mercoledì 15 aprile 2020

Sarah Maldoror, svelò le 'sanguinose atrocità' contro i dannati della terra








Parlatemi dei mendicanti che hanno cappelli grandiosi, e sordidi stracci
(Lautreamont, I Canti di Maldoror)


La giovane Sarah Durados 
La cineasta Sarah Durados, in arte Sarah Maldoror, è morta a 91 anni a Parigi per complicazioni da Coronavirus.
Se n'è andata in punta di piedi, ma ha vissuto da combattente in anni cruenti e esaltanti. Allieva e amica di Franz Fanon, allevata in ambienti rivoluzionari,  si è trovata a combattere un 'epoca speciale. Quando il generale De Gaulle disse "Se volete l'indipendenza prendetevela", un solo stato coraggioso subsahariano, la Guinea di Sekou Tuoré, ha osato farlo, con la strafottenza di Belmondo in Fino all'ultimo respiro. E i francesi, prima di fare le valige, hanno completamente distrutto il paese, strutture e sovrastrutture smantellate. Secondo la scienza esatta coloniale secolare: come sottosviluppare radicalmente un continente e come spogliarlo di tutte le sue risorse umane vegetali e minerali.
Bisognava dunque, come intellettuali rivoluzionari, contribuire a "sviluppare l'etica culturale di un popolo", a decolonizzare il pensiero, a studiare le dimensioni psicologiche e psichiatriche dell'oppressione con il linguaggio cinematografico più fluido e comprensibile possibile, visto l'alto tasso di analfabetismo. Sarah ha dato il suo contributo e adesso è nel Pantheon del primo cinema africano, a fianco dei grandi fondatori, Yussef Chahine, Desire Ecare, Dikongue-.Pipa, Lionel N'Gakane,  Sembene Ousmane, Med Hondo, Mustapha Alessane, Ola Balogun, Oumarou Ganda,  Ababacar Samb-Makharam e il vivo e vegeto Haile Gerima...Il poeta senegalese  Birago Diop, citato nel necrologio di Inoussa Ousseini (ambasciatore del Niger all'Unesco) ci ha spiegato che "Chi muore non è mai partito. Chi se n'è andato non è sotto la terra. Ma è nell'albero che germoglia, nel ruscello che scorre".

Sarah Maldoror 
Sarah era originaria della Guadalupe francese, ma è specialmente il cinema angolano che le deve molto. La sua vittoria al festival di Cartagine nel 1972, Tanit d'oro per Sambizanga, e l'invito che poi quel poema epico militante ebbe da parte di tutti i festival del mondo, hanno contribuito infatti ad accrescere la solidarietà internazionale verso la lotta di liberazione dell'intera Africa lusofona.

E' un cinema particolare,  quello angolano. Di straordinaria forza emotiva e di qualità grafico-visuale originale e sorprendente. Tra quelli delle ex colonie portoghesi, la Guinea Bissau di Flora Gomes è più moderno, quello mazambicano il più fragile e 'sudista' (tanto che il compianto presidente Samora Machel volle chiamare, per inventarlo, sia Godard che Ruy Guerra), è il cinema più preparato a deformare o perfezionare le ossessioni surrealiste di Manoel de Oliveira, Paulo Rocha o Joao Cesar Monteiro. Pensiamo alle opere dell'immediato dopo guerra di Liberazione, di Rui Duarte (e in particolare a Nelisita, di densità antropologica e ferocia cromatica stupefacente), di Asdrubal Rebelo da Silva, il punk che ci ha lasciato una panoramica della capitale doppiamente scarnificata, dopo Salazar e Breznev, o del raffinato pittore Antonio Ole, che maneggia (gioca con) colori che esseri umani non hanno mai contemplato.

Durante le riprese in Angola nei primi anni 70
Ma prima di tutti loro, c'era questa donna, femminista, nomade e euroafricana. Francese di nascita, antillana di genitori e angolana d'adozione. Fu al fianco dell'avvocatessa Gisèle Halimi e Georges Lapassade, il sociologo anarco-situazionista nel maggio del 68. Era stata già l'assistente di Gillo Pontecorvo in La battaglia di Algeri nel 1966. Jean Genet la definiva "un guerriero" un po' come Raul Ruiz chiamava Michelle Bachelet, la prima donna cilena presidente, "il generale".

