lunedì 20 giugno 2016

Neon Demon, vampire a Hollywood. Un film “trash chic” di Refn






di Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri


Un film sul mondo della moda, agenti, modelle, fotografi, a Los Angeles?! Non a Parigi o a New York o a Milano? Bé Los Angeles è l’anello di congiunzione tra moda, apparati industriali dello spettacolo, scienza plastico-chirurgica e resto del mondo. E i suoi spazi vuoti sono più enigmatici. E poi siccome dietro a ogni donna di talento c’è un uomo, Liv, la moglie di Refn, non voleva andare a vivere a Tokyo e così il marito regista è stato costretto a cambiare film e la felice coppia se n’è andata in California. 


Ma questo film europeo, a basso costo, doveva sembrare un film ad alto costo, di lusso. Come fare? A volte basta un costumista che anticipa i tempi dell’alta moda e con poco fa magie (Erin Benach), uno scenografo dagli occhi dorati e amicizie luculliane (Elliott Hostetter) e una direttrice della fotografia che sa scolpire sui corpi degli attori (e in questo caso delle tante modelle e modellacce) luci e ombretti dolci, plastici o vellutati. Per aggiungere un tocco d’alta cosmesi in più, Refn ha chiesto al mago delle lenti anamorfiche di costruirgli un obiettivo apposito, il Crystal Express, che impedisse gli alti costi di post produzione per rendere le immagini glamour come quelle delle riviste di moda o degli spot pubblicitari più costosi (Refn nel 2012 ha diretto Blake Lively in uno spot per un profumo Gucci). Insomma un film girato in purezza. Come fosse un monovitigno. Il monovitigno è la purezza (immagino che il film sia un diadema immateriale regalato all’adorata moglie di Refn, sempre Liv).


La purezza è quella qualità interiore (e sinistra) che trasforma la bellezza in qualcosa di superiore, un fard invisibile che distrae la perfezione, offusca la regolarità, insomma, come sosteneva Kraus, imbruttisce un bel po’ e rende un viso e un corpo regolarissimo, imperfettamente unico. Di primi piani su donne adorabili, pure e trascendentali, e striate di bruttezza, di elementi decostruttivi, non ne mancano, griffati Dreyer o Hitchcock (Falconetti, Grace Kelly). Raccontare cos’è questa grazia e come è potente, con le immagini, ha sempre un alto quoziente di difficoltà. Ma qui si narra addirittura di come l’intelligenza di una donna mobiliti tutti i vizi che si raccolgono nella grazia femminile. Siamo dunque sul concettuale. Sul terreno subliminalmente horror di un film glamour, alla moda. La missione impossibile è: si può fare un film di genere horror senza mettere in scena l’horror o senza una (s)cena esplicitamente horror? Le quattro donne qui scrutate (il copione è strabico: firmano Polly Stenham, drammaturga britannica, e Mary Laws, scrittrice americana), la protagonista Jesse, la dragonessa Ruby (Jena Malone), Roberta Hoffman, la direttrice dell’agenzia (Christina Hendricks) e Bella Heathcote, scavalcano tutte la soglia della bellezza radiante e “impossibile”, quella delle potentissime star della moda da scuderia Gucci, YSL, H&M, Dior, Hennessy… Non è un caso che, per la prima volta, il regista del film preferisce firmarsi come una marca di profumi, NWR. E ci conduce a braccetto nei paesaggi Vogue Home dove tramano le donna vampiro, le donne licantropo, le donna cannibali e le donna Narciso che divorano se stesse tanto si adorano allo specchio.
Il demone al neon, The Neon Demon, è, in particolare, Jesse, una bionda modella minorenne che viene dalla provincia (Elle Fanning). Dallo stato dell’ex presidente Jimmy Carter, la Georgia, precisamente. Gioca, da perversa istintiva, la carta della purezza, fisica e morale, per conquistare i piani alti della celebrità e mettere ai suoi piedi Los Angeles. Dal motel scalcinato e inquietante di Pasadena arriverà presto alle villone con piscina di Malibù, incantando fotografi e stilisti alla moda e sbarazzandosi dei suoi amici artisti, più puri e naif. La sua folgorante ascesa, tra bellezze tutte ugualmente private di anestetismi, scatena però gelosie e lussuria, omo ed eterosessuali. Finalmente si prendono per il culo coloro che ancora usano la parola buonismo come se fosse una pessima astuzia etica invece che una tecnica di comando di affascinante complessità. Non dimentichiamo che Elle Fanning per preparare la sua parte ha visto e rivisto i due film più importanti mai dedicati alle bambole perverse: Valley of The Dolls di Mark Robson e Beyond the Valley of the Dolls di Russ Meyer (che ne è la gigantografia doppiamente lussuriosa).

