tag:blogger.com,1999:blog-24022851782494304262024-03-09T18:46:29.065-08:00ilciottasilvestriil ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.comBlogger682125tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-33405658358915954022024-02-27T09:34:00.000-08:002024-02-27T09:35:44.338-08:00Notizie da filmare. Come sono e come dovrebbero essere i film sul giornalismo
DI SAMUEL FULLER (1)
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgI8ulWPwroQt1DvTL_xo0JTAb6zz0_rkytffRCVme1aGawTZFXf6ni2RTpQb1Ca48UJnKYk4Fj7rlZ5FWeoMs8-iWwvG2094ra0HvGDl8hyFP0LUtHkKSFcySYxVpjIf9o2RIjiu0PZ0xX4sGw50K93rAHC8EfU_wsdS6_F3Zh3T92u1BvfDAJeprmd8U/s262/fuller%2020.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="193" data-original-width="262" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgI8ulWPwroQt1DvTL_xo0JTAb6zz0_rkytffRCVme1aGawTZFXf6ni2RTpQb1Ca48UJnKYk4Fj7rlZ5FWeoMs8-iWwvG2094ra0HvGDl8hyFP0LUtHkKSFcySYxVpjIf9o2RIjiu0PZ0xX4sGw50K93rAHC8EfU_wsdS6_F3Zh3T92u1BvfDAJeprmd8U/s400/fuller%2020.jpg"/></a></div>
Svezzato a Park Row, in coppia con la giornalista Rhea Gore (madre di John Huston) per il mio primo caso di doppio suicidio considerai il definitivo passaggio da giornalista a cineasta come una naturale transizione dalla messa a punto dell'impaginazione di un giornale al ritocco di un trucco facciale.
La Prima Pagina e lo Schermo sono fratelli di latte. Lavorare all'obitorio e girare un film sono cose che suggeriscono continuamente immagini. Un titolo ha l'impatto di un primo piano, la carta e la pellicola vergine costringono la lunghezza di un articolo e il metraggio di un film, l'incipit di una notizia è l'inizio di un film.
Goudy 8 punti, schermo panoramico, corpo 12, moviola – il giornalista e il regista spillano sangue dallo stesso campo di battaglia emotivo, da ciò che è fatto per venire stampato e da ciò che è fatto per venir filmato. Il pendolo del “non puoi” e del “non devi” oscilla dai fatti in nero su bianco alle fantasie in technicolor. Il “vero” del giornale è l'”immaginario” del cinema che hanno in comune forbici macchiate di sangue, colla, prove, adesivi, taglierina, copie di lavorazione, generano le urla di battaglia gemelle del riscrivere, rifare, rigirare, ridoppiare, e arrivano a maturazione con la macchina da stampa e da proiezione.
Il mio primo contatto con un giornale fu come strillone del “Worcester Telegram”, del “Boston Post”, del “Boston American” a Worcester. A New York dall'età di 11 anni, a 12 vendevo giornali al Ferry della 125esima strada. Quei tempi gli strilloni acquistavano i giornali dal reparto distribuzione. Ebbi un colpo di fulmine per il “New York Evening Journal”, al 238 di William street, verso Park Row, a un isolato dalla Bowery, di fronte alla Casa dello Strillone, sponsorizzata da Al Smith.
Il guercio e sordastro Tom Foley, direttore del reparto stampa del “Journal” mi introdusse nel Paese delle Meraviglie, mi mostrò le rotative in azione, il canto delle linotypes che componevano, e infine il tesoro: la stanza della cronaca cittadina al settimo piano.
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Le grida di “una copia, ragazzo”, e i giovani sotto i venti anni che correvano, arrotolavano i giornali e li sparavano attraverso tubi pneumatici, erano elettrizzanti. Al diavolo lo strillonaggio! Quello di lavorare in un giornale divenne un'ossessione. Di lavorare al “Journal”.
“Dichiara il falso” mi disse il direttore amministrativo Joseh M. Mulchay, per avere il libretto di lavoro digli che hai quattordici anni. Allora ti farò lavorare come fattorino”.
Fattorino semplice al “Journal”, fattorino personale di collegamento di Arthur Brisbane, fattorino capo (e unico fattorino) al “New York Evening Graphic”, cronista di cronaca nera al “Graphic”, al “Journal”, al “San Diego Sun”, corrispondente per quotidiani, settimanali, quindicinali, in giro per tutto il paese, fu un accumularsi di personaggi, di aneddoti, di emozioni contrastanti, senza la minima idea di realizzare un film.
La prima scaramuccia con Hollywood avvenne quando rifiutai l'offerta di cinquemila dollari dalla Metro Goldwyn Mayer (perché inventassi una soluzione fittizia dell'insoluto caso di doppio suicidio di cui avevo scritto), quando il comune di New York offrì 25.000 dollari per la soluzione vera, con tanto di nomi. I due omicidi sono ancora oggi insoluti. I cadaveri erano quelli del ricco spilorcio ottuagenario Edward Riley, dalla barba bianca, e del suo segretario. Il mio titolo era Chi ha ucciso Babbo Natale? Perché Ridley amava cancellare le ipoteche in occasione del Natale. Non rimpiango di aver rinunciato a quei 5.000 dollari. Un giorno il film Chi ha ucciso Babbo Natale? sarà il mio contributo cinematografico a un caso di omicidio che resiste ai tentativi di soluzione e conserva ancora la sua suspense per l'ignoto epilogo.
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Alla domanda “Da dove prende le sue idee per i film?” non è difficile rispondere. Occupandomi di un'esecuzione...quando un uomo che ha fatto a pezzi la sua famiglia con un coltello da macellaio in una chiatta sul fiume Hudson mi disse che gli rincresceva se aveva fatto loro del male...ascoltando i problemi sessuali di uno che sta per buttarsi giù dal cornicione a trenta piedi d'altezza ed cadendo schiaccerà come un moscerino uno sfortunato passante...riuscendo a farmi dire le generalità di una bionda nuda con una paresi che canta l'inno nazionale a cavalcioni di un idrante perché il suo nome è Frances Key...osservando i cronisti che all'aeroporto di Teterboro nel New Jersey rifiutavano di aiutare Lindberg a far ruotare la coda del suo aereo perché offesi dal fatto che a tutte le loro domande egli rispondeva “Volete sapere qualcos'altro?” ...trasmettendo la notizia della morte di Jeanna Eagles dopo aver scoperto il suo cadavere alle Pompe Funebri Campbell...posando per il “Graphic” per un montaggio fotografico in modo da apparire con gli aviatori francesi Nungesser e Coli nel loro aereo schiantatosi nello sfortunato volo transatlantico giusto per sconcertare mia madre che non riusciva a capire come mai, visto che il fotografo era così vicino, gli aviatori non fossero stati tratti in salvo...accompagnandomi a un giovane poliziotto del distretto 24 a seguito di una normale chiamata e finendo per imbattermi nel cadavere di un individuo ucciso in un gabinetto sotterraneo...riuscendo a ottenere un'intervista da J. P. Morgan solo per vedermela distruggere dal redattore-capo della cronaca cittadina sicuro che J. P. non avrebbe mai potuto concedermela...assunto, licenziato, riassunto dal grande Gene Fowler nel giro di 5 ore quando, mentre facevo la cronaca di un discorso di un ammiraglio, a miglia di distanza, presso il ristorante di Lum Fong a Chinatown scoppia il caso del brutale assassinio di un vagabondo della Bowery...telefonando da un negozio di sigari in diretta la cronaca di una rivolta razziale...usando le edizioni domenicali dei giornali come coperte e cuscini, mentre viaggiavo di nascosto sui treni merci in compagnia dei profughi della Depressione...lavandomi i piedi con i vagabondi nei truogoli di latte confiscato...disegnando vignette contro i monopoli commerciali per un settimanale di Rochester il cui direttore ed editore era candidato alle elezioni governatoriali nel Minnesota e vi raccolse sette voti....ritraendo le prostitute di San Francisco mentre seguivo lo sciopero generale nel corso del quale i soldati spararono sugli scioperanti di fronte al palazzo del Ferry.
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Ogni giornalista ha questo pozzo degli orroriu trarre ispirazione. Ogni giornalista è potenzialmente un cineasta.
Tutto quello che egli/ella deve fare è trasferire le emozioni della realtà sullo schermo, spruzzandole di fantasia.