Il nome di battaglia che si scelse è il più iconoclasta di tutti, rubato a Lautreamont, non a caso. Perché aveva scelto quel letterato maledetto? Perché anche il suo cinema ribaltava e distruggeva lingua, senso, sintassi, significati e grammatica accademica, sia della tradizione francese che portoghese. Un cinema bastardo, di contaminazioni, creolo, meticcio, antillano anche perché sa urlare con la potenza dell'uragano, sonorità che a noi euroafricani (per ora) mancano. Già. L'immagine sonora è importante quanto quella visiva nel suo cinema. In una intervista del 1996 a Parigi Sarah Maldoror disse: "Un baobab non sarà mai un ciliegio. In Africa non si può avere la stessa concezione europea del tempo, della luce e del suono. Io sono molto sensibile  al rumore africano che non esiste da nessuna altra parte: rispettiamo questo sound!"

Il lungometraggio d'esordio della storia angolana è dunque  di questa oriunda, panafricanista convinta. Sambizanga è stato girato in Congo-Brazeville (coproduttore assieme alla Francia) nel 1972 ed è ispirato al romanzo del leader rivoluzionario angolano José Luandino Vieira, A vida verdaidera de Domingo Xavier, ambientato negli anni 60 all'inizio del conflitto armato. Un film di qualità tecnica superba (gli attori sono tutto non professionisti ma i tecnici sono tutti francesi). E' un po' comecontemporaneamente, l'Iliade e l'Odissea di Luanda. Un road movie d'amore e di guerra.

Sambizanga 
Nata il 9 luglio del 1929 (ma per molti nel 1939) a Condom, Gers, in Francia, da genitori della Guadalupe, Sarah Durados studia a Parigi e fonda una compagnia teatrale, Les Griots, ma al cinema sarà introdotta da Mark Donskoi e Guerassimov a Mosca, negli studi Gorki, nel 1962 dove conosce Sembene Ousmane, anche lui "studente", e soprattutto il poeta e scrittore Mario Pinto de Andrade, fondatore e dirigente del Mpla che è passato alla lotta armata contro le truppe di Caetano, diventa il suo compagno e segue nel suo esilio militante e con il quale avrà due bambine, la seconda nata a Rabat nel 1964. Mosca ha ben addestrato ai fondamentali molti registi africani, anche il maliano Souleymane Cissé e il mauritano Abderramane Sissako, gioielli della seconda e terza generazione.

Prima di Sambizanga Maldoror gira in Algeria il corto in bianco e nero di 20' Monangambee (1969),  da una sceneggiatura di José Luandino Vieira sulla incomprensione totale, anche linguistica, tra colonialisti e colonizzati. Un prigioniero politico angolano chiede alla moglie di portargli un "completo", e la cosa viene segnalata come sospetta e irritante da una guardia che riceve dunque  l'ordine di frustarlo per strappargli invano nomi e segreti della organizzazione armata, ma il prigioniero voleva solo che la moglie gli cucinasse e portasse un piatto completo di pesce e non giacca e pantaloni per scappare...
Realizza poi nel 1970 il suo primo, misterioso lungometraggio che nessuno ha visto, coproduzione tra Algeria e Guinea Bissua, Des fusils pour Banta, alla frontiera tra Guinea Conakri e Guinea Bissau, ispirato da un altro leader carismatico panafricanista, Amilcare Cabral. E' la storia di un militante del Paigc (Partito africano per l'indipendenza della Guinea Bissau e di Capo Verde), convinto della necessità della lotta armata ma che muore prima che i combattimenti abbiano inizio. I film ha avuto non poche difficoltà di uscita perché è stato "sequestrato" ad Algeri per motivi politici. Fu giudicato politicamente "ambiguo". Speriamo che possa essere visionato al più presto. Il regista antillano Mathieu Kleyebe Abonnec  ha girato nel 2011 un documentario di 28' per raccontarci i misteri di questo film (ancora) perduto.

Elisa Andrade, Maria in "Sambizanga" 

Sambizanga (che è il nome di un quartiere popolare di Luanda) racconta in 105', attraverso l'odissea di una moglie spoliticizzata che lentamente comprende cosa sta accadendo e passa all'azione, le atrocità della repressione portoghese e le origini dell'insurrezione, dopo quattro secoli di colonialismo, razzismo, massacri, rapina, sopraffazioni di ogni tipo.
Ma è anche una storia d'amore individuale che diventa a poco a poco collettiva, amore per il proprio uomo, per il proprio paese e per la libertà.
Non è metaforico che si inneggi nel film alla nascita (siamo nei primi anni 60) dell'Mpla, il Movimento popolare di liberazione dell'Angola, l'organizzazione politica sostenuta dall'Urss e da Cuba che otterrà l'indipendenza dopo la rivoluzione dei garofani e guiderà il paese fino ad oggi, non senza contraddizioni e lunghi scontri fratricidi con il Fnla filocinese di Holden Roberto e soprattutto con l'Unita di Jonas Savimbi che sarà sostenuto dagli Stati Uniti e perfino dal Sudafrica razzista sconfitto militarmente sul campo dalle truppe cubane guidate da Ochoa (successivamente fucilato da Castro come trafficante di droga). Mah. Anzi proprio il leader amato del Mpla, il poeta oltre che fine uomo politico, Agostinho Neto, è l'autore delle parole della canzone che fa da filo conduttore al film.

