiva e alla scenografia verticale, quasi una la grafica della 'lotta di classe', con i ricchi sfruttatori ai piani alti e giù gli operai e più giù i contadini, portatori però di valori tutt'altyo che passatisti. Per esempio il professore di origini contadine polemizza con le vecchie idee, per esempio con l'antico detto (confuciano?) di farsi i fatti propri, e interviene con astuzia e violenza per impedire ogni sopraffazione e sfruttamento ai danni di chiunque.
Naturalmente uno dei momenti magici del programma è quando sfilano le “dirty women” d'inizio novecento, le cameriere in sciopero violento e perenne, le ragazzine che non accettano un destino simbolicamente e praticamente subalterno: le Cunegonde, le Rosalie e soprattutto Leontine, con la sua grinta dadaista e distruttiva, da suffragette a tutto campo, capace di trasformare salotto, cucina, strade, negozi e commissariati di polizia in un quadro action painting ante litteram.

mercoledì 11 settembre 2019

Mostra di Venezia 76. Commento ai premi, e altro Sole, Nevia e Effetto Domino


Roberto Silvestri
J'accuse di Roman Polanski, gran premio della giuria


L'ufficiale di artiglieria franco-ebreo Dreyfus, alla fine del film di Polanski J'accuse, davanti al nuovo primo ministro Georges Picquart che, difendendolo - nonostante un antisemitismo mai celato - ha fatto la più brillante delle carriere politiche, liberandosi uno dopo l'altro dei suoi spergiuri rivali, e non meno conservatori di lui, gli ribadisce che la liberazione dal carcere non basta a risarcirlo dei danni inferti dai generali clericali alla sua carriera militare... Ma Picquart non muove un muscolo. Che si accontenti, l'ebreuccio. Lo stesso atteggiamento della giuria che con sei voti su sette ha premiato con il Leone d'oro un mediocre Joker, tutto un montaggio di scene madri simil main street e interpretato da un Joaquim Phoenix lasciato libero di esibire tutti i suoi super poteri recitativi, immensi, ma come se si trattasse del booking di un principiante. L'ubriaco, il drogato, il pazzo scatenato, il celebro leso.... su questo terreno Franco Maresco è un dio. E allora? Solo un premietto?
Il finale del film di Polaski è agghiacciante, molto polemico e disperato, altro che l' happy end frainteso dal recensore-stroncatore di Variety, Owen Gleiberman, in una delle ricensioni che un tempo gli sarebbero costata il posto (perché è politica, ideologica, moralista...). Per Variety infatti è importante giudicare solo il potenziale di mercato di un film e spiegarne la presumibile gittata (ha ambizioni da blockbuster? È limitato al circuito d'essai? E solo per i festival d'arte? Giro grosso, giro marginale, mercati europei, università, gallerie d'arte? etc...). E scrivere sprezzantemente, come fa Gleiberman, che si tratta di un “wikipedia-movie” prché lui separa l'uomo dall'opera ed è l'opera una oscenità, non vuol dire nulla. Ci sono voci su wikipedia che potrebbero essere sceneggiature perfette (vedi quella dedicata a Aldo Braibanti).
Sembra proprio, quella scena finale, il commento finale ai premi della settantaseiesima edizione di un festival d'arte cinematografica che tra le sue vittime non conta soltanto Cristiana Paternò e Teresa Cavina, finite sulla sedia a rotelle per incidenti al Lido, in bici e a piedi, ma anche Roman Polanski che non ha vinto un meritato Leone d'oro o Mario Martone il cui lavoro su Edoardo meritava qualche riconoscimento. O Adam Driver. O la sceneggiatura di Baumbach o Soderbergh (giustamente Yonfan ha ironizzato per il suo premio solo obliquamente azzeccato). Il gran premio della giuria a J'accuse (assegnato di solito personalmente proprio dal presidente della giuria) sta a dimostrare che il pregiudizio di Lucrecia Martel rispetto a Polanski non è cambiato nei giorni della Mostra. Ma per mettere fine a ogni polemica sul suo frainteso (assicura lei) intervento di apertura alla Mostra, ecco arrivare un riconoscimento consolatorio. Strano. Martel è una regista eccellente, sperimentale e coraggiosa. Strano che non capisca che Polanski sia proprio tra gli iniziatori, nel 1969, del movimento “me too”, quando un femminicidio lo ha dolorosamente colpito, quello della moglie, e quando i media bigotti del mondo cominciarono a torturarlo indicandolo come il responsabile morale dell'omicidio Sharon Tate perché il suo 'satanismo' esplicito (in 'Rosmary's Baby') aveva sconvolto le menti oneste dei bravi ragazzi americani che ne erano usciti traumatizzati (un po' come gli italiani di fronte alla scena del burro di Ultimo tango a Parigi?). La persecuzione contro i due registi sessantottini doc cominciò allora. Prima del caso Geimer.
Intanto la stampa anglosassone (e italiana) continua il martellamento: “fugitive, disgraced, convincted rapist Polanski wins a prize”... e da noi si continua a usare la parola “stupro” per delocalizzarla e deviarla dai casi davvero inquietanti, seriali e frutto di uso distorto del potere (Weinstein, il presidente Trump, i mille casi di violenze sessuali domestiche...), proprio mentre Samantha Geimer, che fu la coprotagonista di quella controversa avventura sessuale, perseguitata dal tribunale di Los Angeles con ostinata e inquietante determinazione, per il reato di “corruzione di minorenne”, o “atti illeciti quasi tutti consenzienti su minore”, continua a prendere le distanze dalla campagna di linciaggio contro il cineasta franco-polacco di 83 anni e twitta: “Per quelli che mi insultano e mi usano, che twittano sul mio “statutory rape” prescritto dalla legge come se fosse porno, eccitati dall’uso di parole volgari. Congratulazioni a Roman. Mi dispiace per entrambi che il livello di corruzione del tribunale di Los Angeles sembri non finire mai». Dunque sostegno sincero, al regista polacco. Interessante questo accenno alla corruzione del tribunale di Los Angeles. Si tratta proprio di un affare interno a Hollywood. Polanski deve aver sconvolto nel profondo l'immaginario del cinema se la persecuzione continua così implacabilmente. Ci sono molti tipi di crimini sessuali e il nostro semplificare nella traduzione “statutory rape” con “stupro” dimostra come le fake new nascono per ignoranza e poi si diffondono implacabilente e involontariamente. Secondo la legge della California con “statutory rape” si intende che un adulto non può avere rapporti sessuali, anche se consenzienti, con un minore. Non solo. Un minore non può avere rapporti sessuali con un minore. E' lo stesso reato. Dunque non si dovrebbe banalizzare né equivocare. Non stupro, Ma statutory rape.


