venerdì 30 agosto 2019

Mostra di Venezia. Soprattutto Polanski, Martone e Buzid



Laura Dern e Scarlett Johansson in Marriage Story di Noah Baunbach


Roberto Silvestri

Dopo un terzo di festival, favorito da un inusuale grande caldo e da un clima festoso e rilassato, e una volta reso omaggio a Pedro Almodovar colonna culturale e pansessuale della nostra Nuova Europa, e premiato oggi per la carriera, abbiamo appuntato, tra i film da consigliare agli amici, prima di tutto un frammento. Il monologo da premio (applausi a scena aperta) di Laura Dern in Marriage Story di Noah Baumbach, commedia sul ri-divorzio, prima amichevole, poi tutto un duello rusticano tra avvocati losangelini da far morire di invidia Woody Allen per le sue punte comuco-tragiche, nel quale si sintetizzano in due ore e poco più 135 episodi di una intera serie tv sulla guerra tra la cultura viva di New York e quella “morta” e “materialista” della California, e si permette a Adam Driver di esibirsi in un booking mozzafiato, a tutto campo, tonalità medie, comiche, tragiche, guittesche, melodrammatiche e canore, con Scarlett Johansson che sa tenergli testa punto su punto, in questa acida parodia di La La Land, con il teatro d'avanguardia al posto del jazz da ascensore. Il piccolo grande monologo di Laura Dern, avvocata “squalo” di Scarlet, che entra nella testa dei suoi 'nemici da pelare', si introduce nel loro pensieri più reconditi e nei loro piaceri colpevoli più fino a estrarne la “scatola nera” capace di vivisezionarne ogni sfumatura comportamentale, chiarisce bene quel che è il nemico attuale del movimento “me too” e spiega perfino ai sassi perché sull'affidamento dei figli alle madri piuttosto che ai padri i tribunali per lo più non hanno dubbi. Altro caso di affermative action. La donna deve dimostrare sempre di essere perfetta. L'uomo mai. Donna=Madonna, secondo l'equazione mariana che un brutto papa del Novecento regalò a Hitler e Mussolini per degradare la donna a madre e moglie non tanto di un uomo quanto di una idea, di uno spirito, di una “tradizione culturale” superiore. Altro pezzo interssante il gioco utilizzato da James Gray nella space opera Ad Astra per imbruttire Brad Pitt con la complicità del produttore del film, Brad Pitt. Se non ci si imbruttisce un po', vedi Charlize Theron, nessuna super star glamour vincerà mai un premio Oscar. E qui ci si serve di tutto il materiale utilizzabile, dalla teoria della Frontiera versione spaziale, all'individualismo esasperato a Tommy Lee Jones anche lui invecchiato, per impiastricciare di arty un film di fantascienza pomposo, pretenzioso e noiosamente lineare. E passiamo ai film interi.
Il restauro di Estasi di Machaty, il film ceco del 1932, del nudo di Hedi Lamarr in campo lungo, dell'orgasmo di Hedi Lamar in un primo piano sineddochico e di una sequenza di inno al lavoro proletario che nemmeno nei film stalinisti di quegli anni. In quietante. Ha fatto bene l'attrice-.scienziata a fuggire dall'Europa nazistoide.
Poi Gli spaventapasseri del grande cineasta tunisino Nouri Buzid, su una giovane jihadista venduta allo stato islamico come schiava sessuale che fugge dalla Siria ma subirà al ritorno in patria una triplice violenza da parte della nuova Tunisia post Ben Alì che la mette al bando e la vuole morta (nonostante la difesa di una avvocata combattiva) come traditrice per gli islamisti di Ennadha, puttana per i democratici conservatori (gli ex di Ben Alì travestiti), disonorata per la sua famiglia patriarcale e “ambigua” per gran parte dell'opinione pubblica, perfino di sinistra e anche gay. Un monumento al povero italiano ignoto, non necessariamente milite, è il documentario sulla storia bellica italiana, dalla caccia al brigante a piazzale Loreto, basato su una ricca e splendidamente montata selezione di materiali di repertorio e di canti popolari, Scherza con i fanti di Gianfranco Pannone, con scene di cadaveri carbonizzati dai gas italiani sul fronte etiopico che avrebbero fatto piangere Montanelli.
J'accuse di Polanski, sul caso Dreyfus, che non a caso indaga sul 1894-95 come anno cruciale per l'Europa e le sue radici culturali cristiane meno nobili, perché, mentre si spartisce l'Africa aizza all'odio antisemita come inevitabile necessità identitaria di chi senza classifica generale razziale, non può commettere i suoi primi abominevoli eccidi in nome di dio padre.
Citizen K di Alex Gibney distrugge Putin ed è un bene, anche perché è un supercapitalista russo Mikhail Khodorkovsky, molti anni imprigionato in Siberia e attuale leader di “Oper Russia” e della dissidenza tutta a raccontarcene le imprese, in un doc prodotto dalla Gran Betannia da un documentarista statunitense. Infine Il sindaco del rione sanità di Mario Martone, di cui parliamo qui sotto. I cattivi vanno alla grande. E aspettiamo Joker che li consacrerà. Intanto si capisce come mai il fumetto è al centro dell'immaginario non solo hollywoodiano ma anche anti-hollywoodiano. Da La véritè a Il 5 è un numero perfetto, all'abietto Seberg dell'australiano Benedict Andrews, a mal partito su argomenti con non maneggia, che conferma la versione di Edgar J. Hoover, capo dell'FBI sulla pericolosità esiziale del Black Panther Party, comunisti e violenti, con un Bobby Seale mai sentito così volgare e avido, e dove l'eroe che non è Huey Newton o Fred Hampton e neanche la divina Jean (Kristen Stewart, perché lo hai fatto?) ma l'agente Fbi pentito, ma in fondo buono perché fan di Captain America e collezionista dei suoi numeri storici. E poi se furono commesse ingiustizie, il corpo sano dell'America le riconobbe subito e le sanò. Ah si? Insomma. Oggi c'è un summit su fumetto e cinema, qui all'Excelsior. Non è un caso.