Tutto ciò non si applica ai critici. Un giornalista riferisce i fatti ribollendo internamente di emozioni che devono rimanere personali. Un critico narra l'accaduto dall'esterno, specificando ciò che di esso gli è piaciuto e ciò che non gli è piaciuto. Ogni fatto è diverso dagli altri. Il critico generalmente suona sempre la stessa musica con la sua macchina da scrivere. Pochi di essi sono passati a dirigere film.
Peter Bogdanovich è uno di questi pochi eletti, ma egli era più che un critico. Egli analizzava i film nel modo in cui un giornalista analizza le emozioni. Si tirò fuori dalla platea degli spettatori per divenire un creatore.
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Il mio unico film sul giornalismo, Park Raw era ambientato nel 1886 perché la mia passione per quella strada mi impose di realizzarlo. Ebbro dei colossi del giornalismo che vissero prima del mio tempo, il bighellonare nei pressi della farmacia di Doc Perry nell'edificio del “World” dove un tempo Pulitzer comperava le sue medicine, il lavorare dove allora questi giganti lavoravano, passeggiavano, mangiavano, bevevano, sognavano, combattevano, ridevano e piangevano, mi procurò eiaculazioni solitarie mentre giravo il film nel teatro di posa che riproduceva quelle pietre miliari del giornalismo.
Col passare degli anni ci sono stati altri film ispirati al mondo dei giornali. Anche alcuni buoni. Five Star Final, del 1931, scritto da Louis Weitzenkorn, si ispirava a Emile Gauvreau, direttore del “Graphic”.
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Gauvreau diede a Wichell la sua prima opportunità. A quel giornale di sinistra moderata collaboravano anche Jerry Wald (redattore capo della rubrica radiofonica), Norman Krasna (critico teatrale), Artie Auerbach (fotografo che divenne poi Mr. Kitzel, la spalla di Jack Benny nel suo show televisivo) e John Huston cronista.
Weitzenkorn venne dal “World” a sostituire Gauvreau che andò al “Mirror” a tormentare Winchell che non lo poteva soffrire. Il cambio degli zar fu macabro. Gauvreau se ne andò con un piede slogato, Weitzenkorn subentrò con un braccio rotto. Lasciato Pulitzer per toccare il fondo della pornografia nel “Graphic” di Bernard MacFadden, Weitzenkorn coniò un gioiello della drammaturgia: l'entusiasmante carriera di Gauvreau.
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Il direttore di Five Star Final era un personaggio reale. Gauvreau ripescò veramente un vero omicidio, promise rivelazioni sensazionali che avrebbero reso nota la vera identità dell'assassina – già prosciolto dall'accusa – e la terrorizzo'. Riultato: il suicidio della donna e di suo marito. Il mio ruolo in questa zuppa persecutoria fu di condirla con fatti sui figli dei due suicidi. Nel film il personaggio si trasformò nella figlia. Gauvreau si lavava sempre le mani, dopo una storia disgustosa. E così fa Edward G. Robinson nel film diretto da Mervyn Leroy. Anni dopo quando scrivevo la sceneggiatura di Gangs of New York (poi film nel 1938 diretto da James Cruze), ebbi l'ironica sorte di imbattermi in Weitzenkorn che stava scrivendo un copione intitolato “Il re degli strilloni”, King of the Newsboys che diventerà film nel 1938, per la regia di Bernard Vorhaus.
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La prima teatrale di Prima pagina (The Front Page), cui assistetti con Kermit Jaediker del “New York Daily News”, ci commosse entrambi perché in Lee Tracy vedemmo ciò che non eravamo ma che avremmo amato essere. Era emozionante. Dopo che il sipario calò tornammo in Sala Stampa (che di giorno era il negozio di un idraulico) di fronte alla stazione di polizia della 47esima strada e alla vicenda di un escavatore che finalmente tirò fuori dai rifiuti dell'Hudson il corpo di un ragazzo di 5 anni. Le gocce d'acqua sulle ciglia del ragazzo morto mi fecero venire in mente le gocce di sudore che imperlavano la fronte del povero bastardo nascosto della scrivania di The Front Page.
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Raccontano che quando Howard Hughes decise di filmare The Front Page egli ordinò di “scritturare l'uomo che interpreta Hildy Johnson a teatro”. Nell'allestimento di Chicago il ruolo era interpretato da Pat O'Brian. Hughes lo convocò pensando di convocare Lee Tracy. Vera o falsa che sia, è una bella storia e Lewis Milestone, che dirigendo il film nel 1931 fece un lavoro di prim'ordine, è l'uomo che può confermare o smentire l'aneddoto.
La signora del venerdì (1940) costituì una superba variante al femminile di The Front Page con un incalzante ritmo da mitragliatrice. Dopo la seconda guerra mondiale, il film mi divenne più familiare tramite Howard Hawks.
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Il mio romanzo, The Dark Page (essenzialmente uno studio psicologico di un direttore di giornale che scatena una caccia a se stesso estesa a tutta la città dopo avere ucciso la moglie, abbandonata venti anni prima) fu scritto prima del secondo conflitto mondiale. Lascia la prima stesura a mia madre che m'informò, quando mi trovano nell'Africa del nord, nelle vicinanze del passo di Kasserine, di avere speso l'anticipo avuto per la cessione del libro agli editori Duel, Sloane and Pearce. Una copia del volume mi raggiunse in Francia, presso Saint-Lo, un'offerta di Hollywood mi mancò per poco a Mons, in Belgio, e nella foresta di Hurtgen, in Germania mi informarono che Howard Hughes aveva acquistato i diritti del libro per 15 mila dollari per un film con Bogart e Robinson. Egli li rivendette alla Columbia.
Il film, con Broderick Crawford, si intitolò Ultime della notte (diretto da Phil Karson nel 1944). Quel film non ha nulla a che fare con il mio libro.
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L'asso nella manica di Billy Wilder (1951) è il ritratto più fedele di un figlio di puttana di giornalista. Non risparmia un colpo.
Un giornale – come una chiesa, un bordello, un raduno delle Figlie della Rivoluzione Americana, un congresso politico, le adunate del K.K.K., una sinagoga, una biblioteca pubblica - è un carattere vivente, rifuso di ora in ora con una dialettica di sfumature altamente presenti in ogni uomo o donna che vi scrivano.
Fare un film veritiero sul giornalismo è altrettanto difficile che fare un film veritiero sulla guerra.
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Il censore non è la sola barriera. La gente che acquista i biglietti ed entra in un cinema per sgranocchiare i popcorn sedendo in soffici poltrone è stata abituata attraverso gli anni al giornalismo come appare sullo schermo. Drogati, ingannati, delusi, essi sanno cosa aspettarsi e non accetterebbero un film di guerra che mostrasse indifferenza per le atrocità, con vecchi combattenti che sacrificassero dei mocciosi in un campo minato, godendo della disumanizzaizone, con ufficiali impudenti che riferendosi a corpi decapitati li chiamassero “i miei ragazzi”, stando nelle retrovie a letto con le loro donne; con bollettini di guerra falsati per raggranellare voti, far soldi, sventolare bandiere, vendere armi, trafficare al mercato nero con cadaveri sventrati e bruciati.
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La gente non accetterebbe un film sul giornalismo con atrocità politiche e assassini ben preparati e prezzolati di personaggi i cui nomi corrispondessero a nomi reali; non accetterebbero le astuzie della Direzione che sparge una cortina nebbiogena davanti agli occhi di un cronista sul punto di denunciare un Presidente, di colpire un inserzionista, di mandare in galera un giudice federale, di smascherare una squadra del buon costume. Non accetterebbe di vedere l'Fbi coinvolto in un ricatto perché l'Fbi è lo stesso pubblico che sgranocchia il popcorn. Non accetterebbe editori in combutta con politicanti, editori prostituiti ai banchieri che ricevessero prebenda dall'alta finanza mentre pubblicano lettere aperte prive di senso contro i loro finanziatori.
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Cento anni fa gli uomini politici di Washington non avrebbero concesso interviste ai giornali se non a pagamento. Oggi essi pagano scrittori-ombra che confezionano le loro biografie destinate a diventare dei film. Queste autobiografie non raccontano mai fatti compromettenti.
Fino alla fine del diciottesimo secolo il Senato vagliava le denunce dei giornali, tuonando “la discrezione è il nemico della democrazia”.
