Roberto Silvestri
Alex Infascelli dopo
l'anteprima a Roma e un rilancio al Biografilmfestival è dal 30 maggio nelle sale con il suo nuovo lavoro, un documentario. S is for Stanley. David di Donatello come migliore documentario italiano dell'anno. Ha battuto perfino Louisiana di Minervini. Forse perché anche Rondi e il suo cenacolo è affascinato, come Adriano Aprà, dal critofilm, il film che parla della giganti della storia del cinema. Infatti qui si racconta di un genio del cinema attraverso un suo
strettissimo collaboratore non creativo, tecnico.
Il garage mausoleo Kubrick di Emilio D?Alessandro |
E’ un po’ come Stalin smitizzato dal suo
proiezionista? Mussolini da Claretta? Hitler da Eva Braun secondo Sokurov? Non
proprio. Anche se la villa- bunker-studio di Chiddick, era gigantesca come quella di un potente magnate, piena di cani, prati, gatti, boschi, auto
favolose, bimbi e asini.
Ma l’intento di questo film
non è descrivere una personalità ricca e speciale ma che, nell’intimità
domestica, è uguale a tutti noi, con i suoi difetti e le sue virtù, i momenti
felici e teneri e quelli cupi e litigiosi (che persino i dittatori hanno, di
notte tutte le vacche sono uguali). C’è qualcosa di più. Non siamo nei
territori liberi e selvaggi della finzione. E neppure in quelli della politica
e della storia. Ma dell’arte. Dunque il paragone è con altro. Con Rossellini descritto dalle sue maestranze? Meglio ancora.
Emilio D'Alessandro racconta dal garage |
Lo scrittore inglese in
California Chris Isherwood (ricordate? Cabaret)
venne raccontato “dal di dentro”, attraverso i ricordi del suo amante di sempre,
il pittore Don Bachardy in Chris and Don:
a love story documentario del 2007 di Guido Santi e Tina Mascara. Isherwood
era già morto, ma attraverso quale intermediario più prezioso del suo
amante-artista si poteva ricostruire con più intimità, pathos e autenticità, il
profilo privato di una vita così fuori schema e al limite (avere e sbandierare
un amante minorenne nella Hollywood degli anni 50 non era proprio senza pericoli)?
Il doc biografico non
simulato, caldo, obliquo, però rischia
di sfiorare i freddi territori del mockumentary. Per esempio in The Watermelon Women, le
regista lesbica african-american Cheryl Dunye (Usa, 1996) inventa di sana
pianta (ma senza dircelo) la biografia di una attrice nera degli anni trenta e
quaranta (perennemente sottoutilizzata in ruoli di cameriera o mammy) e scopre dopo lunghe ricerche una storia
d’amore clandestina con la regista bianca dei suoi film. Nel frattempo Dunye ha
il tempo di spiegare dettagliatamente e in modo filologicamente esatto – come
in un film saggio - la discriminazione razziale nella Hollywood classica. Un falso,
dunque, ma a fin di bene e più vero del vero (procedimento utilizzato anche da
Peter Jackson per raccontarci la storia del cinema neozelandese primitivo in Forgotten Silver (1995).
Emilio con Matthew Modine (sul set di Born to kill) |
Se nel “falso documentario” si
utilizza il linguaggio del documentarismo oggettivo (interviste, materiali di
repertorio, voce fuori campo, raccordi sull’asse…), insomma lo standard BBC,
autorevole per eccellenza, di cui fa la parodia indiretta e sotto traccia, per
inventare fatti o personaggi inverosimili, così nel documentario obliquo, si parte dall’assioma dell’assoluta
veridicità del testimone, che parla in prima persona singolare, e non ha motivi
per mentire, per realizzare un disegno dell’assente che è parziale,
implausibile e soggettivo. Eppure ha un tasso di verità, di verosimiglianza
plausibile, difficilmente confutabile. E scandalizza in questi tempi di
“imparzialità”, “oggettività” e dittatura anti-ideologica.
al volante ! |
Certo. Un critico e uno
storico del cinema ne sanno molto di più dei film e dell’arte di Stanley
Kubrick. Ma chi conosce davvero chi era Kubrick come uomo, com’era dentro, visto che il regista di Lolita fece della sua privacy ossessiva un’arte
(come Salinger, Greta Garbo e Howard Hughes), se non il suo autista fedele, alter
ego e factotum, da Arancia meccanica (1971)
a Eyes
Wide Shut (1999), seguendolo
dalla villa ottocentesca di Abbots Mead a quella settecentesca di Childwickbury
Green nell’ Hertfordshire?
Forse lo conosceva più ancora
della adorata moglie tedesca Christiane Halane, 41 anni insieme, e dei figli,
Vivian e Anya (nonostante la famiglia fosse considerata da tutti unitissima e
affettuosissima), l’ex pilota di formula Ford Emilio D’Alessandro, originario di Cassino (dove tornerà nel 1999), assunto come autista
dalla Hawk Films perché aveva
trasportato e consegnato al minuto secondo stabilito, con il suo taxi,
attraversando tutta Londra, e sfidando
gli sguardi esterefatti e puritani della metropoli buia e tempestosa, quel
famoso gigantesco cazzo bianco laccato che Malcolm McDowell utilizzerà sul set,
nella scena dello stupro di Arancia
meccanica. Forse Emilio conosceva certi lati di frontiera di Stanley al
lavoro più intimamente della moglie del Genio, perché in qualche maniera era ancora
più coinvolto e complice sul set e molto più distaccato emotivamente.