La grande tradizione del fumetto americano, underground e commerciale, o meglio per dirla alla Antonioni il “vizioso” Crumb e il “virtuoso” Marvel/DC, e di quello francese da Metal Hurlant a Michel Vaillant di Jean Graton, ha regalato negli ultimi anni sostanza grafica e umori innovativi alle rispettive industrie cinematografiche, che si sono divise negli ultimi decenni il business (occidentale e non solo), sia bloockbuster che d'essai con opere intelligenti e pop, ad alto quoziente comunicativo. Il mercato francese, infatti, tiene ancora, nonostante la crisi della forma film in sala. Nella prima metà del 2019 attraverso commedie e drammi di qalità sempre più alta (senza tutelare i piccoli film di ricerca mantiene il 39,3% del mercato cinematografico (contro il 48,1% degli Usa) e riesce a finanziare la produzione nazionale audiovisiva attraverso il prelievo del 10,7% sul costo del biglietto e cospicue percentuali sui profitti di brodacaster, dvd e piattaforme streaming e video di ogni tipo, Netlix, per esempio, portando annualmente ben 788 milioni di euro nelle case del Centro Nazionale Cinematografico. Se Franceschini tornerà ministro cercherà di avvicinarsi a questo modello, anche se a noi non è mai stato permesso di finanziare i film erodendo profitti dal Re Leone e Avengers. Comunque è stata una bella idea di Baratta & C. quella di affidare al disegnatore Lorenzo Mattotti, uno del pool di “matite pulite” anni 70, la sigla e il manifesto coloratissimi e “narrativi” (un set, come l'incontro tra Jean Vigo, Fellini e Disney) di Venezia 76. Come dire. Ripartiamo dagli illustratori della controcultura a 360°, da Frigidaire a Diabolik, da Igort a Fulci-Vivarelli, dalla grande stagione del cinema di genere che conquistò il mondo (non solo gli “Europa di notte”, gli horror-spaghetti, ma anche il cinema civile di Rosi, il grande 'documentarismo critico' e perfino dal produttore simbolo della simbiosi tra creatività dionisiaca e apollinea, cioé Alberto Grimaldi di Per qualche dollaro in più e Ultimo tango a Parigi) per ripensare a ricostruire un'industria cinematografica compatta, che era in prima fila, fino al 1977, e che da allora è sprofondata. Non siamo più nemmeno un mercato appetibile. Eppure gli scienziati dell'illusionismo reale sono nati qui, dal rinascimento in poi. E così il simbolo del cinema, la prima Mostra d'Arte di Venezia.
Alberto Barbera che nel 2020 chiuderà il suo ciclo di direzione (forse) ci ha suggerito come leggere la bussola per addentrarci nella giungla immaginaria della rassegna 2019. I migliori film del Lido sono “back to the future”, guardano agli snodi cruciali della storia come un passato da riesumare per capire meglio il presente e ipotizzare le forme di un altro futuro possibile. Theodor Roosevelt e la dottrina sociale del liberalismo alla fine dell'800, il caso Dreyfuss e le radici profonde del razzismo europeo, lo sgretolamento del wahabismo, la teoria della frontiera fin dentro la saga spaziale, le radici delle attuali lotte a Hong Kong, il sistema dei conti offshore, l'ingresso nell'alta finanza delle strutture mafiose, le riforme agrarie negate, i dissidenti cubani, sono solo alcuni degli argomenti della competizione di quest'anno. Seguiremo con maggiore attenzione quel cinema che sa aggiungere all'indagine storica minuziosa e dettagliata, basata sui fatti e non sul manicheismo cieco della propaganda, una sostanza emotiva che altri arti non sanno cogliere con la stessa forza. Il cinema infatti per la sua natura ibrida e contaminante aderisce meglio a ciò che arte non è. Si annoia del propria specialismo e penetra fluidamente nei territori del costume, della politica, dello sport, della vita quotidiana, del gioco d'azzardo, della sessualità e perfino del pettegolezzo. Oltre che nei media immersivi (e qui alla realtà virtuale è dedicata da anni una fertile sezione) che poi sono quelli che consumano più film ma nelle maniere meno ortodosse e disintegrando lo spettacolo di massa in sala buia. Il Leone di Venezia, macchia d'inchiostro fluido, quella disegnata da Piergiorgio Maoloni, è rimasto così per decenni il simbolo vitale della Mostra d'Arte da quando la rassegna, con Gian Luigi Rondi, è tornata competitiva. E dunque si deve vincere quel Leone con ogni mezzo necessario. E far parlare di sé anche indipendentemente dai film che sono gli addetti ai lavori studiano amano e odiano con passione e che i mass media prediligono (il caso Polanski, perennemtne riaperto da 50 anni, per esempio). In un luogo come il Lido che non è ancora adeguato all'entusiasmo di cinefili, fan e studenti che affollano le sale.