Oggi i giornali, alcuni giornali, pubblicano segreti riguardanti il Senato che vorremmo poter vedere sullo schermo.
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Il processo condotto sulle colonne di un giornale si usa ancora. Tutte le notizie ritenute impubblicabili, tutte le scene ritenute non adatte a venire filmate costituirebbero uno splendido film sul giornalismo. Esso conterrebbe fatti, personaggi reali, humour, emozioni, azione. Sarebbe spettacolarmente rivelatore. In esso il linguaggio dei caratteri di stampa si incarnerebbe. Si vedrebbe l'ardore della parola stampata diventarci immediatamente familiare sullo schermo. Andrebbe al di là della Bibbia, del giornale, del teatro. Darebbe vita alle parole, in emozionanti primi piani. Trasferirebbe da Gutenberg a Griffith, dai caratteri tipografici allo schermo, una precisa, vibrante sensazione di movimento visto con gli occhi, udito con le orecchie e ritenuto per sempre con il cervello. La vera storia di Edgar J. Hoover (2) potrebbe diventare un magnifico film, Non nell'anno 2000. Oggi.
Per poter fare un film del genere sul giornalismo io darei la mia linotype destra. Forse un giorno …. presto
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Questo articolo è stato pubblicato in Italia dal Mystfest a cura di Giorgio Gosetti nel catalogo di cui pubblichiamo la foto qui sopra
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(1)DA “AMERICAN FILM” VOL.1 N.1 OTTOBRE 1975. TRADUZIONE DI PIERO TORTOLINA
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(2) Clint Eastwood ha girato J.Edgar solo nel 2011. E non so se sia la vera storia.
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questo bellissimo autografo con disegnino è proprio di Sam Fuller, una dedica che mi ha fatto nel corso di una intervista del 1983 pubblicata sul manifesto. La cosa fu resa possibile grazie a Federico De Melis perché suo padre era l'editore musicale di Ennio Morricone e Fuller era a Roma per la colonna sonora di Thieves after Darkcon Bobby Di Cicco e Veronique Jannot. (r.s.)
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-23889295663802075612024-02-24T08:43:00.000-08:002024-02-24T08:43:47.066-08:00Storia obliqua del cinema 2. Come farei un film su Mussolini. Laura Salza incontra Samuel Fuller (a Cannes per “Il grande uno rosso”)
<i>Ho ritrovato questi preziosi fogli in cantina. Si tratta di un articolo non pubblicato dal manifesto 44 anni fa (in quel caso per mancanza di spazio, anche per le poche pagine, allora, dedicate alla cultura e all'arte dal quotidiano comunista). E' l'incontro della giornalista Laura Salza con Samuel Fuller è avvenuta il 18 maggio 1980 all'Hotel Montfleury di Cannes, alle cinque di pomeriggio di una giornata grigia e piovosa. Il grande uno rosso era stato presentato sulla Croisette due giorni prima, in concorso, e accolto senza l'entusiasmo meritato, almeno dallo zoccolo duro festivaliero.
Ricordo invece di aver visto il film crescente emozione ben tre volte in quei giorni, inseguendolo nelle varie repliche all'Ambassade o allo Star di rue d'Antibes (allora era possibile senza perdere il ritmo, rivedere i film apprezzati, passare lunghi pomeriggi in spiaggia e intervistare per ore i cineasti preferiti anche se non sei nessuno. Oggi il festival sembra piuttosto un campo di lavori forzati per addetti ai lavori compiacenti. La dittatura pr ti concede al massimo 10 minuti, e se proprio conti qualcosa).
Molto più entusiasmo era stato riservato dalla stampa scandalistica a uno dei protagonisti del film, l'ultimo rampollo della celebre famiglia Carradine, Bobby, di cui si era scoperto l'affettuoso legame con la bella Tessa Taylor (figlia della super star Robert) in vacanza in quei giorni in Costa Azzurra.
Essere liquidato dai critici di fascia A come il “solito Fuller di serie B” non sminuisce la bellezza di Il grande uno rosso, oggi considerato tra i più potenti e autentici film sulla seconda guerra mondiale, visto che era anche frutto di sconvolgenti esperienze dirette. Ma il fatto “e una certa schizzinosità dei grandi esperti ai quali non interessava intervistarlo, aveva un po' innervosito” - scrive Laura Salza - il grande regista che finalmente era riuscito a girare il film della vita.
Steven Spielberg nel 1998 dedicherà a Fuller le scene iniziali di Salvate il soldato Ryan, quelle della carneficina dei soldati americani durante lo sbarco in Normandia, perché furono tagliate dai produttori di Il grande uno rosso per la loro insostenibile crudezza.
Laura Salza, nata nel 1944 e morta nel 2015, “bellissima, affettuosa, spiritosa, appassionata” come scriveva nel neccrologio Nuova Informazione (organo della Federazione nazionale della stampa) era una giornalista politicamente impegnata (vicina alla sinistra del partito radicale) che scriveva di cultura, moda, spettacolo sui periodici Rizzoli. Evidentemente le avevano respinto la proposta (“a chi interessa Fuller?”) e ci aveva girato l'intervista con gentilezza e affetto per un'impresa che considerava molto vicina. Poliglotta (parlava perfettamente il russo), grande viaggiatrice, personalità esuberante divisa tra lavoro e militanza politica e sindacale negli anni 1970-’90 è andata in pensione nel 2005. Era stata sposata con Lucio De Carlini, segretario della Camera del Lavoro di Milano.</i> <b>(r.s.</b>)<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTkNvmJ022PY3-KLb_BxqcMA4tF3TASozIHao_SVETS-BTmAA3ppAOHu9EI38uoGx4XP77LFneWVYoN8t3UpwyKxALwLLIKEzMBUw3NPnUggKQUG4t92mNoCgszcSC65gsSDv-GnKLIqbXdB18O6u2V7zaLfS_2ywqUUZSe0OpV6r9WRjO-a_D5F5CMk4/s2700/fuller%206.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1778" data-original-width="2700" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTkNvmJ022PY3-KLb_BxqcMA4tF3TASozIHao_SVETS-BTmAA3ppAOHu9EI38uoGx4XP77LFneWVYoN8t3UpwyKxALwLLIKEzMBUw3NPnUggKQUG4t92mNoCgszcSC65gsSDv-GnKLIqbXdB18O6u2V7zaLfS_2ywqUUZSe0OpV6r9WRjO-a_D5F5CMk4/s400/fuller%206.jpg"/></a></div>
<b>di Laura Salza </b>
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjl7cTxwFSOkPF2uPdNtaMRbYsd81X9orPQrSXhtqXuLWHGSbulFmOjAhr5QvjCys5d8-wrvrVeUjnL03De04gST_88govpUKE07DrSJb4O07PTp-9RyQy3JWnYGO_p1IQv2E2eZZOigMmlwWriYCslC2P2uz2J8lcdlet2D_5Y9lfSQCruC2AQxxxoUJE/s272/fuller%202.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="185" data-original-width="272" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjl7cTxwFSOkPF2uPdNtaMRbYsd81X9orPQrSXhtqXuLWHGSbulFmOjAhr5QvjCys5d8-wrvrVeUjnL03De04gST_88govpUKE07DrSJb4O07PTp-9RyQy3JWnYGO_p1IQv2E2eZZOigMmlwWriYCslC2P2uz2J8lcdlet2D_5Y9lfSQCruC2AQxxxoUJE/s320/fuller%202.jpg"/></a></div>
All'inizio del nostro incontro Sam Fuller sostiene di aver già bevuto setto, forse otto Bloody Mary, il suo cocktail preferito. Ecco forse la spiegazione per le sue grandi risate e delle romanze improvvisamente intonate che hanno inframmezzato l'intervista. Che infatti comincia con la lirica.