Tra i premi “minori” assegnati dalle giurie delle sezioni Orizzonti e delle Giornate degli autori, ricordiamo l'impressionante film guatemalteco La Llorona di Jayro Bustamante (che in questi giorni è a Toronto), sui morti viventi romeriani vendicatori del generale-dittatore Efrain Rios Mont per i massacri pianificati negli anni ottanta, anche contro la popolazione civile, donne vecchi e bambini. Il dittatore agì per ordine di Reagan e perché andava fermata la guerriglia comunista che si era rafforzata tra le popolazioni più povere, i maya, ma la repressione si trasformò a poco a poco in un genocidio terrificante (molto documentarismo indipendente statunitense raccontò “in diretta” anche quei crimini contro l'umanità, oltre a quelli perpetuati in Nicaragua e San Salvador, Honduras e Panama, e il presidente Clinton è stato costretto a chiedere scusa formalmente per quegli orrori nazisti ai concittadini di Asturias e Riboberta Manchu'). Il generale Rios Montt fu condannato solo nel 2013 e dopo un processo nel quale centinaia di testimoni raccontarono le orribili pratiche di tortura e sterminio contro gli inermi contadini e le loro famiglie. Ma la corte suprema del paese annullò pochi gironi dopo la condanna suscitando proteste di piazza furiose, Il dittatore morì l'anno seguente a casa sua. Bustamante immagina, tra Roma di Cuaron e Zombi due di Fulci, gli spettrogrammi di Amenabar e i docuemntari sulle madri di plaza de majo, che siano stati proprio i fantasmi vendicatori delle leggende sudamericane ad avere perseguitato negli ultimi mesi di vita il generale (che nel film si chiama Enrique Monteverde) e sua moglie, e in particolare una giovane tata Alma, incarnazione del fantasma La Llorona, che nella leggendaè uno spettro acquaceo che produce suoni terrificanti e terrorizza i viva risvegliando i morti. E' lei che entra nei sogni e negli incubi della abietta coppia di tiranni venduti allo straniero e, mentre il popolo circonda la villa maledetta proprio come fosse quella di Dracula, con interminabili urla grida slogan suoni e musica (il ritmo è da Art Ensemble of Chicago, molto free jazz) nessun guatemalteco onesto si sporcherà le mani per fare giustizia. Gli spettri sanno sempre come risolvere le grandi questioni aperte della storia con tecnica marxista. Sono le contraddizioni interne alla borghesia che la condurranno a morte certa.

Sole di Carlo Sironi 
Sono state premiate anche due opere prime italiane interessanti e fuori schema, presentate in sezioni minori della Mostra, Nevia e Sole. Il primo diretto da Nunzia De Stefano e il secondo dal figlio di Alberto Sironi,Carlo. Periferia di Napoli, il primo, ma inedita: quella dei container e dei prefabbricati che sono ancora lì, decenni dopo il terremoto, a umiliare l'esistenza dei proletari e sottoproletari che hanno più difficoltà a campare senza delinquere. Una ragazza potrebbe svoltare con l'aiuto di un piccolo boss che la ama non riamato. Lei preferisce gli ippopotami e i clown di un piccolo circo di provincia, come se fosse in un film di Maria Luisa Bemberg, anche se non c'è il Marcello Mastroianni a portarla via con se'.... E il secondo ha per set una località di mare fuori stagione qualunque, dove Ermanno giovane, no future, malato di videopoker deve fare da guardia per soldi a Lena, una ragazza polacca che, anche lei solo per soldi partorirà un figlio, lo lascerà a una famiglia danarosa e se ne tornerà poi a casa. Questi i paesaggi di un' Italia socialmente e moralmente trascurata o non rappresentata, che i cineasti raccontano con delicatezza, pudore, compassione, indignazione ma anche tifo, perché entrambi creano linee di fuga, speranza, ipotesi di contropiano esistenziale. Insomma i due cineasti si rifiutano di fare spettacolo compiacendosi della degradazione genralizzata che tanto è di moda. Non si tratta di contrapporre eroi ai malvagi. E neppure di isolare i meno cinici e dargli luce propria. Ma di registrare un rifiuto dello standard televisivo, del format prefabbricato (di prefabbricati ne abbiamo abbastanza a Napoli e nelle Marche, nell'Umbria e negli Abuzzi), del sistema emozionale consentito. In questi film i fuck you arrivano sempre al posto giusto, non al posto obbligato. 

Nevia di Nunzia De Stefano 


TIFF 2019

Intanto è iniziato Toronti, il Tiff. E scrutiamo tra i film che non erano a Venezia alcune primizie interessanti. Ford vs. Ferrari di James Mangold, sulla rivalità delle due case a Le Mains 1966 in occasione delle 24 ore. Harriet della cineasta african-american Kasi Lemmons un biopic antischiavista su una grande rivoluzionaria nera, Harriet Tubman, e la regista è quella di La Baia di Eva. Il cartoon "Radioactive" di Marjane Satrapi, l'iraniana esule (che chiuderà il festival).Il film d'apertura è stato il documentario su un mitico rocker canadese: "Once Were Brothers: Robbie Robertson and The Band"di Daniel Roher. Dall'Australia un ennesimo film sulla mitica gang aussie (anche Mick Jagger ne ha interpretato uno): True Histeory of the Kelly Gang di Justin Kurzel. Bruce Springsteen e Thom Zimmy dirigono "Western Stars", sulkl'ultimo album. Sukllo scontro tra Francesco e Ratzinger si concentra il curioso "The Two Popes" del brasiliano Fernando Meirelles mentre Alejandro Amenabar firma il suo nuovo "While At War" sulla guerra civile spagnola. 



Effetto Domino di Alessandro Rosssetto

Mirko Artuso e Diego Ribon in "Effetto Domino"

Mentre è uscito nelle sale, con uso di sottotitoli italiani, il nuovo film, un thriller finanziario fuori schema e degenere, o meglio una acuta analisi sulla nuda vita nel Nordest, già raccontataci in documentari e sei anni fa in "Piccola patria" (sezione Orizzonti di Venezia 70) da uno specialista dell'area, il cineasta padovano Alessandro Rossetto. 
"Efffetto Domino" è tratto dal romanzo di Romolo Bugaro del 2015; è sceneggiato senza sbavature né orpelli dal regista con Caterina Serra; ha un sontuoso accompagnamento vocale e strumentale depistante affidato per lo più all'Antonio Vivaldi  meno abusato, come una montagna di bellezza barocca gettata contro il panorama umano più piatto di sentimenti e emozioni che non siano bancarie mai congegnato (varesotto a parte);  luci da noir all'aria aperta di Daniel Mazza solo timidamente attratte dall'effetto grottesco e dal capriccio compiaciuto e un ritmo audiovisivo sincopato e delocalizzante di Jacopo Quadri, cui è affidato il compito di suggerire ciò che non si vede ma che opera nell'ombra.  