La vérité di Kore-eda Hirokazu

Il libro di memorie di Fabienne, star del cinema francese (Chaterine Deneuve), un best seller che ha venduto 50 mila copie, scatena conflitti familiari imprevisti nella villa dell'attrice e sul set di un ridicolo film commerciale di fantascienza (di imitazione americana, anzi sembra Interstellar) che Fabienne sta interpretando. La figlia sceneggiatrice Lumir (Juliette Binoche), rientrata da New York con il marito attore tv e la vispa figlioletta per festeggiare l'evento, e il segretario di una vita della diva, che assomiglia tanto a John Gielgud, polemizzano duramente e diversamente con la donna che ha raccontato nell'autobiografia molte menzogne, tralasciando errori e aspetti dolorosi, cancellando personaggi chiave e gelosie inconfessabili. Perfino la bimba entra in campo, recitando battute scritta dalla mamma e innomandosi di una grossa tartaruga nel giardino della villa, vicino alla prigione... Perché? Perché per un artista il miglior modo per arrivare al cuore delle cose, alla realtà, è saper fare un bel cocktail a base di verità crudeli e bugie a fin di bene, le scale a chiocciola della vita che vanno giù verso l'inconscio e su verso il rispetto e l'amore.
Il bel cinema insegna questo alla vita? Mah. Molti grandi registi giapponesi, statunitensi e iraniani, da qualche anno, sono attirati dalla Francia (e dai suoi generosi finanziamenti) per rendere omaggio non solo alla nouvelle vague e a quel certo stile libero di fraseggio e recitazione che ha contaminato il globo ma anche alla specialità della casa, la commedia familiar-sentimentale, arguta e di piccante umorismo, che adora vivisezionare le emozioni più profonde e penetrare nei pensieri più reconditi di madre e figlia, moglie e marito, nonna e nipote, suocera e genero, divorziata ed ex marito.... Affascinante dunque poteva essere l'incontro, attraverso un copione che mescola Eva contro Eva, Viale del tramonto e la storia di Francoise Dorleac che della Deneuve è stata la sorella, morta giovanissima, tra un regista che alla famiglia borghse ha dedicato tutta la sua vita, Kore-eda, smascherandone meschinità e mostruosità, per la prima volta al lavoro in Francia con un cast, una troupe e delle voci quasi interamente francesi e a timbri davvero differenti e la coppia di attrici che di questo cinema sono il simbolo, da Truffaut a Carax, più ancora di BB. Non mancano i momenti esilaranti e ironie più grossolane e scontate riguardo a Hollywood (rappresentata da Ethan Hawke nel ruolo del marito attore di Binoche), senza le quali niente finanziamenti.