<i>Fuller</i>: Caruso? Forza ragazza, parliamone. Quando ero piccolo, prima nel Massachussetts, poi a New York, dove ci siamo trasferiti, mia madre aveva tutti i dischi originali. Dischi di quel materiale che si rompe. Delicatissimo. Ho una nipotina, Samantha, che è abituata ai dischi di plastica e non glieli ho mai fatti vedere. Insomma: ho tutti i dischi di Caruso incisi prima della prima guerra mondiale. Ho anche qualche opera e le registrazioni di concerti tenuti negli anni Venti. Mi piace Caruso, come mi piace il Bloody Mary. Io vado all'Opera. Verdi e Puccini? Non posso fare paragoni. Sono grandi compositori? Il meglio! Le racconto un episodio. Siamo nel 1953, 1954. Io sono nel mio ufficio alla Fox. Una specie di bungalow. Nel bungalow accanto sono al laovro due compositori che scrivono canzoni. Io lavoro e sneto il piano. Scrivono la musica per A Many Splendored Things
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiU16jzKAtOPDcW7gv28b-wU3dFZ5u8kG5kz4AsPsJW7GH9ABaTtglerIH3WMwrFNfpTvB3b0FpRvZt77X_5mCKe8Sr88Qeod2oVpXn2HfnJBxFsm0c_jXG74n8Gb8JGHDLMFDy0kJ9AD2oNPecafFkkRPhwVe5rNXFpk-8sEnPQmY7bgGKZT3x5Aij35E/s428/fuller%203.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="200" data-original-height="397" data-original-width="428" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiU16jzKAtOPDcW7gv28b-wU3dFZ5u8kG5kz4AsPsJW7GH9ABaTtglerIH3WMwrFNfpTvB3b0FpRvZt77X_5mCKe8Sr88Qeod2oVpXn2HfnJBxFsm0c_jXG74n8Gb8JGHDLMFDy0kJ9AD2oNPecafFkkRPhwVe5rNXFpk-8sEnPQmY7bgGKZT3x5Aij35E/s200/fuller%203.jpg"/></a></div>
<i>Salza</i> Ah, per L'amore è una cosa meravigliosa di Henry King? Love is a many-splendored thing?
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<i>Fuller </i>.:No, no. Il libro dal quale il film è tratto si chiamava A Many Splendored Thing. La donna che l'aveva scritto, Han Suyin, era era un autore sstraordinario, che non aveva bisogno di scrivere “Love is...” perché tutto il libro parlava d'amore. Perciò l'aveva intitolato A many splendored thing. Duque sento i due compositori (il paroliere Paul Francis Webster e il musicista Sammy Fain ndr), da-da-da. Poi un giorno sento qualche nota in più: dadadada, dadadata, dadada. E un giorno: daaaaaang; poi ancora un attimo di silenzio e ancora due o tre note. Io mi dico: questa musica l'ho già sentita. Insomma hanno preso l'aria di “Un bel dì vedremo”, hanno separato le note inserendone alcune e il gioco è fatto: era nata un'aria nuova. Ma loro lo sapevano che, sotto, c'era la grande intuizione musicale di Puccini ed erano sicuri che quella musica sarebbe piaciuta al pubblico. Avevano ragione (e qui Fuller si mette a cantare: un po' di Puccini, un po' di L'amore è una cosa meravigliosa, accompagnandosi con il tintinnio dei cubetti del ghiaccio del suo Bloody Mary).
Io chiamo immediatamente la mia segretaria, “figli di puttana, sono, ladri, ladri, ladri e figli di puttana”. Glielo ho anche detto, ma loro mi hanno risposto tranquillamente: “Nessuno se ne accorgerà”. Come infatti è avvenuto. Quella canzone piace perché è quella canzone, non perché assomiglia a Puccini. E anche Verdi. Quando ero giovane, alla fine dell'anno scolastico c'era sempre una safilata davanti ai genitori, che venivano a ritirare il diploma finale. L'ambizione di tutti era di aprire la sfilata portanto la bandiera americana. Mia madre, che voleva che avessi quell'onore, per alcuni pomeriggi mi fece fare la prova in casa. Io, attento, la seguivo. Così quando a scuola si è trattato di scelgiere, il compito è stato affidato a me, che sapevo farla benisismo. Lo sa perché mia mamma mi aveva fatto esercitare? Perché lei in casa la musica ce l'aveva, prorpio quella che suonavano a scuola. Era la Marcia trionfale dell'Aida. Noi, nel Massachussetts, Verdi lo conoscevamo. Io sono sicuro che in Italia non lo conoscete. Voi lo usate per le cerimonie scolastiche?
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<i>Salza</i>: No
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<i>Fuller</i>: Stupidi figli di puttana. E' un autore così bravo! (canta la marcia dell'Aida agitando il bicchiere, nel quale è stato versato un altro Bloody Mary, mentre dall'altoparlante del Montfleury continuano ad essere chiamati i boss del cinema cercati al telefono. Fuller ogni volta si interrompe. Ma non è il suo nome quello chiamato).
Quello che cerco di dire è che, al loro paese, gli autori sono poco amati. Verdi, in Italia, sarà considerato un autore di arie, mntre in alcuni paesi lo considerano un grande compostore, e in altri un genio.Io sono stato allevato al suono della musica italiana. Allora, quando ero piccolo,i dischi costano 60 cent. Cinque dolalri di oggi. Caruso era famoso negli Stati Uniti. Io mi ricordo “Ridi pagliaccio...” (canta l'aria allargando le braccia).
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<i>Salza</i>: Lei ha visto Caruso cantare?
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<i>Fuller</i>: No, per forza, ero troppo giovane. Mia madre sì. L'aveva visto e sentito cantare in Cavalleria rusticana e Pagliacci, due opere che vengono presentate sempre insieme perché sono brevi. I biglietti per andare al Metropolitan, allora, si potevano acquistare dal barbiere. Costavano 5 dolalri, 60 di oggi. Erano molto cari ed era poca la gente che poteva permetterseli. Anche mia madre faceva fatica a trovare i soldi. Ma, come lei, c'erano altre 10 mila donne, 10 mila uomini che risparmiavano per andare a sentire Caruso. Risparmiavano perché sapevano che quell'uomo avrebbe dato loro della gioia.
Salza: E lei, regista, dà gioia ai suoi spettatori?
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Fuller: Oh no. A me piace che la gente, guardando i miei film, si senta colpevole.
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<i>Salza</i>: Parliamo di <i>Il grande uno rosso.</i> C'è una scena del film che ricorda Furia umana (White Heat), interpretato da James Cagney. Un uomo ha appena sparato a un altro quando entra in scena un terzo che annuncia la fine della guerra. Quando lei ha girato questa scena e l'ha scritta, ancora prima, nel libro Il grande 1 rosso, aveva in mente il film di Cagney o l'ha inventata?
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<i>Fuller</i>:Non ho visto il film di Cagney. Poi lui faceva tutti gangster-film. Io l'ho vissuta in Cecoslovacchia quella scena. Avevamo combattuto fino alle 4 del mattino. Anzi fino alle 4 e 10'. Una battaglia vera, non da film. A quell'ora, dal bosco, arrivano verso di noi 300, 400 uomini che urlano. Urlano che dobbiamo raggiungere tutte le postazioni rimaste senza contatti radio per riferire che a mezzanotte e un minuto è stata annunciata la fine della guerra. Noi avevamo combattuto fino a pochi minuti prima e fino a pochi minuti prima – a guerra finita – avevamo sparato ai tedeschi. Nei giorni successivi ci furono grandi imbarazzi: perché i tedeschi e gli americani e gli inglesi cercavano di dimostrare che gli altri avevano sparato dopo la mezzanotte, che gli altri erano colpevoli. E' un ricordo molto vivo, che mi ha dato l'idea per il libro e per il film: perché il voglio dimostrare l'ipocrisia della guerra. Basta un pezzo di carta firmato perché un soldato non sia più un soldato ma un assassino. Ma se tu non conosci quel pezzo di carta? Se vivi in un bosco dove non c'è inchiostro, non c'è carta, non c'è orologio, che si fa? Cè anche un precedente storico.Nel 1815 ci vollero 19 giorni di combattimentoprima che l'americano Andrew Jackson e il canadese Lafitte fossero informati che la guerra tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non era stata dichiarata. Era circolata la voce. Tutti ci avevano credeuto.
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<i>Salza:</i> Lo stesso accade oggi in Giappone. E' solo di poco tempo fa la notizia che su un'isola giapponese è stato trovato un soldato che non sapeva dcella fine della guerra...