E infatti. Perfino Keanu Reeves, il Jack padrone del motel, si trasformerà nel Norman Bates di Psycho per possederla (e non ci riesce)...e Jena Malone, che è Ruby, il personaggio più enigmatico e sinistro del film, fa il make up ai cadaveri e anche di più, e se la porta a letto. Inutilmente. Le divine sfuggono ai lubrichi mortali. E Elle Fanning è costruita un po’ come una diva del silver screen. Non è umana è solo “nitrato d’argento”. E’ mummia, ricalco digitale.  
Lei, infatti, non vuole imitare le altre mannequin, in nulla. E le altre modelle in crisi, da Bella Heathcote (nel film Gigi) a Abbey Lee (nel film Sarah), non troveranno altra maniera per imitarla, e sopravvivere nel jet-set, che divorarla. In senso letterale. Cos’è una top model, infatti? Un fuoco d’artificio che dura pochi istanti folgoranti e intanto pianifica, via Botox, altri grandi giochi di poteri. Deve entrare al più presto in metamorfosi molecolare. E poi se lo diciamo in francese, nella parola “mannequin” (frammenti di una donna, aggiungeva Jerry Schatzberg) si evoca sempre un po’ l’odore pesante del maschio, oltretutto chino, o della statua irrigidita da grande magazzino….Orrore.
Sexploitation o meglio menstrual-horror con necrofilia, senza un solo grammo di leggerezza e umorismo, sulla Croisette, in occasione della prima mondiale. E scandalo tra i cinefili. Refn sempre danese è. A proposito del vuoto di crasse risate. Ma. Mai sentiti tanti fischi a Cannes come quella mattina. Buon segno. Un film che divide. Torna a Los Angeles dopo il verboso Drive, mal copiato da Driver di Walter Hill, il cineasta Nicholas Winding Refn, diventato dopo Lars von Trier (ora alle prese con un serial killer movie) il danese che esporta più film nel mondo e ha dato una smossa trash-chic all’intera industria nazionale. Questo incubo ad aria condiziata è un po’ più autobiografico, come abbiamo detto. Ma anche per altri motivi. C’è come una sedicenne dentro Refn. E anche un pastore luterano, scandalizzato dalla “Metropoli della Paccottiglia” (come descriveva Kenneth Anger la Babilonia del cinema) almeno quanto Debord dalla Società dello Spettacolo. Refn non imita superficialmente il cinema di genere, come si dice (a Cannes ha presentato Terrore nello spazio di Mario Bava iperrealisticamente restaurato, segno che i suoi gusti, a iniziare da Walter Hill sono più che eccellenti). Ma, con fare adolescenziale, tratta Hollywood, il filone carcerario, il dark honkonghese e perfino lo psicothriller all’italiana di Argento e Lenzi, come giocattoloni da rompere e far funzionare altrimenti. Buon procedimento. Con Cliff Martinez al posto di Ennio Morricone, a costruire grumi sonori inquietanti e seducenti. E Matthew Newman (piuttosto materico e pesante) a inventare controtempi di montaggio heavy metal che irritano qualunque amante della battente ritmica di un seriale tv. Insomma siamo davanti a sequenze tutte uguali tutte ugualmente accurate, belle e orpellose, come in una sfilata di moda. Spalle larghe e tette giganti a parte - The Neon Demon preferisce i full frontal piatti  delle lolite - potremmo essere capitati proprio dentro un porno-movie, noiosissimo ma delirante, di Doris Wishman, la risposta femminile negli anni 60 e 70 a Russ Meyer. Più che in un Lynch, un De Palma, uno Schrader, un Cronenberg, un Hitchcock, un Aronofsky, un Argento…