Francesco Di leva (a destra) e Massimiliano Gallo in "Il sindaco del rione Sanità" di Mario Martone
Il Sindaco del Rione Sanità di Mario Martone
Saper distinguere i “criminali per bene” dai “criminali carogna” è una grande arte. Di utilità quotidiana. Quasi come inventare una carrellata sublime invece di tracciarne una abietta. Rispettare un primo piano invece di sbatterci dentro il “mostro”, liquefare un volto negandogli il fuoco o renderlo grottesco con l'uso del grandangolo. Chi osserva male pensa male, parafrasando Nanni Moretti. Sul filo di questa difficilissima, doppia camminata etica si esibisce Mario Martone con i suoi attori nel film in concorso finora più impressionante del concorso veneziano, Il Sindaco del Rione Sanità, probabilmente il culmine di una appassionante e ormai lunga ricerca drammaturgica e performativa, mai ortodossa e sempre collettiva. Dopo averlo messo in scena per il teatro (come nel caso del suo Leopardi) Martone riscrive un classico del teatro di Eduardo, restituendo intanto al testo, con alcune interessanti deviazioni, quella sostanza conoscitiva implicita all'epoca (di camorra si trattava, ma non si poteva certo esplicitarlo, la parola “mafia” era proibita perfino in tv, negli anni 50) e collocandola nella Napoli marginale di oggi, alle falde di un Vesuvio sempre più basso nel profilo - s'è proprio dimezzato nel corso dei secoli - ma non meno, sotterraneamente, minaccioso.
Il boss Antonio Barracano (un Francesco Di Leva di potenza e fascino seduttivo nietzchiani) non è più il settantacinquelle uomo d'onore, nato nell'ottocento, di moralità più consapevole e umorismo più compassionevole di altri, e che ha saputo sfruttare meglio l'economia sommersa e parallela della metropoli, pur tollerata e controllata dal Potere, imponendosi come l'unico magistrato (e capo della polizia-ombra) riconosciuto dal popolo ignorante, dai sottoproletari più fragili e indifesi. E diventato ormai proprio come un monumento della zona, come il cortile di un palazzo barocco dei Quartieri Spagnoli, decadente, sublime e “senza aperture”. De Filippo aggiungeva al personaggio una capacità non comune di comunicare istantaneamente con il linguaggio non verbale, o un uso del corpo come lettrismo vivente, che pochi - Carmelo Bene tra loro - sapevano maneggiare con la stessa maestria per eseguire, e non esprimere, in un decimo di secondo, una sentenza di morte o di assoluzione.
Barracano è invece un giovane boss di oggi, altrettanto rispettato, ma soprattutto temuto, perfino dai suoi feroci cani da guardia, che si è costruito - con i proventi della coca, e non solo più delle sigarette di contrabbando, del gioco d'azzardo clandestino e della prostituzione- una villona strafottente, in zona vistosamente proibita, super-protetto da guardie armate. Ovvio che ha bisogno di un sistema lessicale e gestuale più rituale e contorto, eppure d'efficacia identica per amministrare la pace sociale e attutire i conflitti. Il dilemma che deve affrontare è: ha ragione il figlio di un boss diseredato a uccidere il padre che lo ha cacciato di casa? Rifiluccio Santanillo sembrerebbe avere torto, ma il fornaio Don Antonio, il papà infame, non è proprio quel lavoratore onesto e integerrimo che vuole apparire... Qui è la lezione anti recitativa e anti rappresentativa di Straub e Huillet, la “cacofonia” di tecniche interpretative differenti e non portate mai a omogenità accademica di suono e gesto che viene come sciolta nell'acido per tirare fuori dal respiro naturale dei corpi sigoli e dai ritmi motori differenti degli attori, le indicazioni critiche su ciascun personaggio. Grazie alla partecipazione di tutti i perfomer e di Massimiliano Gallo (il nemico di Barracano) prima di tutti, si ricompone come un puzzle collettivo quello che Eduardo riusciva a sintetizzare in un corpo solo.
Proprio come in Hotel Aramis (uscito giorni fa nelle sale) poi, nella villa opera l'amico e consigliere di Barracano, il medico che cura i malavitosi feriti, impossibilitati a raggiungere gli ospedali. E un gigantesco Roberto De Francesco a interpretarlo, con il suo stile “intensivo”, il suo lessico ambiguo e colto, i suoi sguardi feroci e addolorati, che ci fanno complici di chissà quali misteriose connotazioni emotive. E l'unico attore che non faceva parte del cast teatrale originale di Martone ed è probabilmente stato scelto per la sua presenza non indifferente, anche se così misurata e “in levare”. Vorrebbe partire e lasciare per sempre quel mondo, e questo suo deviare, aprire spazi, “attaccare la profondità”, come si dice in gergo calcistico di un attaccante che inventa sentieri invisibili ai difensori, intacca progressivamente l'identità dell'amico, costretto a risolvere via via i piccoli e gravi conflitti dell'ambiente, secondo una certa idea di giustizia che lui e Martone costruiscono usando certi avvicinamenti di macchina, gli sfocati, il raddoppiamento tramite specchi o l'incarceramento tramite grate. Insomma con i mezzi che il cinema ha a disposizione e il teatro no. Jonathan Demme in A Master Builder da Ibsen aveva raggiunto la stessa tensione da tragedia greca. E le variazioni del finale rispetto al testo di De Filippo aumentano invece di attenuare il clima tragico della piece. La lacerazione che non può più rimarginarsi. Il detournement finale dell'etica camorrista.