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<i>Fuller</i>:Ogni due o tre anni trovano uomini che sono ancora nascosti sulle montagne, che se seontono tintinnare un bicchiere come faccio io si nascondono. Sentono rumori e non pensano che sei tu che stai andando a fare l'amore con il tuo uomo in una zona appartata. Gli hanno insegnato che l'americano è pronto a tutti gli inganni: perché dovrebbe credere a un elicottero che passa sopra la sua testa annunciando con l'altoparlante che la guerra è finita? E se fosse il nemico? Il governo giappnoese ha ammesso che ci sono ancora parecchie migliaia di persone, sulle isole deserte dell'arcipelago giapponese, che ignorano la fine della guerra. Quando vivi normalmente, sai che la mattina ti alzi, vai in bagno, bevi il tuo succo d'arancia, fai colazione. Che cosa dovresti temere? Ma quando sei in guerra e ti hann oinsegnato che ogni momento è buono perché qualcuno ti uccida, come fai a non sospettare di tutto? E' un po' la storia di quelli che gridano “Al lupo! Al lupo!..” Credo che ci fosse la stessa situazione in Italia, anche se io non ci ho mai combattutto. Io ho combattutto in Sicilia.
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<i>Salza</i>: La Sicilia non è in Italia ?
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<i>Fuller</i>:No. Se lei ha visto il film, ricorda la frase di Vinci che dice: “Io non sono italiano. Io sono siciliano”. Era difficile allora spiegare, in Sicilia, che noi andavamo a liberare l'Italia. E questa opinione, oggi, l'ammettono anche i generali. Basta guardare la cartina geografica e le zone occupate dai tedeschi. Che senso aveva partire dalla Sicilia? Noi, in Algeria, eravamo stati addestrati per sbarcare su un'isola che si chiama Sardegna. Mentre eravamo sulle navi ci comunicarono che andavamo invece a liberare la Sicilia. Che cosa significava a noi non importava, cosa potevamo saperne? Quanti nemici, questa era l'unica domanda che ci importava fare. D'altronde, il mio comandante era uno abituato a mangiare bene, a bere bene, a fare il bagno tutte le mattine, a giocare a bridge e a poker: dopo poteva andare a trovare i motivi giusti per spiegare a 12 mila soldati perché andavamo in Sicilia e non in Sardegna? Nel mio libro la scena in cui Vinci viene preso in giro per le sue origini siciliane è molto più lunga. Anche il mio film era molto più lungo. 4 ore e 20 minuti. Ma l'abbiamo dovuto tagliare, tagliare, tagliare. Quello che c'è nel film io l'ho vissuto. Sulla nave che mi portava in Sicilia, c'era un sergente simile a quello che ho messo nel libro e nel film. Si faceva gioco di un mio amico da anni, Nat Callura, di Filadelfia, di origini italiane, sotto le armi con me. Lo chiamava in tutti i modi, peggio dlele parole che ho portato sullo schermo. Callura non diceva mai niente. Un bel giorno succede che dobbiamo fare un'azione, andiamo a Caltagirone e questo sergente, un figlio di puttana che non dimenticherò mai (non è Lee Marvin , che nasce da 5 o 6 sergenti messi insieme) disse: “Mandate un uomo, mandate lui” idicando Callura. Ma Callura dice che ha paura e se la fa addosso. Allora lui, il sergente, fa vedere che lui, non essendo siciliano, è coraggioso. E va lui a fare l'azione, nella quale lascia la pellaccia. Molti sergenti sono morti così, non perché uccisi dal nemico, ma uccisi dai soldati che non li sopportavano più.
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<i>Salza</i>: Torniamo al Grande Uno Rosso. Solo lei e Jerry Lewis (che ha girato The day that clown cried) avete fatto un film sui campi di concentramento nazisti...
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<i>Fuller</i>: Alt, alt. Lei, gli altri, parlando di campi di concentramento in Europa, io di quelli negli Stati Uniti. Molti hanno parlato dei campi europei. Ma dopo Pearl Harbour, gli americani hanno raccolto tutti i giapponesi in campi in California e in Arizona. Io ho fatto un film su questa verità che è costata molto ma che pochi hanno avuto il coraggio di ricordare, di riferire le cose che dico. E si capisce perché. Quando si è colpevoli, si preferisce tacere. Io ho parlato con il mio giardinere (è il Giako del film). Mi ha dato l'indirizzo del campo d concentramento in California in cui erano rinchiusi suo padre e sua madre. Cosa faccio dire io nel film al giovane catturato da un giapponese? “Come puoi combattere qualcuno che ha gli stessi occhi che hai tu? Come puoi combattere al fianco di quelli che mettono nei campi di concentramento la gente con la faccia come la tua?”. Ho avuto molte rogne per quella sequenza. Mi hanno chiesto tutti dove avevo preso queste informazioni. Ho riposto. Me lo ha detto il mio giardiniere, viene da me tre volte la settimana, potete chiedere a lui. Nessuno ha mandato nessuno a controllare. Ho fatto un film in cui un soldato americano uccide un prigioniero comunista. Bene. Quando usì il film la stampa reazionaria mi ha attaccato perché facevo vedere un soldato che uccide un prigioniero di guerra. E la stampa comunista (per esempio il People World) mi ha accusato perché facevo vedere un soldato americano che uccide un prigioniero di guerra. Ci sono persone di ben scarso valore, che non danno nessun contributo alla civiltà, ma rappresentano solo partiti politici. (Su una immaginaria macchina da scrivere Samuel Fuller fa finta di trascrivere gli ordini: John George, 27 anni, deve essere fucikati stanotte perché fascista, no no, John Geroge, 27 anni, deve essere ucciso stanotte perché comunista, no no, John George, 27 anni, deve essere ucciso stanotte perché socialista, no perché è del partito del New Jersey o di qualche altro cavolo. Sghignazza. Si prende ilk naso e fa gli occhiacci.
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Io i partiti li ho cacciati fuori dalla mia vita. Ho i miei amici. Esco a cena con loro., bevo con loro. Non voglio funzionari. Lei lo sa cosa sono i funzionari?Sono i premier. I cancellieri. I dittatori. Sono persone molto importanti. Ma adesso lei è fortunata, tutti quelli che sono qui sono fortunati sono fortunati, perché c'è la bomba H, la c osa più bella del mondo. E' così bella che non ci sarà più una grande guerra, non può più esserci. Tutte quelle persone importanti non possono più permettersi di arricchirsi con la guerra. Con la bomba H, dicono gli scienziati, ci sarebbe solo distruzione. Naturalmente dal 1946 ci sono state guerre, ma piccole. Corea, Vietnam, Afghanistan, Shoganistan, Smakisistan, Fazanistan, ah, ah. Ma è questa, ancora una volta, l'ipocrisia. Perché i morti sono sempre lontani. Chi è vivo è vivo. Chi è morto è morto.
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Un giorno si farà un film con i veri nomi. Come Mussolini. Un uomo con un a testa, con le orecchie, con gli occhi. Un uomo che ha fatto la storia. Un rivoluzionario. Un grande capo socialista, un giornalista, un gangster leggendario, come Jesse James, il più grande dittatore. Che un giorno, guardandosi attorno, ha visto qualcuno che mangiava piatti di spaghetti più grandi dei suoi. Perché io no? Si è chiesto?E allora è andato dai grandi capitalisti a dire: non preoccupatevi, ci sono qui io, li scriveràò io i discorsi per Vittorio Emanuele, sono più bravo. Gli operai mi ammireranno. Le donne saranno dalla mia parte. Creerò un'organizzazione che controlelrà tutto. E si mise la camicia nera (grandi scoppi di risate).Era sposato, Trovava molte donne. Questa è proprio una bella storia di un uomo venduto, che non avrebbe mai pensato, un giorno, di finire appeso per i piedi. La più fortunata è stata la moglie: perché l'amante per i piedi, gliel'ha appesa qualcun altro. La fine di questa storia dovrebbe coincidere con quello stupido discorso fatto da quello stupido di Vittorio Mussolini, quando ha dovuto giustificare le stragi fatte dagli italiani in Etiopia. Come hanno dovuto fare gli americani per il massacro di My Lai, in Vietnam. Hailé Selassié era già andato a Londra a chiedere aiuto. Aveva detto che l'Italia stava diventando troppo forte e che aveva trovato un grande e forte amico, la Germania. Ma gli americani non gli hanno dato ascolto, perché non amano i re, i monarchi. Ecco l'ipocrisia degli uomini: se selassié si fosse presentato come un uomo qualunque sarebbe stato ascoltato dagli americani. Insomma Vittorio, che era stupido, disse c he quei morti in Etiopia non facevano impressione: che erano come tanti fiori rossi sbocciati all'improvviso. Che macabra immagine gli avevano suggerito quei cadaveri....