giovedì 2 giugno 2016

La vita privata di Kubrick. S for Stanley di Alex Infascelli


Roberto Silvestri

Alex Infascelli dopo l'anteprima a Roma e un rilancio al Biografilmfestival è dal 30 maggio nelle sale con il suo nuovo lavoro, un documentario. S is for Stanley. David di Donatello come migliore documentario italiano dell'anno. Ha battuto perfino Louisiana di Minervini. Forse perché anche Rondi e il suo cenacolo è affascinato, come Adriano Aprà, dal critofilm, il film che parla della giganti della storia del cinema. Infatti qui si racconta di un genio del cinema attraverso un suo strettissimo collaboratore non creativo, tecnico. 
Il garage mausoleo Kubrick di Emilio D?Alessandro
E’ un po’ come Stalin smitizzato dal suo proiezionista? Mussolini da Claretta? Hitler da Eva Braun secondo Sokurov? Non proprio. Anche se la villa- bunker-studio di Chiddick, era gigantesca come quella di un potente magnate, piena di cani, prati, gatti, boschi, auto favolose, bimbi e asini. 
Ma l’intento di questo film non è descrivere una personalità ricca e speciale ma che, nell’intimità domestica, è uguale a tutti noi, con i suoi difetti e le sue virtù, i momenti felici e teneri e quelli cupi e litigiosi (che persino i dittatori hanno, di notte tutte le vacche sono uguali). C’è qualcosa di più. Non siamo nei territori liberi e selvaggi della finzione. E neppure in quelli della politica e della storia. Ma dell’arte. Dunque il paragone è con altro. Con Rossellini descritto dalle sue maestranze? Meglio ancora.

Emilio D'Alessandro racconta dal garage
Lo scrittore inglese in California Chris Isherwood (ricordate? Cabaret) venne raccontato “dal di dentro”, attraverso i ricordi del suo amante di sempre, il pittore Don Bachardy in Chris and Don: a love story documentario del 2007 di Guido Santi e Tina Mascara. Isherwood era già morto, ma attraverso quale intermediario più prezioso del suo amante-artista si poteva ricostruire con più intimità, pathos e autenticità, il profilo privato di una vita così fuori schema e al limite (avere e sbandierare un amante minorenne nella Hollywood degli anni 50 non era proprio senza pericoli)?
Il doc biografico non simulato, caldo,  obliquo, però rischia di sfiorare i freddi territori del mockumentary.  Per esempio in The Watermelon Women, le regista lesbica african-american Cheryl Dunye (Usa, 1996) inventa di sana pianta (ma senza dircelo) la biografia di una attrice nera degli anni trenta e quaranta (perennemente sottoutilizzata in ruoli di cameriera o mammy)  e scopre dopo lunghe ricerche una storia d’amore clandestina con la regista bianca dei suoi film. Nel frattempo Dunye ha il tempo di spiegare dettagliatamente e in modo filologicamente esatto – come in un film saggio - la discriminazione razziale nella Hollywood classica. Un falso, dunque, ma a fin di bene e più vero del vero (procedimento utilizzato anche da Peter Jackson per raccontarci la storia del cinema neozelandese primitivo in Forgotten Silver (1995).  