Jean Dujardin e Louis Garrel in "J'accuse" di Roman Polanski
J'accuse di Roman Polanski
Nascondere la propria altissima cultura visiva o regalarla a frammenti impercettibili, i due Renoir, Seurat, Lautrec, Ford, Hawks, Minnelli... in questo film che immobilizza il corpo ma fa giocare la mente e che avrebbe commosso Rossellini per la sua appassionata tensione didattica, dove si spiega che Zola è un grande italiano che sapeva battere un altro tipo di calci di punizione, è la sorpresa aurea di un Polanski maturo, mai domo e leggiadro che si dedica alle pratiche stregonesche dei servizi segreti di uno stato democratico (colonie a parte), analizzando i 12 anni del clamoroso “caso Dreyfus”. Come si aizzano i linciaggi materiali e morali degli innocenti. Lui ne sa qualcosa. Come Jean Seberg. E di come proprio la cultura repubblicana, radicale e laica di metà Francia e di mezzo mondo permise di combattere e vincere quella battaglia. Un alto militare dell'esercito fu condannato alla degradazione e all'esilio, alla fine del XIX secolo, ma innocente, per alto tradimento - avrebbe consegnato documenti segreti al nemico tedesco - e utilizzato come capro espiatorio, perché ebreo, dal governo conservatore e clericale francese dell'epoca. Utilizzare la macchina dello stato, dalla stampa ai tribunali, dagli attentati alle minacce, dai documenti falsi al pedinamento 24 ore su 24, per aizzare alla caccia al nero, all'ebreo, al clandestino, al rosso, al sindacato, alle Ong è il normale funzionamento di uno stato che moltiplica le iniquità in nome degli interessi nazionali presunti. Storia che conosciamo bene, da Valpreda a Regeni. Ma Polanski aggiunge qualcosa di più succoso. Gli eroi del film, chi combatte per la libertà di Dreyfus, sono altrettanto razzisti, anti semiti, ufficiali dell'esercito e papaveri dei servizi segreti come i loro nemici. Combattono esponendosi, andando in carcere, ma lo fanno nascondendosi dietro i principi repubblicano soprattutto per prendere il posto dei funzionari di destra e poi applicare i loro stessi metodi. Certo che Dreyfus (un impeccabile Louis Garrel, quasi irriconoscibile per cipiglio marziale) sarà, alla fine dell'odissea tragica scagionato, liberato e promosso. Ma il nuovo ministro Georges Picquart (Jean Dujardin, ambiguo come ogni spia di livello), un generale che si è molto esposto per lui, quando si tratterà di riconoscergli il grado che gli spetta di tenente colonnello dirà: no. Per antisemitismo. E il suo leader politico, il capo del partito radicale Georges Clemenceau sarà pronto per gli eccidi in massa di sindacalisti e socialisti. Da Dreyfus a Jaures. La via per Vichy è aperta.

sabato 24 agosto 2019

Il Signor Diavolo di Pupi Avati. Un capolavoro di "cinema vizioso"