Effetto Dominio è  stato presentato alla Mostra 76 nella sezione più adatta, Sconfini. Si avvale di un cast affilato, affiatato e per lo più di lingua madre (la furia compressa di Maria Roveran e Roberta Da Soller erano già in moto nell'opera prima, assieme alla glaciale inquietudine di Lucia Mascino) che comprende Marco Paolini (il faccendiere global Vokler), Vitaliano Trevisan (il prete, c'è sempre il prete nel nordest) e i due protagonisti di questa storia di imprenditori creativi. Il geometra scapolo Gianni Colombo (Mirko Artuso) e il piccolo impresario edile venuto dal basso, Rampazzo (Diego Ribon), amato-odiato da una moglie e due figlie per il suo inguaribile istinto patriarcale. Il loro high concept è acquistare orrendi alberghi cementosi e "modernisti" anni 60 dismessi, buttarli giù e trasformarli, ottenuti con ogni mezzo necessario i regolari permessi, in un paradiso abitativo per anziani di ogni classe sociale, strappandoli dalle allucinanti case di riposo nelle quali sono abbandonati, trasportandoli in un clima da eterna giovinezza alla "Cocoon" e rendendoli per una volta nella vita illusi di essere padroni del mondo e non a un passo dalla bara. Il pool internazionale di banche e di ditte che necessariamente vengono coinvolti in un progetto così ambizioso di ridefinizione del paesaggio padano si scontra con i piccoli grandi ostacoli burocratici che le amministrazioni pubbliche risolvono nei modi poco trasparenti che conosciamo e permettono al grande giro di impadronirsi in ogni momento del piccolo geniale intruso. Basta un blocco del credito bancario e...E' quel che succede alla coppia di amici, uno dei quali sarà a sua volta corrotto dopo l'ingresso di speculatori cinesi venuti da Hong Kong che daranno però al progetto un finish poetico perfetto, il simbolo grafico dell'eternità: quella famosa medusa che più passa il tempo e più diventa giovane.  Senza cultura diffusa e aggiornata, capace di reggere le grandi insidie della crisi globale (è in quel momento del ciclo che i pesci grossi hanno sprigionato storicamente il loro 'dovere' capitalistico di mangiare i pesci piccoli e medi) e senza desideri più complessi del solo profitto celibe (una serie di proverbi cinesi di grande effetto emotivo, concentrate sulla centralità del cuore servono a ricordarci che la Cina non è solo paese dallo sviluppo economico devastante ma dalle tradizioni culturali millenarie profonde e paradossalmente non aggressive e imperialiste come le nostre) le aziende familiari, che ha negli anni 90 hanno rappresentato un modello di crescita invidiato nel mondo, sono destinate a morire. Anzi a suicidarsi. Questo sembra dirci Effetto Domino.  

foto di Jitka Hanzalova

In sovrimpressione però con questo proclama da film civile lineare alla Francesco Rosi, Alessandro Rossetto apre nella sua opera sentieri secondari e interrotti e più misteriosi ancora della finanza, quel che resta di indicibile una volta fatto l'inventario di ciò che è riconoscibile. La parabola di Rampazzo più che per l'utopia frustrata del palazzinaro da "Mani sulla provincia" o per la pena che provoca la sua caduta nell'abisso, ci interessa perché è lui il solo personaggio capace di raccontare. "I potenti non sono capaci di raccontare: vantarsi è l'opposto del raccontare", scriveva John Berger in "Abbi cara ogni cosa".. Rampazzo ha ancora le mani callose dell'operaio edile. E' un Martin Eden che rifiuta l'individualismo borghese e un'idea del tempo connessa al positivismo, alla costrizione lineare del capitalismo moderno. Cerca invece il Weg, il sentiero dei taglialegna nella foresta, per arrivare alla atemporalità, alla "vicinanza della distanza" che è il mistero della foresta (non a caso, vediamo in Amazzonia oggetto di particolare aggressione sadica). Per lui costruire non significa edificare muri, ma riformare foreste. E' l'attività dei ricchi costruire muri: muri di cemento a sorveglianza elettronica, sbarramenti di missili, campi minati, controlli di frontiera... Rampazzo vuole abbattere la morte, creare venti, driadi, costruire un regno a parte, un "reame" a sé. Per questo ci ricorda che l'uomo ha due scale temporali: quella biologica del corpo e quella della coscienza. Forse è quest'ultima a dargli il sesto senso. Il film di Rossetto, anche se non fotografa mai foreste, però sfiora spesso alberi sorpavvissuti a boschi distrutti, è come se fosse una fotografia misteriosa della foresta di Jitka Hanzalova.        




La Giuria di Venezia 76, presieduta da Lucrecia Martel e composta da Stacy Martin, Mary Harron, Piers Handling, Rodrigo Prieto, Shinya Tsukamoto, Paolo Virzì, dopo aver visionato tutti i 21 film in concorso, ha deciso di assegnare i seguenti premi:

LEONE D’ORO per il miglior film a:
JOKER
di Todd Phillips (USA)

LEONE D’ARGENTO - GRAN PREMIO DELLA GIURIA a:
J’ACCUSE
di Roman Polanski (Francia, Italia)

LEONE D’ARGENTO - PREMIO PER LA MIGLIORE REGIA a:
Roy Andersson
per il film OM DET OÄNDLIGA (ABOUT ENDLESSNESS) (Svezia, Germania, Norvegia)

COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione femminile a:
Ariane Ascaride
nel film GLORIA MUNDI di Robert Guédiguian (Francia, Italia)

COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione maschile a:
Luca Marinelli
nel film MARTIN EDEN di Pietro Marcello (Italia, Francia)

PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
Yonfan
per il film JI yuan tai qi hao (no.7 cherry lane) di Yonfan (Hong Kong SAR, Cina)

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
LA MAFIA NON È PIÙ QUELLA DI UNA VOLTA
di Franco Maresco (Italia)

PREMIO MARCELLO MASTROIANNI
a un giovane attore o attrice emergente a:
Toby Wallace
nel film BABYTEETH di Shannon Murphy (Australia)