Emilio con Matthew Modine (sul set di Born to kill)
Se nel “falso documentario” si utilizza il linguaggio del documentarismo oggettivo (interviste, materiali di repertorio, voce fuori campo, raccordi sull’asse…), insomma lo standard BBC, autorevole per eccellenza, di cui fa la parodia indiretta e sotto traccia, per inventare fatti o personaggi inverosimili, così nel documentario obliquo, si parte dall’assioma dell’assoluta veridicità del testimone, che parla in prima persona singolare, e non ha motivi per mentire, per realizzare un disegno dell’assente che è parziale, implausibile e soggettivo. Eppure ha un tasso di verità, di verosimiglianza plausibile, difficilmente confutabile. E scandalizza in questi tempi di “imparzialità”, “oggettività” e dittatura anti-ideologica.
al volante !
Certo. Un critico e uno storico del cinema ne sanno molto di più dei film e dell’arte di Stanley Kubrick. Ma chi conosce davvero chi era Kubrick come uomo, com’era dentro, visto che il regista di Lolita fece della sua privacy ossessiva un’arte (come Salinger, Greta Garbo e Howard Hughes), se non il suo autista fedele, alter ego e factotum, da Arancia meccanica (1971) a Eyes  Wide Shut   (1999), seguendolo dalla villa ottocentesca di Abbots Mead a quella settecentesca di Childwickbury Green nell’ Hertfordshire?
Forse lo conosceva più ancora della adorata moglie tedesca Christiane Halane, 41 anni insieme, e dei figli, Vivian e Anya (nonostante la famiglia fosse considerata da tutti unitissima e affettuosissima), l’ex pilota di formula Ford Emilio D’Alessandro, originario di Cassino (dove tornerà nel 1999), assunto come autista dalla Hawk Films perché  aveva trasportato e consegnato al minuto secondo stabilito, con il suo taxi, attraversando tutta Londra, e sfidando gli sguardi esterefatti e puritani della metropoli buia e tempestosa, quel famoso gigantesco cazzo bianco laccato che Malcolm McDowell utilizzerà sul set, nella scena dello stupro di Arancia meccanica. Forse Emilio conosceva certi lati di frontiera di Stanley al lavoro più intimamente della moglie del Genio, perché in qualche maniera era ancora più coinvolto e complice sul set e molto più distaccato emotivamente.
Anche se, a giudicare dai legami fortissimi di affetto che – ci dice il film – s’instaurano tra i due, il regista e l’autista, entrambi immigrati a Londra, entrambi amanti delle solide automobili tedesche, anche qui la storia sfocia in una (come si diceva una volta) amicizia virile. Cioé in una storia d’amore. Non riuscire a fare a meno l’uno dell’altro. Per affinità di carattere soprattutto. La velocità. La precisione. L’efficienza. Il saper ridere come bambini. Il fare alla perfezione il proprio lavoro. Anche se uno ordinava e l’altro eseguiva. Uno telefonava a qualsiasi ora del giorno e della notte e l'altro arrivava. Uno dominava e l’altro era sottomesso (a rischio di trascurare famiglia moglie e figli). Uno pagava (bene) e l’altro intascava. Eppure Kubrick era una personalità disordinatissima, bisognosa di quadratura, senza la quale la sua proverbiale maniacalità sarebbe diventata anarchica, nel senso del caos. “Emilio, se non torni a lavorare con me non girerò più Born to kill”, sconvolto nell’apprendere che l’autista aveva deciso di rientrare in Italia, spinto dalla moglie, e riuscirà, non a stento, a trattenerlo per almeno altri due anni….