Roberto Silvestri 


Chiara Caselli in "Il signor diavolo" di Pupi Avati



Autunno 1952. Bassa ferrarese. Due quattordicenni di paese, Carlo e Paolino, prendono in giro Emilio, un coetaneo molto ricco, che ha la bici e loro no, ed è brutto, denti deformi, e spaventoso come un diavolo. E come tale è considerato in paese, perché ogni handicap viene considerato - più vicini a Hitler che a papa Giovanni XXIII - la segnaletica esplicita del maligno. Emilio, per vendicarsi, fa lo sgambetto in chiesa a Paolino che schiaccia l'ostia sacra con la scarpa. Orrore degli orrori. Ecco la prova tanto attesa. A Carlo il compito di vendicare il mondo, eliminando il male assoluto con ogni mezzo necessario e con la complicità di preti, suore, esorcisti e politici di provincia che diffondono la fake new di un Emilio già divoratore della sorellina, e aizzando alla caccia alle streghe, al signor diavolo e a tutti quei cattolici modernisti e anti-tradizionalisti che hanno la sfortuna di mettersi in mezzo. E a quelle donne di città, traditrici dello scudo crociato e di certo viziose, come la mamma di Emilio, Vestry Musi, ricca, raffinata, autonoma, non sottomessa all'uomo, che è ancora più diabolica del figlio (una Chiara Caselli, che coniuga dark e illuminismo, in uno stupendo ritorno). 
Attenzione a non sfottere il rosario... Nonostante papa Francesco il cattolicesimo conservatore e reazionario non è stato affatto sconfitto. E usa qualunque cosa, perfino le felpe, per travestirsi. 

Filippo Franchini è Carlo Mongiorgi, l'assassino, in Il signor diavolo di Pupi Avati

La funzione del vizio, scriveva Samuel Butler, è mantenere la virtù nei suoi giusti limiti. E non c'è cineasta più vizioso di Pupi Avati che torna dopo un po' di televisione sul grande schermo dando immagini a un suo romanzo pubblicato da Guanda. Giuseppe Marotta lo avrebbe sicuramente inserito nel 142esimo girone dell'Inferno dantesco, dove ulula e si contorce la gente del cinema, tra Cecil DeMille che nomina Dio invano, Mastrocinque,  Matarazzo, lo Zeffirelli di Camping, un certo Zavattini che ha premiato a Cannes "un brutto film sovietico" (Quando volano le cicogne di Kalatozof) e quei registi di cinema bis come K. Crane di Il pianeta dove l'inferno è verde, che usano i generi per fare certe assurde, ingannatrici deviazioni dal senso comune... 
Ce lo spiega Antonioni quando scrive che "i film artistici sono i vizi di una produzione interamente virtuosa, cioé commerciale. Se la virtù avesse campo libero essa sarebbe insopportabile. I film viziosi sono rari, mentre gli altri sono più numerosi e spesso più remunerativi. Ma sui film viziosi poggia il prestigio di una cinematografia". 


Alessandro Haber, l'esorcista

A proposito di vizioso. Girando per le zone del film, Loreo o Pioppa... Antonioni e Avati catturano un certo erotismo proibito di quelle stradine e piazzette un po' lontane dal Po. Scrive Antonioni  nell'autobiografia montata da Carlo Di Carlo in occasione della retrospettiva newyorkese del 2017..."bambine sui dieci anni, sdraiate al sole che si muovono come donne, e ti danno i brividi accendendo di desiderio più di qualunque Marlene. E se le guardi non puoi sostenere il loro sguardo. Non si possono dire certe sensazioni. Bisogna venire a Loreo". Ed ecco che Pupi Avati rende casto quello sguardo, nel film, affidandolo ai soli adolescenti coetanei che, col baratto, soddisfano certe lussurie visuali tra teenager e ci insegnano che le immagini sono qualcosa di più di una definizione ottica. 
Gabriele Lo Giudice è l'ispettore del ministero Furio Momenté in Il signor diavolo di Pupi Avati

Questo Il signor diavolo mi ha fatto infatti pensare, più che alla bassa ferrarese di Mario Soldati, e non solo per le atmosfere, non più appenninico-emiliane, ma veneto-padane, proprio ad Antonioni, il fustigatore geniale dei cattivisti (chi teme la furia dei buonisti, cioé coloro che smascherano le cose vere denudando le fake news, come il Maligno teme i Fedeli d'amore). Sono due cineasti che farebbero i tripli salti mortali per catturare l'invisibile. Ciò che non c'è. Ma è più vero del vero. Anche se Il signor Diavolo (con la d maiuscola o minuscola?) segna un benedetto ritorno al fantastico o all'horror gotico-padano del cineasta di Balsamus e della Casa delle finestre che ridono, gli stracult che sappiamo. Un esperto di sovrumano, come Michelangelo, cosa ha in comune con un esperto di subumano, come Pupi? Entrambi, disgustati dal cinema medio quieto e roseo, gastronomicamente corretto, tracciano salutari deviazioni. 