ORIZZONTI

La Giuria Orizzonti della 76. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, presieduta da Susanna Nicchiarelli e composta da Eva SangiorgiÁlvaro Brechner, Mark Adams, Rachid Bouchareb, dopo aver visionato i 19 lungometraggi e i 13 cortometraggi in concorso, assegna:

il PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM a:
ATLANTIS
di Valentyn Vasyanovych (Ucraina)

il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE REGIA a:
Théo Court
per il film BLANCO EN BLANCO (Spagna, Cile, Francia, Germania)

il PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI a:
VERDICT
di Raymund Ribay Gutierrez (Filippine)

il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE INTERPRETAZIONE FEMMINILE a:
Marta Nieto
nel film Madre di Rodrigo Sorogoyen (Spagna, Francia)

il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIOR INTERPRETAZIONE MASCHILE a:
Sami Bouajila
nel film BIK ENEICH – UN FILS di Mehdi M. Barsaoui (Tunisia, Francia, Libano, Qatar)

il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIOR SCENEGGIATURA a:
Jessica Palud, Philippe Lioret, Diastème
per il film REVENIR di Jessica Palud (Francia)

il PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a:
DARLING
di Saim Sadiq (Pakistan, USA)

il VENICE SHORT FILM NOMINATION FOR THE EUROPEAN FILM AWARDS 2019 a:
CÃES QUE LADRAM AOS PÁSSAROS (DOGS BARKING AT BIRDS)
di Leonor Teles (Portogallo)

VENEZIA CLASSICI

La Giuria presieduta da Costanza Quatriglio e composta da 22 studenti - indicati dai docenti - dei corsi di cinema delle università italiane, dei DAMS e della veneziana Ca’ Foscari, ha deciso di assegnare i seguenti premi:

il PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR DOCUMENTARIO SUL CINEMA a:
BABENCO – ALGUÉM TEM QUE OUVIR O CORAÇÃO E DIZER: PAROU (BABENCO – TELL ME WHEN I DIE)
di Bárbara Paz (Brasile)

il PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR FILM RESTAURATO a:
EXTASE (ECTASY)
di Gustav Machatý (Cecoslovacchia, 1932)

PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA

La Giuria Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” della 76. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, presieduta da Emir Kusturica e composta da Antonietta De LilloHend SabryTerence Nance e Michael Werner, assegna il:

LEONE DEL FUTURO
PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA “LUIGI DE LAURENTIIS” a:
YOU WILL DIE AT 20
di Amjad Abu Alala (Sudan, Francia, Egitto, Germania, Norvegia, Qatar)
GIORNATE DEGLI AUTORI
nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro, che sarà suddiviso in parti uguali tra il regista e il produttore.

VENICE VIRTUAL REALITY

La Giuria internazionale della sezione Venice Virtual Reality, presieduta da Laurie Anderson e composta da Alysha Naples e Francesco Carrozzini, dopo aver visionato i 27 progetti in concorso, assegna:

il GRAN PREMIO DELLA GIURIA PER LA MIGLIORE OPERA VR IMMERSIVA a:
THE KEY
di Céline Tricart (USA)

il PREMIO MIGLIORE ESPERIENZA VR IMMERSIVA PER CONTENUTO INTERATTIVO a:
A LINHA
di Ricardo Laganaro (Brasile)

il PREMIO MIGLIORE STORIA VR IMMERSIVA PER CONTENUTO LINEARE a:
DAUGHTERS OF CHIBOK
di Joel Kachi Benson (Nigeria)


Premio ARCA CinemaGiovani

miglior film italiano a Venezia: MARTIN EDEN di Pietro Marcello
miglior film Venezia 76: EMA di Pablo Larraín



Premio Brian UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti)
THE PERFECT CANDIDATE di Haifaa Al Mansour



Premio Casa Wabi - Mantarraya Fundación Casa Wabi - Mantarraya Production
Destinato al regista vincitore del premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”


Premio CICT - UNESCO "Enrico Fulchignoni" CICT - UNESCO (Conseil International du Cinema et de la Télévision)
45 SECONDS OF LAUGHTER di Tim Robbins


Premio per l’inclusione Edipo Re Edipo Re, Università degli Studi di Padova
BOŻE CIAŁO/CORPUS CHRISTI di Jan Komasa


Premio Fanheart3 Associazione Fanheart3
Graffetta d’Oro al miglior film: JOKER di Todd Phillips
Nave d’Argento alla migliore OTP: MILLA/MOSES per il film Babyteeth di Shannon Murphy
VR Fan Experience: WOLVES IN THE WALLS di Pete Billington


Premio FEDIC Federazione Italiana dei Cineclub
miglior film: SOLE di Carlo Sironi
menzione speciale FEDIC: NEVIA di Nunzia De Stefano
menzione speciale FEDIC per il miglior cortometraggio: SUPEREROI SENZA SUPERPOTERI di Beatrice Baldacci


Premio Filming Italy Filming Italy Award, Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, Best Movie
miglior film della sezione Sconfini: AMERICAN SKIN di Nate Parker


Premio FIPRESCI FIPRESCI (International Federation of Film Critics)
J’ACCUSE di Roman Polanski
miglior film di Orizzonti e delle sezioni parallele: BLANCO EN BLANCO di Theo Court


Premio Francesco Pasinetti Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani
miglior film: IL SINDACO DEL RIONE SANITÁ di Mario Martone
migliori attori: FRANCESCO DI LEVA e MASSIMILIANO GALLO per il film Il Sindaco del Rione Sanità di Mario Martone
migliore attrice: VALERIA GOLINO per i film 5 è il numero perfetto di Igort, Adults in the Room di Costa-Gavras e Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores
premio speciale: CITIZEN ROSI di Didi Gnocchi e Carolina Rosi


GdA Director’s Award Giornate degli Autori
LA LLORONA di Jayro Bustamante


Premio Label Europa Cinemas Giornate degli Autori
BOŻE CIAŁO/CORPUS CHRISTI di Jan Komasa


Premio del Pubblico BNL Gruppo BNP Paribas Giornate degli Autori
UN DIVAN À TUNIS opera prima di Manele Labidi


Premio Gillo Pontecorvo Istituto Internazionale per il cinema e l'audiovisivo dei paesi latini, Associazione Gillo Pontecorvo
MIAO XIAOTIAN in qualità di Presidente della CFCC (China Film Coproduction Corporation)


Premio Green Drop Green Cross Italia
J’ACCUSE di Roman Polanski
premio alla carriera: STEFANIA SANDRELLI
edizione speciale Ecologia e Cultura: CLAUDIO BONIVENTO


Premio HFPA HFPA (Hollywood Foreign Press Association)
Destinato a tre cineasti (registi, produttori) vincitori nella sezione Orizzonti dei premi al miglior film, miglior regia, premio speciale della giuria.