Sambizanga vince il Tanit d'oro al festival di Cartagine, ma non senza polemiche perché c'è chi rimprovera al film l'esagerato tono romanzesco e un uso ben studiato di sentimentalismo e estetismo, emozioni politicamente scorrette all'epoca, visto che l'apartheid non è ancora stato smantellato, la Fiat aiuta i portoghesi e Pretoria a bombardare i guerriglieri, Mandela è sempre dentro e chi dovrebbe stare zitto per incompetenza palese in questioni estetiche si appropria prepotentemente della parola.

Infatti la critica african-american appoggia incondizionatamente il film, perché l'immagine dei neri è completamente ribaltata rispetto agli stereotipi euro-hollywoodiani: "I pianti di queste donne, l'affetto che le lega, il loro lutto e il loro dolore, nella loro immediatezza, continuano a ossessionarmi".
E una critica italiana, che è stata la prima studiosa del cinema africano lusofono, Anna Maria Gallone, che poi dirigerà il festival del cinema africano di Milano, scriverà, notando il tono brechtiano della scena clou: "Il film contiene momenti di estrema efficacia: basti citare la sequenza della festa popolare, durante la quale  la morte del protagonista non viene vissuta come momento di lutto, ma come esempio di coraggio per incitare  i compagni a proseguire la lotta. Quando il film è stato proiettato in Angola, totale è stata l'identificazione del pubblico nelle vicende trattate tanto che l'interprete del ruolo del poliziotto della famigerata Pide, la polizia segreta, riconosciuto dai passanti, ha rischiato di essere linciato nelle strade di Luanda".
  
Sarah Maldoror, fase televisiva
L'on the road tragico, da un villaggio all'altro, da un carcere all'altro, è quello di Maria, giovane moglie e madre di un figlio piccolo perennemente sulla schiena, alla ricerca di Domingo - il marito  operaio arrestato dai portoghesi per attività politica, torturato  e martire, perché preferisce morire piuttosto che tradire i compagni -  che non riuscirà più a trovarlo vivo ma da ingenua e ignara scopre cosa vuol dire libertà e si sposa con la lotta di popolo. Nel lungo e triste tragitto ha scoperto la solidarietà delle altre donne e una parte di mondo sconosciuta, insospettabile, attraente, invincibile. Si può essere molto di più di sposa e madre.

Assieme alla cineasta senegalese Safy Faye, Sarah Maldoror è stata tra le pioniere del cinema africano e ha accompagnato la lotta di liberazione dei popoli africani (anche quello del Sahel) girando documentari anche in Francia sul razzismo contro i lavoratori immigrati (Un dessert pour Constance del 1981 e Le racisme au quotidien, 1983).  Molto impressionante anche il lavoro sui manicomi sovietici degli anni trenta L'hopital de Leningrad (1982).

E, proprio come Safy Faye, ha avuto non poca difficoltà a lavorare negli anni 70. Sarah Maldoror in particolare ha subito la scomparsa di tutti i grandi leader panafricani (Nkrumah, Lumumba, Sanbkara...) ed è stata sopraffatta dalla burocratizzazione e purtroppo anche dal tradimento degli ideali delle 'democrazie popolari socialiste'. Non è più riuscita a girare un lungometraggio. Il progettato film tratto da Roi Christophe di Aimé Cesaire è saltato.  Così negli ultimi anni ha lavorato molto per la televisione francese, realizzando ritratti d'autore sullo scrittore haitiano René Depestre, Mirò (1981), la cantante haitiana Toto Bissainthe (1982), il fotografo Robert Doisneau (1983), il poeta e scrittore panafricanista della Martinica Aime Césaire (1988), lo stilista Emmanuel Ungaro (1988), Louis Aragon (1988), il poeta della Guyana Léon Gontran Damas (1995),

sabato 11 aprile 2020

E' morto a 96 anni Joseph Tusiani, il poeta italoamericano raccontato nel 2012 dal Sabrina Digregorio