Gianni Cavina (a sinistra) e Lino Capolicchio, il sacrestano e il parroco Don Zanini
E poi. Ecco l'horror spiegato anche ai bambini. Quel che Guadagnino ha fatto con Suspiria, regalando a Dario Argento un fondale storico politico incomprensibile ormai allo spettatore del XXI secolo, i magnifici e terribili anni settanta, Pupi Avati fa, concentrandosi sull'autunno del 1952, caliginoso e torbido, con l'Antonioni padano, quello di Gente del Po e poi anche del Grido, di Deserto rosso e Al di là delle nuvole, rendendo più concrete e terragne quelle astrazioni spaziali, quei movimenti misteriosi dell'anima, quei tentativi di identificazione della verità. Se lì c'è la Bader-Meinhof e la Shoa e Walter Ulbricht, a spiegare l'origine di certi orrori, qui c'è la Dc del primo ministro (per la sesta volta) De Gasperi che ci fa entrare nella Ceca, comunità europea del carbone e dell'acciaio, perché siamo moderni. Ma c'è anche la Dc inquinata dal racket maccartista-mafioso, del segretario Guido Gonella e della "legge truffa", perché siamo anche molto medievali. Ci fu quell'autunno il primo tentativo (fallito) di far passare un bel premio di maggioranza drogato a chi vinceva le elezioni politiche: "l'operazione Sturzo", l'alleanza auspicata cioè tra una Dc deviata, ma coperta dal santo Papa Pio XII, e i monarchici e il Msi per battere la sinistra. Cose diaboliche, appunto, che appartengono a un passato lontano e ormai dimenticato (?). E ci volle Belzebù-Andreotti per sconfiggere quelle macchinazioni poco costituzionali. Ma Dossetti se ne andò e Fanfani arrivò. Fu un autunno fatale da non dimenticare mai. Materia buona per un super horror. Pupi si chiede. In questa fase, oggi, abbiamo un Belzebù altrettanto abile nel tenere a bada il Male Assoluto? Capace di scovarlo? Neutralizzarlo? Sconfiggerlo? Magari buttandolo vivo dentro una tomba come succede nelle saghe Marvel dei super eroi o negli ambienti vaticani dei Principi Neri dove scomparve Emanuela Orlandi? 
Pupi Avati 
Pensavo a Antonioni anche perché è un film visivamente perfetto che vuole essere "il giardino d'infanzia di ogni narrativa". Ovvero si muove irritando lo spettatore-blockbuster standard: "fili di racconto dispersi nella bora di una incompetenza sconcertante, inaudita, vi cercano invano la sottile trama dell'organicità, della chiarezza, della verosimiglianza". E' ancora Marotta, critico feroce di Il Grido di Antonioni, certo assolutamente incompetente del mondo che Marotta credeva di vivere. Anche il mondo diabolocentrico di Avati è molto difficile da comprendere. Bisogna possedere un breviario d'accesso. O almeno rileggere le belle pagine che Franco Porcarelli alias Adan Zzywwurath ha dedicato al signor diavolo nella sua indispensabile Fantaenciclopedia in due volumi (Manifestolibri). Dove si ricorda la natura ingannatrice del diavolo. "Al diavolo non bisogna credere neppure quando dice la verità". "Val meno una verità del diavolo che una bugia del papa"... E' duro per l'esorcista, quando fa le sue fatidiche 18 domande terra-terra al demonio, decifrarne le risposte... E' ostico (tranne per gli stipendi dell'esorcista) un mondo dove, secondo la Cabala, sono oltre 7 milioni i demoni al lavoro. E così via. Satana può travestirsi da 'angelo custode' (lo conosce bene), e perfino da Cristo (la tecnica di smascheramento è sputargli in faccia perché "il diavolo ha in odio l'umiltà", come racconta San Francesco di Frate Ruffino che, come Pablito Calvo, se lo vedeva sempre davanti crocifisso) e secondo i Vangeli è lui "il signore del mondo", anzi, rafforza il concetto San Paolo: "è il dio di questo mondo". Il centro di questo mondo. Ma allora? L'uomo e la donna e i trans qualunque come possono essergli superiore e sconfiggerlo? Perché è spento dentro. Non ha l'anima. Le colleziona, certo, o almeno cerca di farlo. Ma non la possederà mai. Dal greco daimonia: è cosa nulla e priva di valore, il diavolo. Ebbene Emilio non sembrerebbe spento dentro. Né vuoto. Brutto sì, certo. Ma "brutto come il diavolo" è solo un modo di dire. E i prsonaggi cameo?