Premio HRNs – Premio Speciale Diritti Umani Human Rights Nights
premio speciale Diritti Umani – HRNs: LES ÉPOUVANTAILS di Nouri Bouzid
menzione speciale: BLANCO EN BLANCO di Théo Court


Premio INTERFILM per la Promozione del Dialogo Interreligioso International Interchurch Film Organisation
BIK ENEICH – UN FILS di Mehdi M. Barsaoui


Premio Lanterna Magica C.G.S. (Cinecircoli Giovanili Socioculturali)
SOLE di Carlo Sironi


Premio Leoncino d'Oro Agiscuola, UNICEF
IL SINDACO DEL RIONE SANITÁ di Mario Martone
segnalazione Cinema for UNICEF: the painted bird di Václav Marhoul


Premio Lizzani ANAC (Associazione Nazionale Autori Cinematografici)
NEVIA di Nunzia De Stefano



Premio Fondazione Mimmo Rotella Fondazione Mimmo Rotella
GIUSEPPE CAPOTONDI, DONALD SUTHERLAND e MICK JAGGER per il film The Burnt Orange Heresy di Giuseppe Capotondi


Premio NUOVOIMAIE TALENT NUOVOIMAIE - i diritti degli artisti, in collaborazione con il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani
migliore attore esordiente: Claudio Segaluscio
migliore attrice esordiente: Virginia Apicella


Premio La Pellicola d'Oro Ass.ne Culturale “Articolo 9 Cultura & Spettacolo” e S.A.S. Cinema”
miglior maestro d’armi: EMILIANO NOVELLI per il film Martin Eden di Pietro Marcello
miglior sartoria cineteatrale: GABRIELLA LO FARO per il film Martin Eden di Pietro Marcello
miglior capo elettricista: ETTORE ABATE per il film Il Sindaco del Rione Sanità di Mario Martone


Premio Queer Lion Associazione di Promozione Sociale Queer Lion
EL PRÍNCIPE di Sebastián Muñoz


Premio Sfera 1932 Consorzio Venezia e il suo Lido con Seguso Vetri d’Arte - Murano dal 1397
WOMAN di Anastasia Mikova e Yann Arthus-Bertrand
menzione d’onore: BALLOON di Pema Tseden


Premio del Pubblico Settimana Internazionale della Critica
ALL THIS VICTORY (JEEDAR EL SOT) di Ahmad Ghossein


Gran Premio Settimana Internazionale della Critica - SIAE Settimana Internazionale della Critica
ALL THIS VICTORY (JEEDAR EL SOT) di Ahmad Ghossein


Premio Circolo del Cinema di Verona Settimana Internazionale della Critica
SCALES (SAYIDAT AL BAHR) di Shahad Ameen


Premio Mario Serandrei Settimana Internazionale della Critica
ALL THIS VICTORY (JEEDAR EL SOT) di Ahmad Ghossein


Premio al Miglior Cortometraggio SIC@SIC 2019 Settimana Internazionale della Critica
VERONICA NON SA FUMARE di Chiara Marotta


Premio alla Migliore Regia SIC@SIC 2019 Settimana Internazionale della Critica
IL NOSTRO TEMPO di Veronica Spedicati


Premio al Miglior Contributo Tecnico SIC@SIC 2019 Settimana Internazionale della Critica
LOS OCÉANOS SON LOS VERDADEROS CONTINENTES di Tommaso Santambrogio


Premio SIGNIS| SIGNIS International (World Catholic Association for Communication)
BABYTEETH di Shannon Murphy
menzione speciale: WAITING FOR THE BARBARIANS di Ciro Guerra


Premio Adele and Christopher Smithers The Christopher D. Smithers Foundation
BABYTEETH di Shannon Murphy


Premio di critica sociale “Sorriso diverso” Associazione studentesca UCL (L'università cerca lavoro)
MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI di Stefano Cipani
miglior film straniero: J’ACCUSE di Roman Polanski


Premio Soundtrack Stars Free Event e Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani)
migliore colonna sonora: JOKER di Todd Phillips per le musiche di Hildur Guðnadóttir
premio speciale della giuria: BABYTEETH di Shannon Murphy


Premio UNIMED UNIMED (Unione delle Università del Mediterraneo)
EMA di Pablo Larraín


domenica 8 settembre 2019

Mostra di Venezia 76. Pannone soldato











Roberto Silvestri

Scherza con i fanti” di Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna

Alle Giornate degli Autori, un Evento davvero speciale. Già è molto provocatorio il titolo di questo film tragico ma a striature comiche, realizzato con il montaggio appassionato di materiali audio-visivi di repertorio (a cura di Angelo Musciagna) e con il contributo dei burattini di Maurizio Stammati, di Pulcinella in persona, e di uno storico come Ferruccio Parazzoli che commenta la vendetta insostenibile (che sa di resa dei conti ancestrale) di popolo a piazzale Loreto.
Siamo abituati da due millenni, come penisola più isole, a essere conquistati e sottomessi, da secoli, o da etnie più guerriere o da seducenti apparati religiosi o da duci prepotenti. Siamo una repubblica giovanissima, leader mondiale in emigrazione, e ancora inesperta ma dalla antichissima memoria, rinchiusa anche nei suoi canti popolari che raccontano della guerra come l'allontanamento violento del contadino inconsapevole dalle sue terre e dai suoi cari e come la trasformazione di un corpo umano in carne da macello. Un genocidio perenne di terroni quel che si insegna a scuola. “Terrone” però, è bene ricordarlo, non è una offesa che il nord rivolge al sud, come credono gli arricchiti lumbard, ma una definizione di classe che il proprietario di terra rivolge a chi proprietario di terra non è. Il bracciante. La religione lo deve consolare e preparare alla vera vita nell'al di là. Intanto, nell'al di qua, ci pensa l'esercito a manovrarlo e a gettarlo vivo sull'altare del patriottico martirio. Ma i nostri canti popolari non sono piagnoni, si avvalgono di paesaggi armonici e melodici di contagiante bellezza.
Gianfranco Pannone (a sinistra) e Ambrogio Sparagna
Ricordiamo anche che il luogo comune “italiani brava gente”, espressione più che discutibile sbagliata, è anche il titolo equivoco di un famoso film con Raffaele Pisu, perché quello vero fu censurato. In effetti il regista di quel capolavoro sull'invasione nazifascista dell'Urss durante il secondo conflitto mondiale, Giuseppe De Santis, aveva chiamato il film, da una battuta di un patriota ucraino, piuttosto sarcastica, “Italiano, brava gente”. Non siamo noi a gloriarci di una presunta maggiore umanità rispetto ad altri popoli aggressivi e coloniali come gli inglesi, i francesi, gli spagnoli, i tedeschi, gli olandesi, i danesi, i serbi, i turchi, i russi, i sauditi e i portoghesi. Sono gli altri che ci sfottono così (da cui l'obbligo ministeriale a cambiare il titolo). Un “documentario di finzione” o un film di finzione documentata, visto a Venezia nella sezione Sconfini, “Il varco” di Federico Ferrone e Michele Manzolini, sempre basato su materiali di repertorio dell'Istituto Luce e di film amatoriali a passo ridotto, spiega proprio, punto per punto, l'evoluzione di quella tragedia, e diventa come la versione in prosa del poema di De Santis, dall'entusiasmo primaverile iniziale, ai treni bloccati dal nemico, dalla marcia a piedi dell'esercito alle esecuzioni di partigiani alle prime scaramucce, dalla neve e dal ghiaccio invernale che trasforma l'Ucraina, visto che gli scarponi in dotazione sono disastrati, in un incubo, alla decimazione dei nostri soldati, alla rotta, alla fuga disperata. Il protagonista, nato da madre russa, tra i pochi a potersi sentire 'pesce nell'acqua' in quella situazione decide di disertare.