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<i>Samuel Fuller potrebeb parlare per ore. Gli piace discorrere di storia, ma le prime gocce di pioggia ci costringono a lasciare la terrazza dell'hoter Montfleury e a rientrare. Ha ancora un'intervista in programma, dobbiamo lasciarci. Ancora un minuto per ricordare che ha lavorato in n film di Wim Wenders sulla vita di Dashiel Hammett. Un'esperienza che gli ha lasciato una grande voglia di ridere.
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il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-68440653465542265422024-02-17T07:49:00.000-08:002024-02-17T07:52:12.467-08:00STORIA OBLIQUA DEL CINEMA 1
Come è importante il nero nel cinema a colori. Cos'è l'ENR?
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh0YwZdUMKnzaORrCwUzO-A1iH341YU00nngnB2c6RBODUzUs2aPDRHvANXz4SKiS9qa7qbQOva7WmJ8WgS6JzIKbTEqm92u-bCrKP6S82zf_27PCyA-g1G2MbQSrd30ApNdcd01EoFoI_NWsSsvicUWRyhScLsTzlgihG9m_PNgS_Qcwveo-Te1HxjbC0/s700/novelli%20reds%20storaro.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="460" data-original-width="700" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh0YwZdUMKnzaORrCwUzO-A1iH341YU00nngnB2c6RBODUzUs2aPDRHvANXz4SKiS9qa7qbQOva7WmJ8WgS6JzIKbTEqm92u-bCrKP6S82zf_27PCyA-g1G2MbQSrd30ApNdcd01EoFoI_NWsSsvicUWRyhScLsTzlgihG9m_PNgS_Qcwveo-Te1HxjbC0/s400/novelli%20reds%20storaro.jpg"/></a></div>
Roberto Silvestri
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZfhsqmKCAy9GP6KLDHhZwdKkIaeXHeX9RJxp00-MA7NffxfwSSLKbYTamtUOZp5DUR0XKUcPbbHHCdHSmUCBynSAgCbhBy6vA1ksLiMf-8D1vgmbkovDMK0Re32kBStMlUGETqFmwPGTslTYYScQ3U-Q5u9xz_OBlrg1BfvOEa42VOpM4dQ9Pfhlm9H8/s1200/novelli%204%20one%20from%20the%20heart.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="675" data-original-width="1200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZfhsqmKCAy9GP6KLDHhZwdKkIaeXHeX9RJxp00-MA7NffxfwSSLKbYTamtUOZp5DUR0XKUcPbbHHCdHSmUCBynSAgCbhBy6vA1ksLiMf-8D1vgmbkovDMK0Re32kBStMlUGETqFmwPGTslTYYScQ3U-Q5u9xz_OBlrg1BfvOEa42VOpM4dQ9Pfhlm9H8/s400/novelli%204%20one%20from%20the%20heart.jpg"/></a></div>
Il 28 febbraio 1983 al Filmstudio di via Orti d'Alibert, Roma, Armando Leone e Cristina Misischia organizzano un incontro con Ernesto Novelli dal titolo “La tecnica del colore”.
Questo che trascriviamo qui sotto è il ciclostilato di presentazione curato per l'occasione.
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La scuola italiana di cinefotografia anni 50 e 60 è rinomata nel mondo. Rossellini, Visconti, Fellini, Antonioni, Rosi, Maselli vogliono dire anche Giuseppe Rotunno, Dario Di Palma, Gianni Di Venanzo, Pasqualino De Santis e tanti altri. Ma anche la qualità della nostra cinefotografia a colori è stata altissima. E c'è un perché chimico-tecnologico dietro a questa supremazia. Non solo il nome del 'Mozart' del cromatismo ottico.
Vittorio Storaro, forse il primo italiano ad aver saputo tradurre, in modo creativo, un know how sostanzialmente bianco e nero nel complesso e dominante colonialismo tecnico del Technicolor, scovò e incoraggiò infatti, in uno stabilimento che ne portava il nome, Ernesto Novelli, datore luci di straordinario coraggio e sensibilità, e un altro tecnico di sviluppo e stampa, il padre dello scrittore Christian Raimo (morto nel 2009).
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Grazie a un sofisticato procedimento chimico da loro inventato (ENR, dalle iniziali di Enrico Novelli & Raimo), si riuscì a controllare, in modo molto più efficace del solito, il contrasto e la saturazione cromatica laddove serviva esaltare i segni e contorni sagomanti del nero. Fu anche grazie a questo ricercatissimo procedimento che Storaro vinse tre Oscar per Apocalypse now, Reds e L'ultimo imperatore. Tra i contributi artistici di Ernesto Novelli & Raimo ricordiamo anche Ultimo tango a Parigi, Novecento, Il portiere di notte, L'innocente, La città delle donne, un sogno lungo un giorno, La tragedia di un uomo ridicolo, Ho fatto splash, Delicatessen Sembra morto ...ma è solo svenuto. Il 31 dicembre 2013 gli stabilimenti italiani della Technicolor chiusero per sempre i battenti (la società oggi è francese...) licenziando 94 dipendenti (ma erano arrivati a 1000 ai tempi d'oro della Hollywood sul Tevere).
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Christian Raimo racconta così su Repubblica (poi pubblicato sul blog di approfondimento culturale Minima & Moralia) l'invenzione che fecero suo padre e Ernesto Novelli:
“A poco più di trent’anni a mio padre capitò di inventare un processo chimico che “se l’avessi brevettato saremmo ricchi”. L’aneddotica vuole che su un pezzo di pellicola fossero rimaste delle tracce di qualche sale d’argento (utilizzato nel processo di sviluppo e poi fatto precipitare). Pasqualino De Santis, il direttore della fotografia Oscar per Romeo e Giulietta di Zeffirelli, vide questo pezzo e disse: “Voglio quell’effetto lì”; mio padre e il datore luci Ernesto Novelli cercarono di accontentarlo. In realtà si trattava di aggiungere ai tre filtri che costituivano la pellicola a colore (il magenta, il cyan e il giallo) una specie di quarto filtro bianco/nero realizzato con un bagno di bromuro d’argento. Siccome l’argento si annerisce alla luce bianca, l’immagine acquista in nitidezza: i neri che assomigliano a bluastri nella pellicola senza ENR con l’ENR sono molto neri, i colori sfarinati diventano iperdefiniti, si accentuano i contrasti. Il primo film che uscì con questo metodo fu Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, nel 1976. Quella generazione aurea di direttori della fotografia s’innamorò tutta dell’ENR: Peppino Rotunno, Dante Spinotti, Pasqualino De Santis, ma soprattutto Vittorio Storaro. L’utilizzo che Storaro fece dell’ENR diventò una specie di paradigma dell’immagine cinematografica...C’è una foto che ogni tanto mi tornava tra le mani quando nei giorni di festa le catalogavo da bambino: quella di un tavolo ovale, in un ufficio di legno alla Technicolor, un gruppo di poco più che ragazzi sorridenti, vestiti con completi beige stretti in vita e camicie dai colletti enormi, mio padre con i baffi foltissimi, e la statuetta dell’Academy proprio al centro del tavolo”.
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La tecnica del colore – Incontro con Ernesto Novelli
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di Armando Leone e Cristina Misischia
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Il romano Ernesto Novelli, consulente tecnico del colore presso la Technicolor italiana da 27 anni, è un esempio eloquente quanto sconosciuto di una vita dediacta al cinema. Appassionato autodidatta, a soli 15 anni inizia l'apprendistato con Boschi, per poi lavorare alla Technostampa, alla Spes, alla Cinabo e dal 1977 al 1979 a Cinecittà con Bernardo Bertolucci e Federico Fellini. Entrato nel 1956 negli stabilimenti romani della Technicolor e subito conteso da registi quali John Huston, Roger Vadim, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Franco Zeffirelli, ha elaborato e sviluppat i procedimenti chimici dei primi film a colori e, rifacendosi all'autokrome (con cui si immette il colore nel bianco e nero, lasciando che i contorni di quest'ultimo rimangano vagamente sfumati), ha inventato uno speciale trattamento della pellicola cromatica: il cosiddetto sistemaENR . Vittorio Storaro che lo ha scelto ed applicato alla realizzazione di Reds di Warren Beatty, ha conseguito nel 1982 l'oscar per la migliore fotografia. Novelli, che ha collaborato agli ultimi successi cinematografici di Antonioni (Il mistero di Oberwald) e di Coppola (Apocalypse now, One from the Heart), attualmente segue la preparazione di La nave di Fellini.