E' morto oggi, a 96 anni, lo scrittore, antichista, dantista e poeta americano di origine pugliese Joseph Tusiani, il primo scrittore statunitense a vincere il prestigioso premio britannico Greenwood oltre a numerosi riconoscimenti internazionali. Docente universitario, romanziere, drammaturgo, traduttore, saggista, nel 1960 intervistò Martin Luther King per Nigrizia e fu un attento esegeta della letteratura african-american. Tra i suoi lavori più importanti la trilogia autobiografica, Collected poems (1983-2004), If Gold Shuld Rust (dramma in versi). Tra le ultime pubblicazioni di Tusiani - che viveva a New York dal 1947, prima nel Bronx, sulla 188th street, all'angolo di Lorillard Avenue e in Tomlinson Avenue poi a Manhattan - "Poesie per un anno" (2014-2019), 'La gloria del momento' (poesie in lingua spagnola pubblicate a cura di Antonio Motta e Cosma Siani dal centro di documentarione Leonardo Sciascia di San Marco in Lamis) e il romanzo giovanile "La daunia brucia". 




Ripubblico qui sotto un articolo uscito sul manifesto il 26 marzo del 2012, in occasione della presentazione alla stampa romana - quando il compianto cinema Trevi era vispo e vegeto - del documentario di 84' a lui dedicato da Sabrina Digregorio, Finding Joseph Tusiani - The poet of two lands. Ha collaborato alla sceneggiatura Fabio Pagani.  Le musiche sono di Katia e Marielle Labeque e di roberto Fiore (che con Andreas Pizzo ha curato il suono in diretta). Il montaggio è di Giorgia Costantino.
I legami con la cultura italiana nel mondo e dunque con la cultura del mondo in Italia, si rafforzerebbero e i rapporti con la nostra emigrazione secolare (e con il recente e prezioso flusso  di immigrati) sarebbero più fecondi e rispettosi se film magnifici come questo venissero trasmessi dalla televisione pubblica, così ricca di canali tematici spesso sprecati, invece di subire un'oculatissima pratica di disinteresse e annientamento. E' la cultura la prima tecnica di difesa, che ci permette, in certe occasioni, di non abbassare a non abbassare la guardia. Contro la corruzione, la mafia o la pandemia. E ricordiamo che proprio ieri nel paese nativo di Tusiani, San Marco in Lamis, parte della cittadinanza ha sfidato papa e stato, affollando pericolosamente una chiesa per il rito pasquale, in piena peste Covid19. Avessero sentito le parole di un loro connazionale colto e sensibile, invece che gli improperi quotidiani di politici spoetizzanti, forse non avrebbero neanche concepito un gesto così oscurantista, clericale e criminale. 
Sabrina Di Gregorio ha successivamente realizzato un altro film-ritratto-autoritratto Full circle- The Kostabi Story (2012), sempre tenendosi nella zone di confini tra fiction e non fiction, e coinvolgendo nel racconto sull'artista più inguaribilmente tardopop, critici internazionali e star della controcultura come Suzanne Vega, Michel Gondry e un davvero inedito Ornette Coleman.