Insomma “italiani brava gente” è un non sense.
Abbiamo usato l'iprite, proibitissima dalle convenzioni internazionali, per gasare una parte di popolazione etiope (anche se minima, rispetto alle vittime totali di bombardamenti “normali”). Abbiamo, grazie a Graziani, decretato rappresaglie contro i patrioti africani in rapporto 1 a 30, 1 a 40, tanto che quelle naziste appaiono “umanitarie” all'occhio di uno storico imparziale. Abbiamo costruito in Libia lager che serviranno da modello architettonico-ideologico per Auschwitz. Abbiamo trasformato in leggi che mimano l'antica sapienza giuridica romana quel che è selvaggio istinto razzista, contro i neri prima e contro gli ebrei poi, e le abbiamo regalate a Goebbels e a Daniel Francois Malan, a quest'ultimo per inventare l'apartheid boero. Abbiamo anche inaugurato il genocidio religioso moderno sterminando non atei, buddisti o islamici, ma cristiani africani colpevoli di non essere sottomessi al Vaticano.
Il nostro cinema però ha sempre avuto paura di 'scherzare con i fanti' e si può dire che solo Francesco Rosi ha avuto il coraggio finora, in Uomini contro, Gianikian (sempre) e Guadagnino (Inconscio italiano), di sfidare la censura e l'Avvocatura dello Stato che protegge le gerarchie militari perfino d'epoca fascista da ogni impertinenza e indagine indebita che possa infangare la nostra Storia Ufficiale (quella che si studia a scuola). Ne sapeva qualcosa Guido Aristarco, e il suo progetto impossibile, L'armata Sagapò.


Questo bel documentario di Pannone, che chiude il dittico basato su un antico adagio popolare, e aperto da “Lascia stare i santi', ci racconta molto di tutto questo. Pannone ha tirato fuori dagli archivi più segreti e inaccessibili del Luce Cinecittà, grazie agli esploratori Nathalie Giacobino e Cecilia Spano, materiali militari sconvolgenti e proibitissimi (finalmente vediamo l'effetto dell'iprite sui corpi carbonizzati dei contadini etiopi, delle loro moglie e dei loro nonni e figli) ma ancora una volta è lo sguardo antropologico più che la controinformazione anti-militarista che gli interessa. Il sottotitolo infatti è “piccola storia degli italiani in divisa e di come abbiamo imparato a non aver paura della pace”. Il cineasta sceglie quattro diari di guerra come traccia narrativa. Un bersagliere valtellinese (ed ex austro-ungarico) del re d'Italia, Corlo Margolfo, racconta lo sterminio post unitario dei briganti filo-borbonici meridionali; Elvio Cardarelli, un autista viterbese l' “impresa” etiope come Montanelli non c'è l'ha mai raccontata; una studentessa cattolica, Rosetta Solari, la guerra partigiana che ha combattuto in val di Taro, sull'Appennino tra Parma e La Spezia contro nazi e anche contro i compagni (“staffetta” va tradotto in italiano non maschilista: “unità combattente a tutti gli effetti”, non “smista messaggi”) e Vincenzo Marasco , un sergente napoletano della Marina rievoca la “missione di pace” in Kossovo fiero di esserci andato da volontario ma altrettanto fiero di preferire al mitragliatore la zampogna natalizia. Come rendere corali, e non punto racconto in prima persona singolare, queste autobiografie “dal basso”? Attraverso 17 tra canti popolari (come il friulano “Ai preat”, di Gabriella Gabrielli), canzoni d'autore (“San Lorenzo” di Francesco De Gregori) e nuove composizioni del musicista e musicologo Ambrogio Sparagna, un maestro che parallelamente alle immagini inanella una sorta di storia parallela sonora del proletariato sofferente, che quelle guerre ha combattuto e che da quei conflitti, giusti o ingiusti, di aggressione o di difesa, abietti o rivoluzionari, se vivo, è tornato galvanizzato o traumatizzato e pronto alle più orrende avventure così come alle più rivoluzionarie metamorfosi.