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Perché un tecnico?
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhn23NPuDC6OpjfCBA2PJmSI01pAlGX17qllXzHRH5jTNDYYKF89snzMfDECavW1bOXefEQ5gOzkvcDHgjNVPc08PlRbHu-BppNvUcZHsmpgs14wJ9yrT3J8gPGOjLU4sBOv3NuN_7RuhOwAhThudoTbppPPgK5YoPD7ZSM3IGhU1331dpROt2q88XL3n4/s474/novelli%2012%20sembra.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="297" data-original-width="474" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhn23NPuDC6OpjfCBA2PJmSI01pAlGX17qllXzHRH5jTNDYYKF89snzMfDECavW1bOXefEQ5gOzkvcDHgjNVPc08PlRbHu-BppNvUcZHsmpgs14wJ9yrT3J8gPGOjLU4sBOv3NuN_7RuhOwAhThudoTbppPPgK5YoPD7ZSM3IGhU1331dpROt2q88XL3n4/s320/novelli%2012%20sembra.jpg"/></a></div>Filmstudio invita a parlare Ernesto Novelli non soltanto perché uno specialista dell'esperienza pluridecennale possa illustrare agli addetti asi lavori e agli interessati i nuovi e sofisticati sistemi ENR e SCS (o processo di super saturazione del colore), o ancora chiarire le differenze tra il colore chimico e il colore elettronico, quanto piuttosto per dare risonanza a ciò che si verifica e si realizza “dietro le quinte” di un film, nelle mani di tecnici straordinari (oggi sop
rattutto italiani) pressoché sconosciuti al pubblico, sacrificati dall'assoluto protagonismo degli autori, dei registi, dei direttori della fotografia nell'ambito della cultura cinematografica.
Incontrare Novelli è un po' come scoprire la parte sommersa di un iceberg, quell'universo di tecnici, operatori, macchinisti, elettricisti il cui contributo risulta essenziale alla creazione di un film., il cui lavoro d'equipe, la cui ricerca e affidabilità costanti rendono possibile la presentazione degli attuali superprodotti dalal qualità tecnica (e non soltanto poetica) riconosiuta universalmente potente.
Vittorio Storaro, ricordando l'esperienza americana di Apocalypse Now, conferma il nostro pensiero: “Da circa dieci anni lavoro sempre con la stessa equipe. Non l'ho mai cambiata. Rappresenta un po' la mia famiglia professionale...il regista è come un direttore d'orchestra, il direttore delal fotografia è un solista di questa orchestra ma lavoriamo tutti per esprimere nel miglior modo possibile l'idea di un film”....e ancora: “Copola ha accettato che io portassi dall'Italia la mia equipe e che i negativi del film (così come è avvenuto per One from the Heart) fossero sviluppati e stampati alla Technicolor romana dove con i sistemi ENR e SCS là messi a punto, si possono raggiungere risultati incredibili”.
Storaro testimonia così della grandissima richiesta da parte di tutto il mondo di direttori della fotografia italiani e dei tecnici che li assistono, capaci di “personalizzare” il colore, in grado cioé di trattarlo diversamente per ogni film, salvandolo dalal standadrdizzazione.; e di come i lungimiranti e ancora una volta tempisti americani abbiano potuto accettare un compromesso tanto anomalo quale quello di spedire an n. 1138 di via Tiburtina, i giornalieri girati nei loro set, avendo compreso, per usare le parole di Warren Beatty riferite a Reds che “ne valeva certamente la pena”. Ùormai la gestione mediante tecniche sempre più efficaci e sofisticate delel infinite capacità suggestivo-espressive del colore che secondo Antonioni “sembra essere il vero depositario di un nuovo linguaggio cinematografico” rende reale e raggiunto il profetico slogan di Méliès: “Al cinema tutto è possibile”.
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-38226179530864634722024-02-17T03:17:00.000-08:002024-02-17T03:17:02.781-08:00Raccordi morali. Il cinema "straubico" di Danièle Huillet
Roberto Silvestri <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgogLQLPDrezmU_yVvg1lZIra7ZrkCT18sIgdzIEYor3y2kif0-ToDRV7OiYhBr-xlT4GrAAJyynwmuHCgo4ZtpYKDKOYk5mneq36Cuk_I-ENRRx5f3OwAQLmcGeZUF3QZ0h06-BTfi0UHYK_3PhijXVNNjMX9l7W_OCvswPtYrvL1aE8-Kn4ZCQ-JdzK0/s655/daniele%20e%20jeam%20marie%2010.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="434" data-original-width="655" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgogLQLPDrezmU_yVvg1lZIra7ZrkCT18sIgdzIEYor3y2kif0-ToDRV7OiYhBr-xlT4GrAAJyynwmuHCgo4ZtpYKDKOYk5mneq36Cuk_I-ENRRx5f3OwAQLmcGeZUF3QZ0h06-BTfi0UHYK_3PhijXVNNjMX9l7W_OCvswPtYrvL1aE8-Kn4ZCQ-JdzK0/s320/daniele%20e%20jeam%20marie%2010.jpg"/></a></div>
“Il linguaggio filmico di Straub-Huillet è, tra l'altro, un linguaggio che privilegia il poco, un linguaggio di economie. E' anti-barocco. E' la creazione di uno spazio talmente limpido e fortemente studiato e necessario, che qualsiasi movimento, poi, qualsiasi scarto, qualsiasi trasgressione (studiata o fortuita) all'immobilità e al silenzio, vi acquista una risonanza enorme, mette in moto una catena inarrestabile di conseguenze espressive... Straub-Huillet ci mette sulla strada dell'utopia estetica più radicale: quella di un'arte che smetta di essere altro dalla realtà per aiutarci – con indifferenza, purezza, ostinazione - semplicemente a viverla”(Giovanni Raboni, Vita e Pensiero n.6/7 1971)<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-UTZCUZYfj8dFOfUpT4MQGNYz6k_8ALrCkwu0WwNzFSGkbImgAiH8MVlPZoddxP0IbeNconzFUTUMnyLwcYtYF1CrTr01OUyqGJltwTiEWOkn-zRD9QQzhSFaoT8eyQyjsc5uvaeT-WtF6SM7dQiaM1DvW-ekOxsziHbuOu8ppQWJNub3h0328wDM9JU/s768/straub%20pugno%20chiuso.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="512" data-original-width="768" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-UTZCUZYfj8dFOfUpT4MQGNYz6k_8ALrCkwu0WwNzFSGkbImgAiH8MVlPZoddxP0IbeNconzFUTUMnyLwcYtYF1CrTr01OUyqGJltwTiEWOkn-zRD9QQzhSFaoT8eyQyjsc5uvaeT-WtF6SM7dQiaM1DvW-ekOxsziHbuOu8ppQWJNub3h0328wDM9JU/s320/straub%20pugno%20chiuso.jpg"/></a></div>
Scrivere su Straub-Huillet, così come sul suo compagno d'arme Jean-Luc Godard, quant'è difficile! Eppure come è indispensabile districare il loro modernismo (intessuto di Brecht, Kafka, Renoir, Fortini, Schoenberg, Boell, Vittorini, Pavese, Cezanne, Malraux, Bernanos...) rispetto al coevo - e a volte è “pura fiacchezza” direbbe Straub - cinema della modernità (“non si può tagliar a caso tra due inquadrature” in nome della forma che è forma che è forma....Non si può misurare la grandezza di un regista dal budget dei suoi film che crescono progressivamente a dismisura, e che per Bunuel e Nic Ray, era l'orrore di Hollywood). Ogni critico cinematografico dovrebbe confrontarsi con le opere di Straub-Huillet (in ordine alfabetico capovolto) che schiudono non superficiali immersioni esistenziali, letterarie, storiche, scultoree, fonetiche, musicali, pittoriche, circensi, soprannaturali e politiche, prima di esprimere giudizi e verdetti d'arte e parlare di barocco, camp, cinema d'autore, manierismo, romanticismo, classicismo, trash o postmodernismo... Infatti. Negli anni 60 e 70 i cineasti di ricerca, gli underground soprattutto, scrivevano anche presentazioni-prosecuzioni-provocazioni a proposito dei loro film (in forma di auto-recensione o di suggestione o di premessa o di aiuto, o di depistaggio) per contribuire a finish ricettivi