di Roberto Silvestri



Qualche giorno fa è stato presentato a Roma, nella sala Trevi della Cineteca Nazionale, Finding Joseph Tusiani - The poet of two lands, un film di Sabrina Digregorio realizzato nel 2011. La giovane cineasta pugliese ha usato un procedimento spiazzante per rendere omaggio, con finezza, a un prestigioso poeta americano - originario di San Marco in Lamis (Foggia) dove nacque nel 1924 - ma non conosciuto come merita, anzi vero «buco nero» della nostra cultura. 
Scrittore di lingua inglese, latina, spagnola, italiana, ha pubblicato anche sette raccolte di poesie in dialetto del Gargano. E' autore di due romanzi ed è traduttore dei classici italiani del medioevo, del rinascimento, del barocco, del Risorgimento e della contemporaneità.
Professore emerito al Lehamn College di New York, primo «americano» a vincere il Greenwood Prize della Poetry Society d'Inghilterra, Joseph Tusiani è un intellettuale «impegnato» che spiega come questo aggettivo sia stato piuttosto frainteso in Europa.  Non vuol dire «essere di parte». Ma essere «parte di». 
Figlio di una sarta e di un calzolaio (che conobbe nel Bronx giù adulto, a 24 anni), Maria e Michele Pisone, testimone attivo del new deal rooseveltiano, Tusiani fece parte di quel gigantesco movimento proletario, anche migrante, che dal 1861 a oggi, ha costruito la potenza economico culturale Usa anche opponendosi, con ogni mezzo necessario, ai disegni e ai crimini, alle intimidazioni e allo sfruttamento dei conglomerati industriali che sottosviluppano il mondo approfittando di ogni tipo di crisi, economica ma anche pandemica, per mangiare i pesci più piccoli e accrescere i profitti.  
Arturo Giovannitti
Così scopriamo che Tusiani era diventato amico di Arturo Giovannitti, il leader sindacale nel 1912 salvato a furor di popolo da una provocazione tipo Sofri che rischiava di portarlo sulla sedia elettrica ma anche poeta meraviglioso (ricordiamo il suo saggio La poesia inglese di Arturo Giovannitti, «La Parola del Popolo», Special issue, Nov.-Dic.1978) e un attore della Hollywood 'muta'. Che Tusiani usò uno pseudonimo per sfuggire alle purghe maccartiste negli anni 50 e scrivere su riviste letterarie «comuniste». Che Tusiani trovò in una donna (come Giovannitti e Tresca in Elisabeth Garley Flynn) la sua mentore: era la poetessa e traduttrice Francesca Vinciguerra, alias Frances Winwar, che disciplinò il suo talento e tolse le briglia alle sue emozioni ...
Insomma come raccontare questo omaggio originale al compaesano Tusiani, l'autore del lungo poema The Return, scritto dopo il suo primo ritorno nel paese dove era nato e si era laureato in lettere (a Napoli nel 1947)?

Sabrina Digregorio

Il genere è un classico, il «documentario biografico». Lo standard vorrebbe una impostata voce fuori campo, più didascalie esplicative, uso di materiale di repertorio, meglio se raro, per fare «tessuto musicale d'epoca», e alcune poesie declamate da professionisti. Niente di tutto questo. 
Sabrina Digregorio (già autrice di due documentari, Melfi e In bilico-Voci narranti e di un film d'animazione in 3D, Il paese della quiete), mette in scena piuttosto un ammaliante «road movie» della memoria e nella storia, in forma di intervista - intima più che bio-bibliografica - tra lo scrittore e l'attrice Daiana Giorgi (nei panni di una studiosa di letteratura) che si snoda dalla agiata casa anni quaranta di Manhattan  di Tusiani, East 72nd street, alle viuzze-quinta teatrale del paese natio, sfiorando le idee-forza della sua poetica, lo sradicamento, la lotta, l'amore, il lavoro, la voce, il montaggio indocile tra «le due terre», la seduzione...
Un dialogo «obliquo» che non si permette le facili semplificazioni del «post hoc ergo propter hoc»: non è il dolore dell'emigrazione, la follia della guerra, l'orrore del razzismo, l'autolesionismo del sessismo, a causare, a provocare la costruzione del «verso indignato», ma è il pulsante materiale extra semiotico al lavoro, il gioco asimmetrico tra razionalità e irrazionalità, Pasolini avrebbe detto tra "ideologia del pensiero e ideologia della forma", qualcosa insomma che sfugge alla pedanteria del ragioniere: allo spettatore il compito di unire i tanti tasselli, ora che una ricca cultura dell'immagine lo ha dotato di un «know how» degno di un pittore cubista o espressionista. Tutt'al più qualche suggestione sonora per aiutarlo, dall'epopea agra di West Side Story ai primi collage postmodern di Erik Satie. E una serie di interventi affidati a esperti e critici non accademici, da furio Colombo a Richard Pena, da Derek Bowen a Gertrude Bocchimuzzo.
Tusiano è il «Simbolo di una emigrazione rara e alta, che si conosce poco e non si celebra mai» ha ricordato Furio Colombo, introducendo la proiezione di un film a cui ha collaborato, visto che lo conobbe nei 20 anni di permanenza americana, anche da direttore dell'istituto culturale italiano di New York e, senza troppo aiuto da parte della sinistra light e hard, di ri-tessitore dei rapporti con «l'altra Italia», quella una e bina. Emigrazione «rara e alta», come hanno confermato i rappresentanti della Regione Puglia e dei «pugliesi nel mondo» alludendo anche ai disoccupati e ai senza mestiere che hanno fatto l'America: «Saranno sempre le babucce di velluto a discendere le scale della storia, mentre le scarpe di legno le risaliranno». Parola di Voltaire.