Un sacrestano, un esorcista, un magistrato, un parroco.... Cavina, Haber, Bonetti, Capolicchio... ci sono quasi tutti i mostri sacri, gli attori storici e amati di Pupi Avati, più Andre Roncato nel ruolo perfettamente eseguito di uno stimato professore, nel period-movie Il signor Diavolo, questo suo nuovo film, estremamente strano, tetro, gelido al punto che si griderebbe "Ehi Caronte!". Ed esplicitamente autobiografico. 
Nei plumbei anni 50 l'infanzia di Avati fu terrorizzata infatti - come ci ha raccontato a Hollywood Party - dalle prediche apocalittiche di un prete dalla tonaca negra, sul pulpito del giustiziere, che smascherava peccati e peccatori e prefigurava per loro scenari infernali incandescenti, roba da incubi di notte senza fine. I mostri rossi mangia-bambini, il diavolo con le corna a seviziare i malvagi nel peggiore dei modi (invece di premiarli e invitarli a banchetto...). 
L'apologo sataneggiante è ambientato tra la gente del Po e i ragazzini crudeli con le fionde, con Cesare Bastelli, il direttore della cinematografia, a imprigionare e seppellire vive la vita rallentata, l'infinita apatia, il Po uniforme e monotono, campanili, paesi, un po' di bosco, argini nudi che non finiscono mai, la nebbia, i fulmini, la pioggia, il panorama piatto e oscuro, i colori di un tonalismo acido, azzurri e verdi glaciali molto desaturati, le chiese con le tombe settecentesche nel pavimento da scoperchiare, le atmosfera Todo Modo, sinistramente preconciliari e già pericolosamente dorotee. E in un ritmo che neanche l'adorato Charlie Parker avrebbe saputo tenere così libero, ferreo, inquietante e dissonante senza l'aiuto fracassone di Buddy Rich (lp Bird and Dizzy). Con gli spettri della Dc, periferica e nazionale, bisogna andarci ancora molto cauti. E ci si chiede, scusate il bisticcio, come diavolo ha fatto Ivan Zuccon, sul tavolo di montaggio, a parodiare i Sabba, con quei close up richiamati d'improvviso in primo piano, come in un assolo terrorizzato al sax tenore di Albert Ayler. 
Solamente oggi comprendiamo perché manca su questo set solo Carlo Delle Piane che una certa dose di generosità e altruismo l'ha voluta comunque esprimere perfino nel giorno della sua morte. Ricordandoci col guizzo del PR just in time che è uscito proprio in queste ore nelle sale italiane Il signor Diavolo, regia Avati, produzione Avati. Ma anche Luce, Rai Cinema. 01. E indicandocelo, come un film speciale, il ritorno al genere horror gotico-padano che rese celebre e unico Pupi. Senza Carletto, l'alter ego di Avati, è affidato al piccolo, "innocente", plagiato Carletto Mongiorgi, il ruolo dell'assassino (è impersonato dal bravo Filippo Franchin) che, terrorizzato, colpisce nell'occhio con la fionda Emilio, dissanguandolo a morte e diventerà poi il nemico acerrimo di Furio Momenté (Gabriele Lo Giudice), l'ispettore dc che deve contenere l'oscurantismo contadino occupandosi del caso in modo da non compromettere il controllo elettorale del partito cattolico sulla regione "bianca" per eccellenza. Ma c'è anche un altro Carlo, a compensare o aggravare il clima lugubre del luogo, il Padre interpretato da Cesare S. Cremonini. 
Adesso siamo in attesa del prossimo film annunciato di Avati su un episodio della vita di Dante Alighieri (che di inferno e Diavoli era gran cultore e nemico giurato). Parlandone a Spilimbergo, al festival della luce, con Peter Greenaway, quel progetto è stato la causa di un bisticcio imbarazzante tra i due cineasti. Il regista inglese, autore nel 2008 di Cinema is dead, Long live the screen e dunque più interessato oggi alle istallazioni multimediali che al cinema-cinema (nonostante un bello, ma tradizionale, e recente Eisenstein in Messico) ha commentato con la delicatezza e il tatto che contraddistinguono da secoli gli artisti d'oltremanica doc: "Ma lascia perdere, a chi vuoi che interessi oggi Dante? offendendolo a morte. E Avati non dimentica mai i suoi nemici. E' vendicativo come Carletto.