Alex ha utilizzato come base di partenza il libro di memorie scritto con Filippo Ulivieri (Il Saggiatore, 2012). E senza usare una sola sequenza di film (insormontabili i problemi di diritti), ma solo il materiale personale di Emilio (oggetti, foto, pezzi di scenografia, tutto ben catalogato nel suo garage di Cassino, compresi i “pizzini” del capo che gli chiede qualunque cosa, di ritirare un vestito o di far scappare dal retro Ryan O’Neill inseguito dalle fan selvagge), lo ha messo su una sedia e lo ha intervistato. Utilizzando un attore per dare voce off a Kubrick, e raccontando, lui stesso, in fuori campo, la storia e l’evoluzione del progetto. Non da fanatico adepto della religione Kubrick. Ma da professionista della Bbc. Per cucire svariati materiali di repertorio che rendano Emilio il protagonista, e la storia di un emigrante italiano degli anni 60, particolarmente fortunato (anche se il figlio pilota ancora più bravo di lui perderà una gamba in un incidente), il centro del racconto. Un ex cuoco, un ex commesso, un ex meccanico che scappa dall'Italia nel 1960 e ha la fortuna di lavorare presso l’autodromo di Brands Hacht , Emilio potrebbe diventare infatti un campione di formula 1 se avesse i soldi per gareggiare anche nelle formule minori nelle quale si fa valere. Invece la sua povertà lo traghetta sui  taxi e, dopo l’avventura col Fallo gigante, alla Hawk Films di Kubrick. Affascinando il regista americano del Dottor Stranamore per la sua perizia al volante, perché riesce a mettere in moto un mostro a quattro ruote che nessuno sa guidare, per la sua perfetta gestione dei 32 furgoni Volskwagen della compagnia e delle star (parla di tutti benissimo, soprattutto di Modine, tranne di Jack Nicholson: “toglimelo dai piedi – supplica Emilio – sniffa coca e fuma troppa droga!”), l’autista italiano diventa il vero alter ego di Stanley nei rapporti con il mondo esterno. Lo calma quando è ossessionato da allucinazioni visive (immagina che tutti i conigli della zona siano morti per i pesticidi), lo accompagna al poligono di tiro (Kubrick era un amante come Milius delle Beretta e dei fucili), nelle proiezioni private dei suoi film preferiti (L’esorcista di William Friedkin, Black Stallion di Carroll Ballard, Hot Stuff di Do DeLuise) e a lui che chiede di procurargli le candele per Barry Lyndon e di fare avanti e indietro per l'Irlanda e di telefonare a Federico Fellini per farsi raccontare in italiano come ha girato certe scene (“e Fellini mi riempiva di numeri incomprensibili di focali e di gradi d’angolazione”). Quando fa vedere Shining ai genitori di Janette Woolmore, sua moglie, loro si divertono un mondo ma non hanno per niente paura.  Alla fine Stanley gli chiederà: ma insomma hai visto i miei film? Quale ti piace di più? E Emilio: Spartacus. E Kubrick: non è un granchè.   Già. Hanno pure censurato la scena gay con Tony Curtis. Ed è per questo che K. Ha preferito “scappare” in Gran Bretagna. Come tanti altri americani prima di lui. Paul Robeson. E Joseph Losey, John Barry, Donald Ogden Stewart, Cy Endfield e gli altri black listed ….   Ma il regolamento in casa Kubrick cui Emilio D’Alessandro si atterrà scrupolosamente in tutti quegli anni non è un decalogo molto comunista. Forse è semplicemente educato, cioé “politically correct”, tranne nell’ultimo comandamento:
1.           Se lo apri, chiudilo
2.           Se lo accendi, spegnilo
3.           Se  lo blocchi, sbloccalo
4.           Se lo rompi, riparalo
5.           Se non riesci a ripararlo chiama qualcuno che lo sappia fare
6.           Se prendi in prestito, restituisci
7.           Se lo usi, abbine cura
8.           Se lo sporchi, puliscilo
9.           Se lo prendi, rimettilo a posto
10.    Se appartiene a qualcun altro, chiedigli il permesso di usarlo
11.    Se non sai come funziona, non toccarlo
12.    Se non ti riguarda, non t’immischiare     
Ma cosa non riguardava Kubrick?