venerdì 6 settembre 2019

1962, l'anno chiave del cinema italiano. Rosi, horror e Vivarelli


Roberto Silvestri


Didi Gnocchi è una giornalista televisiva pavese, autrice di inchieste anticonformiste, di documentari d'arte e anti-fascisti dedicati tra gli altri ai furti nazisti di opere d'arte, a Giosetta Fioroni e a Dino Risi, e regista di due film. Venti anni dopo Betty Bee firma e porta al Lido un altro emozionante ritratto d'auotre, Citizen Rosi diretto con Carolina Rosi, attrice, regista teatrale e figlia del regista di Salvatore Giuliano, Mani sulla città e Il caso Mattei.
L'originalità di questo crito-film, di uno dei tanti “film sul cinema” della Mostra (il Fulci, il Vivarelli, l'horror anni 60, il filone “Europa di notte”, il Felkini di Cappuccio, il progetto su Alberto Grimaldi,...) è infatti proprio il colloquio critico-analitico tra Francesco Rosi e la figlia sulle opere che hanno scandito la storia di un 'genere nobile' della nostra cinematografia. Rubato e rigenerato, come il western, alla Hollywood post maccartista e kennediana, il “cinema civile” fiorisce qui come interpretazione poetico-documentata, radicale e mai ufficiale, dei nodi scoperti del Novecento italiano. Il massacro dei proletari combattenti nella Grande Guerra, il sacco mafioso delle metropoli democristiane, il progetto Eni di autonomia energetica nazionale (piuttosto combattuta), la riflessione sulla lotta armata degli anni 70 (ma Tre fratelli resta l'opera di Risi più irrisolta e impacciata), le leggi razziali che videro il nostro paese come leader nel mondo, l' eliminazione fisica in Sicilia di sindacalisti e oppositori (di Cosa Nostra) d'ogni tipo, lo scontro fratricida nella Dc... Il gangster Lucky Luciano liberato dal carcere e spedito lì quasi come un ministro degli esteri (ombra) Usa per prendere possesso dell'isola che aveva contribuito a liberare (un bel libro di Daglio spiega molto bene perché), con l'aiuto di fascisti riciclati e non poco traditori (Junio Valerio Borghese) e di autonomisti idealisti da sacrificare a tempo debito (Giuliano), e per controllarne l'economia con la droga, dal 1945 ad oggi.
Anche Rosi, come Gnocchi, è stato ed è rimasto sempre un giornalista d'inchiesta. Ma l'immagine è sempre stata la sua vera passione, un mezzo di comunicazione con l'Italia anche analfabeta ma vitale che lo ha amato. Ilsuo stesso modo di parlare, scandendo le parole chiaramente, senza mai usare termini di gergo, e quasi modellando la bocca a forma di cinemascope, ne fanno un intellettuale organico atipico. Forse i suoi eredi e allievi li troviamo soltanto nella controcultura sessantottina, più dalle parti di Alberto Grifi che di Giuseppe Ferrara.
Napoletano, di scuola e indole Fonseca Pimentel, ha guardato bene in faccia e con coraggio inusuale i fenomeni di corruzione e autocorruzione del Potere. Ma è piuttosto interessante il fatto che la sua “rooseveltiana” visione del mondo si possa esprimere solo dal 1962, l'anno (in cui muore Lucky Luciano) del primo governo di centro sinistra - fermato non senza difficoltà e non poche lotte cruente il golpe Tambroni - e dell'ingresso del Psi nel governo. Rosi diventa la “quinta colonna” culturale di un processo di democratizzazione dello stato che culmina in una serie di riforme (edilizia popolare, la semi espropriazione dei latifondi, la cassa per il mezzogiorno e perfino una legge-cinema) che lascerà molte vittime sul campo, da Sullo a Moro.
Ma perché andare a girare proprio in quei mesi fuori da Roma? Perché in Sicilia o in Basilicata o a Napoli? Perché abbandonare gli studi di Cinecittà? Perché De Laurentiis e Ponti meditano proprio allora il grande viaggio in California o l'apertura di altri mega studios? Perché Sergio Leone sul set di Il colosso di Rodi pensa che la Spagna sia davvero un meraviglioso set per inventare il western spaghetti? Perché presto Antonioni e Bertolucci dovranno scappare a Londra e Parigi per creare i loro capolavori internazionali? Da una parte si scappa dall'Italia per la soffocante censura clericale e bigotta, ancora profumata di fascismo. Dall'altra le majors hollywoodiane hanno occupato militarmente con i loro kolossal miliardari tutti gli studi di Cinecittà, perché sono in grave crisi creativa e di profitti e perché hanno trovato il sistema di pagare poco blockbuster spettacolari di alta qualità e per farsi finanziare dai contribuenti italiani perfino parte dei costi di produzione, inventando false società italiane (in base alla legge vigente La caduta dell'Impero romano costo' ai cittadini italiani mezzo miliardo di lire). Oltretutto la nostra industria stava dando pericolosi segnali di ascesa e di intraprendenza sui mercati interni e esteri con film di genere a costo zero (comici, commedia, sexy, peplum...) e profitti alti. Ecco perché nasce il “cinema civile” proprio in quel momento. E' un genere popolare che incassa e vince anche i festival. Dispone di un parco attori drammatici di alto livello (Gian Maria Volontè su tutti) e utilizza il gioco delle star internazionali per creare attenzione di mercato e dunque cofinanziamenti in tutta Europa. Francesco Rosi adorava essere chiamato “Citizen Rosi”, dal titolo di una retrospettiva che gli avevano dedicato all'estero. Essere il portavoce della società civile indignata, non di uno schieramento politico. Questo il suo progetto. Non fare propaganda ma dare sostanza, sfondo connettivo, alle sue riletture storiche, più accurate possibili nei dettagli. E' molto interessante nel documentario, infatti, la passione che mette nel raccontarci, alla luce dei documenti nordamericani finalmente messi a disposizione del pubblico e degli studiosi mezzo secolo dopo, quello che girando Salvatore Giuliano non poteva sospettare a proposito dell'intervento della Decima Mas nel massacro di Portella della Ginestra. Furono loro a sparare. Ma nel film la geniale idea è proprio inquadrare i contadini falciati dai mitragliatori e non i misteriosi killer prezzolati nascosti sulle montagne.

Il pianeta in mare di Andrea Segre
I comignoli di Porto Marghera, il Pipeline ben analizzato da Toni Negri negli anni delle grandi lotte operaie per “aumenti uguali per tutti e sganciati dalla produttività “ e dei padroni tremanti, non erano a regime. Erano troppo bassi. Mangiava profitti per i manager renderli più alti e sicuri. Si chiama da allora 'sindrome Ilva'...E il veleno chimico sbattuto dal vento diffondeva così il cancro a manetta. Mi ricordo che una inchiesta tv dei filmmaker ex underground poi convertiti alla contro informazione, Guido Lombardi Alfredo Leonardi e Anna Lajolo, incredibilmente programmata dalla Rai senza censura in prima serata, mise talmente in difficoltà la Montedison che dopo la recensione entusiasta che scrissi per il manifesto mi arrivò una letterona di chiarimenti dell'azienda dicendo che il servizio conteneva inesattezze e minacciando di denuncia penale gli autori che proprio sull'avvelenamento ambientale avevano allertato pionieristicamente l'opinione pubblica (eravamo alla fine degli anni 70-inizi 80). Dalle immagini di oggi del petrolchimico ischeletrito e fantasma si vedono che poi quelle torri alte furono messe, e probabilmente quei manager promossi e rimossi con lauta buonauscita ma il documentario che Andrea Segre dedica a Marghera di oggi – esiste ancora - tocca solo marginalmente l'epoca nella quale il petrolchimico fu la capitale del Potere Operaio. Ora l'operaio massa è un fantasma dimenticato. E gli operai vengono qui da 60 nazioni differenti e i cantieri navali, le società informatiche, i containers delle navi intercontinentali sono diventati il cuore diversamente pulsante della laguna veneziana. Camionisti, cuoche, lavoratori immigrati, tecnocrati che vivono in Austria intrecciano le loro vite, i loro sogni e i loro letti, mentre di cozze mangiabili sotto il ponte della ferrovia Mestre-Venezia non c'è più traccia. Il documentario di Segre tiene sottotraccia l'indignazione per una globalizzazione dall'alto schiaccia sassi, ma non è descrittivo o impressionistico. Anzi sa collegare biografie e emozioni avulse come un amanuense decifrava codici lontani.