Anche se, a giudicare dai
legami fortissimi di affetto che – ci dice il film – s’instaurano tra i due, il
regista e l’autista, entrambi immigrati a Londra, entrambi amanti delle solide automobili
tedesche, anche qui la storia sfocia in una (come si diceva una volta) amicizia virile. Cioé in una storia d’amore. Non
riuscire a fare a meno l’uno dell’altro. Per affinità di carattere soprattutto.
La velocità. La precisione. L’efficienza. Il saper ridere come bambini. Il fare
alla perfezione il proprio lavoro. Anche se uno ordinava e l’altro eseguiva.
Uno telefonava a qualsiasi ora del giorno e della notte e l'altro arrivava. Uno dominava e l’altro era sottomesso (a rischio di trascurare famiglia moglie
e figli). Uno pagava (bene) e l’altro intascava. Eppure Kubrick era una
personalità disordinatissima, bisognosa di quadratura, senza la quale la sua
proverbiale maniacalità sarebbe diventata anarchica, nel senso del caos.
“Emilio, se non torni a lavorare con me non girerò più Born to kill”, sconvolto nell’apprendere che l’autista aveva deciso di
rientrare in Italia, spinto dalla moglie, e riuscirà, non a stento, a
trattenerlo per almeno altri due anni….
Alex ha utilizzato come base
di partenza il libro di memorie scritto con Filippo Ulivieri (Il Saggiatore, 2012). E senza usare una
sola sequenza di film (insormontabili i problemi di diritti), ma solo il
materiale personale di Emilio (oggetti, foto, pezzi di scenografia, tutto ben
catalogato nel suo garage di Cassino, compresi i “pizzini” del capo che gli
chiede qualunque cosa, di ritirare un vestito o di far scappare dal retro Ryan
O’Neill inseguito dalle fan selvagge), lo ha messo su una sedia e lo ha
intervistato. Utilizzando un attore per dare voce off a Kubrick, e raccontando,
lui stesso, in fuori campo, la storia e l’evoluzione del progetto. Non da
fanatico adepto della religione Kubrick. Ma da professionista della Bbc. Per
cucire svariati materiali di repertorio che rendano Emilio il protagonista, e
la storia di un emigrante italiano degli anni 60, particolarmente fortunato
(anche se il figlio pilota ancora più bravo di lui perderà una gamba in un
incidente), il centro del racconto. Un ex cuoco, un ex commesso, un ex
meccanico che scappa dall'Italia nel 1960 e ha la fortuna di lavorare presso l’autodromo di Brands Hacht ,
Emilio potrebbe diventare infatti un campione di formula 1 se avesse i soldi
per gareggiare anche nelle formule minori nelle quale si fa valere. Invece la
sua povertà lo traghetta sui taxi e,
dopo l’avventura col Fallo gigante, alla Hawk Films di Kubrick. Affascinando il
regista americano del Dottor Stranamore
per la sua perizia al volante, perché riesce a mettere in moto un mostro a
quattro ruote che nessuno sa guidare, per la sua perfetta gestione dei 32
furgoni Volskwagen della compagnia e delle star (parla di tutti benissimo, soprattutto di Modine, tranne di Jack Nicholson: “toglimelo
dai piedi – supplica Emilio – sniffa coca e fuma troppa droga!”), l’autista
italiano diventa il vero alter ego di Stanley nei rapporti con il mondo
esterno. Lo calma quando è ossessionato da allucinazioni visive (immagina che
tutti i conigli della zona siano morti per i pesticidi), lo accompagna al
poligono di tiro (Kubrick era un amante come Milius delle Beretta e dei
fucili), nelle proiezioni private dei suoi film preferiti (L’esorcista di William Friedkin,
Black Stallion di Carroll Ballard,
Hot Stuff di Do DeLuise…) e a lui
che chiede di procurargli le candele per Barry Lyndon e di fare avanti e indietro per l'Irlanda e di telefonare a Federico Fellini per farsi raccontare in italiano come ha girato certe
scene (“e Fellini mi riempiva di numeri incomprensibili di focali e di gradi
d’angolazione”). Quando fa vedere Shining
ai genitori di Janette Woolmore, sua moglie, loro si divertono un mondo ma non hanno per niente
paura. Alla fine Stanley gli chiederà: ma insomma hai visto i miei film? Quale ti
piace di più? E Emilio: Spartacus.
E Kubrick: non è un granchè. Già. Hanno
pure censurato la scena gay con Tony Curtis. Ed è per questo che K. Ha
preferito “scappare” in Gran Bretagna. Come tanti altri americani prima di lui.
Paul Robeson. E Joseph Losey, John Barry, Donald Ogden Stewart, Cy Endfield e
gli altri black listed …. Ma il
regolamento in casa Kubrick cui Emilio D’Alessandro si atterrà scrupolosamente
in tutti quegli anni non è un decalogo molto comunista. Forse è semplicemente educato, cioé
“politically correct”, tranne nell’ultimo comandamento:
1.
Se lo apri,
chiudilo
2.
Se lo accendi,
spegnilo
3.
Se lo blocchi, sbloccalo
4.
Se lo rompi,
riparalo
5.
Se non riesci a
ripararlo chiama qualcuno che lo sappia fare
6.
Se
prendi in prestito, restituisci
7.
Se lo
usi, abbine cura
8.
Se lo sporchi,
puliscilo
9.
Se lo
prendi, rimettilo a posto
10. Se appartiene
a qualcun altro, chiedigli il permesso di usarlo
11. Se non sai
come funziona, non toccarlo
12.
Se non ti riguarda, non t’immischiare
Ma cosa non riguardava Kubrick?
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