Barbara Steele, La maschera del demonio 1960
Boia maschere e segreti. L'horror italiano degli anni sessanta di Steve Della Casa
Bisogna ancora ricorrere alla produzione indie o perfino all'autoproduzione e al microbudget quando si tratta di rendere omaggio ai nostri più grandi artisti del passato? Tutto il mondo glorifica oggi l'horror-spaghetti, il tocco italiano nel cinema-bis, il superamento del gotico inglese Hammer style e del suo modello polveroso e letterario. E vede nell'immigrata Barbara Steele e in Christopher Lee, in Mario Bava, Antonio Margheriti e Riccardo Freda, il corpo e le menti di un immaginario altro. I visionari estremi e perversi (La frusta e la carne!) creatori di gesti e immagini paurose fine all'astrazione, pop e inquietanti, gli esploratori implacabili dei nostri più nascosti e inconfessabili lati dark e i pionieri dell'horror contemporaneo, quello che attraverso la grafica unica di Dario Argento è stato rielaborato poi da John Carpenter, Wes Craven o Joe Dante. Ma i soldi per spedire Steve Della Casa in California o a Manhattan a intervistare Martin Scorsese, il Quentin Tarantino fulcidipendente o Tim Lucas che a Bava ha dedicato il più voluminoso studio al mondo e rendere questo documentario meno euro-dipendente, possibile che non si trovino? Assurdo. Cosa ci sta a fare il Luce Cinecittà o Rai cinema se è ancora tabù considerare Bava l'ispiratore visuale di Fellini o tornare ai Vampiri o alla Maschera del demonio o a La morte ha fatto l'uovo come ai testi sacri del cinema di alta qualità artistico-commerciale che squinterno' la stessa Hollywood? Comunque i piccoli film degli anni 60 girati nei castelli cadenti del viterbese, straordinariamente dotati di effetti speciali ad alta resa e costo zero, capaci di produrre terrore innestando corpi di star internazionali avulsi, e di impaurire perfino i burocrati senza anima degli uffici di censura, perché l'intero paesaggio peccaminoso del nostro inconscio veniva spiattellato senza pudori con la sola giustificazione della necessaria redenzione, stanno diventando, per i giovani cineasti, l'unico messale da mandare a memoria. Pensiamo a Guadagnino e anche ai neosplatter. Peccato che Steve sia ancora costretto a spiegare in prima persona singolare, o con l'aiuto di Tavernier (a cui neanche piacciono) l'importanza di Polselli e Mastrocinque e i diritti dei film costino ancora troppo per un critofilm indie di profondità. Strano poi ascoltare da Jean Gili, che di Brian De Palma fu nemico, l'elogio dei suoi maestri. Anche se bisogna riconoscere che i francesi hanno sempre saputo scoprire prima di noi le virtù artistiche nascoste del nostro cinema di qualità commerciale. Gli americani però hanno scoperto anche le virtù rivoluzionarie e politiche per esempio di Questi, con i suoi horror antifascisti e anti clericali (Non si sevizia così un paperino) di cui ancora non riusciamo a vedere la versione integrale.

Piero Vivarelli e Adriano Celentano sul set di Super rapina a Milano (1964)
Life as a B-movie: Piero Vivarelli di Fabrizio Laurenti e Niccolò Vivarelli
Due paracadutisti in volo possono fare l'amore nella misura in cui si gettano ad altissima quota? Era l'ultimo progetto di film e l'ultimo desiderio erotico del regista senese e interista Piero Vivarelli, giornalista musicale finissimo, dedicato a una ballerina classica che dopo un maledetto incidente alla gamba era stata costretta a diventare paracadutista per replicare, nell' aria, i suoi virtuosismi danzanti. Vivarelli era anche lui parà. Voleva morire volando. E girare scene con lei buttandosi con un cuore pieno di bypass...Ex repubblichino da cucciolo. Poi marxista e cattolico, riabilitato da Togliatti come Dario Fo e Ingrao. Era iscritto al partito comunista, ma cubano, assieme al Che Guevara l'unico straniero cui era stato consentito. Amico di Fidel. Polemizzava con Rossanda su questo punto, anche se era del manifesto e scriveva sul manifesto. Fu il più dichiaratamente antirazzista tra i nostri cineasti. Un suo amico fu Dijbril Diop Mambety, il Godard del Senegal, attore a Cinecittà negli anni 70. Ebbe una moglie nera giamaicana bellissima che gli fu amica per sempre. Covava un progetto di film dalla parte dei rasta. Come Wakamatsu amava dire per scandalizzare i critici di fare cinema per scopare le attrici. Era membro di Cinema Democratico, durante il 68, e non dell'Anac revisionista, perché contestava all'autore il suo ruolo di dittatore del set. Per lui il cinema era un gioco collettivo. I suoi nemici erano i nipotini di Greggi cui dedicò Provocazione con Moana Pozzi. Fu con Fulci l'ideatore di un genere, mal chiamato 'musicarello', che registrò il cambiamento rock dei nostri costumi e consumi giovanili. Negli anni di Big e di Fiammetta, di Ghigo e del suo amico Adriano Celentano (con cui scrisse 24 mila baci e il tuo bacio è come il rock e a cui insegnò i fondamentali della regia) portò Mina e Dallara, Chet Baker e Joe Sentieri, The Rokes e Rita Pavona davanti alla cinepresa. E la cinepresa italiana non fu più, da allora, la stessa. Horror spaghetti, thriller psicotico, ultimo tango, blow up hanno dentro qualcosa di quel rock serio e demenziale, pre punk e anarchico, lisergico e zeppo di ganja, che Vivarelli sapeva sprigionare anche nei copioni del western Django, dei fumettistici Mister X e Satanik, e nei suoi film più reichiani, come Il dio serpente, frutto di un lavoro a Haiti non meno serio di quello underground di Maya Deren. Fabrizio Laurenti (che consegnò involontariamente a Bellocchio tutto il lavoro sulla prima moglie di Mussolini, Ida Dalser, in un bellissimo doc) riesce a montare come fosse una scatenata “Rumbera” ricordi di famiglia e interviste raccolte da Nick Vivarelli, nipote giornalista e critico di Variety, e dai suoi collaboratori. E rende le interviste e i materiali di archivio una ronde elettrizzante ed erotica che avrebbe divertito molto Piero. Troppo hippie per i suoi figli, che avrebbero vissuto momenti e psicosi più freak e cupi anche senza conoscere Ferida e Valenti, e i loro amici nazi.