più rigorosi cioé stupefaceni. Così, quel che pubblichiamo qui sotto, è la nota di presentazione scritta da Straub su Othon, il primo lungometraggio italiano della coppia che di impero romano tratta, parallelamente alle riprese di Claro, il film che contro l'Impero romano Glauber Rocha e Juliette Berto giravano attorno al Colosseo a ai Fori (che come diceva Franco Citti a Ninetto Davoli erano i quartieri “fori dar centro e dai palazzoni dei ricchi patrizi nell'antichità”). Lo scritto è stato proposto in forma di ciclostile dalla Deutsche Bibliothek di Roma del Goethe-Institut per le proiezioni di lunedì 20 marzo e martedì 21 marzo 1972 di Il fidanzato, l'attrice e il ruffiano (1968), Les Yeux ne voulent pas en tout temps se fermer ou peut-etre qu'un jour Rome se permettra de choisir a' son tour, cioè l'Othon da Corneille (1969), Machorka-Muff, da Heinrich Boell (1962) e Cronaca di Anna Magdalena Bach (1967). Del quale Straub scrive: “Il punto di partenza era l'idea di tentare un film nel quale la musica venisse utilizzata non come accompagnamento, né tanto meno come commento, ma come materia estetica. Si potrebbe dire in concreto che volevamo cercare di portare della musica sullo schermo. Tutti sanno che Bach è morto da diversi anni e io non intendo tentare di dare l'illusione di avere risvegliato Bach dalla morte. Per questo prendo un tale che si chiama Gustav Leonhardt e che non deve necessariamente somigliare a Bach...Non diremo ecco Bach. Direi piuttosto che si tratterà di un film su questo signor Leonhardt”. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKSnRHGsaJthL-iSJvV4ayoluoTKwzc2KEuCr3X8bw591AvBL7RU7tS7ucGbSzazLWamxppoB3YtYaelP95Gr2t27YvqyJXS3uQnJPVMbK4DhiXF49YqmiHimSaH5fKei0NEyAT53O47DpqjQGvcNog-WQx36Ybar39IzfMuSgQbeH-wgzRz_BZjk4NmQ/s575/daniele%20e%20jean%20marie%20locarno%209.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="365" data-original-width="575" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKSnRHGsaJthL-iSJvV4ayoluoTKwzc2KEuCr3X8bw591AvBL7RU7tS7ucGbSzazLWamxppoB3YtYaelP95Gr2t27YvqyJXS3uQnJPVMbK4DhiXF49YqmiHimSaH5fKei0NEyAT53O47DpqjQGvcNog-WQx36Ybar39IzfMuSgQbeH-wgzRz_BZjk4NmQ/s320/daniele%20e%20jean%20marie%20locarno%209.jpg"/></a></div>
Comunque il cinema S-H attira sempre più pubblico: l'esperienza schermica è, infatti, unica per comprendere cosa ci fu di dionisiaco e apollineo a un tempo nella “soggettività desiderante”, cuore del sistema epistemico sessantottino-settantasettino. Col termine “episteme”, Foucault designa l'ampio campo discorsivo in cui si posizionano in una determinata epoca i sentimenti (odio, amore) e le conoscenze, da quelle più intuitive fino a quelle maggiormente formalizzate. Più che di “pubblico” nel loro caso si tratta di “spettatori non riconciliati con i padroni dell'esistente”. Come diceva Straub: “Sono le linee di demarcazione che creano il nostro pubblico. E le linee di demarcazione finiscono per essere, in un modo o nell’altro, linee che corrispondono alle divisioni in classe e alla lotta di classe”. Jean Cocteau aggiungerebbe una frase che piaceva molto a Straub-Huillet e che riportarono nella nota di presentazione alla Berlinale (e poi a Locarno e Venezia) di Non riconciliati (Nicht Vershont), il film del 1965 che in 60 minuti percorre mezzo secolo di storia tedesca: “Sono le famose 'elites' a sbarrare il nostro cammino. Il popolo è sensibile alla bellezza, anche se lo confonde. E i nostri film che sono accusati di essere fatti per una minoranza devono saltare quell'ostacolo e cadere in questa maggioranza che giudica sempre più istintivamente e non è ancora chiusa al nuovo dalla routine delle mode”.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguMAbxuLECpj33uR2b3B_17u7aStKwfvhjJCvo7Dl3tMqNNvgK4kSHhCYw6mZZ4GNpsF85jEshu8VY-yvpSTHXru6FhZVB17z-sKOMpDLcCGiecq34wPncHK1ugmM_jt1C7Iyqd8-w184EHmfLP4jaArcLcJZALZsErbdRzU23_kJjW1wqhVw6uf0zEd8/s1000/daniele%20e%20jean%20marie%208.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="320" data-original-height="1000" data-original-width="703" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguMAbxuLECpj33uR2b3B_17u7aStKwfvhjJCvo7Dl3tMqNNvgK4kSHhCYw6mZZ4GNpsF85jEshu8VY-yvpSTHXru6FhZVB17z-sKOMpDLcCGiecq34wPncHK1ugmM_jt1C7Iyqd8-w184EHmfLP4jaArcLcJZALZsErbdRzU23_kJjW1wqhVw6uf0zEd8/s320/daniele%20e%20jean%20marie%208.jpg"/></a></div>
Il cineasta portoghese Pedro Costa nel 2001 nel crito-film, ovvero nel volantino di presentazione, Jean-Marie Straub-Danièle Huillet cineasti – Dov'è finito il vostro sorriso nascosto? penetra nella sala montaggio di Sicilia! alla ricerca del metodo di messa in forma di un pensiero. “C'è l'idea, poi una materia da combattere e poi la forma. Le cose esistono solo quando trovano un ritmo, una forma, come la libertà. La libertà di cui si straparla in astratto è molto materiale: è come la libertà di un musicista che è libero quando domina perfettamente la sua macchina. Tommaso d'Aquino che era napoletano e conosceva bene queste cose diceva che l'anima nasce dalla forma del corpo. L'ho detto 40 mila volte”. Vi si scopre qui, grazie a Pedro Costa, che Danièle continua a chiamare “Straub” dando a volte del lei al suo partner di sempre e che non è affatto vero che lei si occupava soprattutto di immagini sonore e di montaggio mentre lui degli aspetti visivi, ogni frazione di secondo è discussa per ore insieme, non senza polemica (c'è o non c'è una sfumatura irridente, gli occhi che ridono, in quel primo piano? Ed eccoli a cercare quel sorriso nascosto...). Bunuel, Eisenstein, Tati e Mizoguchi, sì. Cassavetes e Woody Allen, no, “non fanno che variazioni su generi televisivi”. Musica? Bird non “Dixie”! E “non abbiamo mai usato una segretaria di edizione. Certo che quella di Hitch, però, era fantastica. E: “la psicologia non deve essere degli attori che recitano ma del passaggio di montaggio -attrattivo- tra un piano all'altro, lì avviene qualcosa di molto più complesso della psicologia, una questione di etica”. Il raccordo morale. Il femminismo di Huillet ricorda quello di Rossanda e Von Trotta: la questione delle donne, piuttosto che essere una questione politica separata, rientra nella politica della sinistra rivoluzionaria. Ma. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjyiKU5tx9ZOjipaAKvqhmVf_FhnLOzpR8aEXwf6W65AmyJwR9CwlBJJMooiRDVtxw_aGJ79iEVTAZqkfT3plZnqSjej6RsdM5yo_YASeAG-NyePK4xhooXASZdHRCWqhfwzmUrSNOSIZgSVZAm6WnO5xyZ0sk5y_tcpptO2CRy9JMmjSqdp2nJRgQjMsI/s2249/daniele%20e%20jean%20marie%207.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1772" data-original-width="2249" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjyiKU5tx9ZOjipaAKvqhmVf_FhnLOzpR8aEXwf6W65AmyJwR9CwlBJJMooiRDVtxw_aGJ79iEVTAZqkfT3plZnqSjej6RsdM5yo_YASeAG-NyePK4xhooXASZdHRCWqhfwzmUrSNOSIZgSVZAm6WnO5xyZ0sk5y_tcpptO2CRy9JMmjSqdp2nJRgQjMsI/s320/daniele%20e%20jean%20marie%207.jpg"/></a></div>
In un acutissimo saggio del critico dei Cahiers du cinema Jean-Claude Biette su “Troppo presto, troppo tardi” (1982) - il montaggio di due documentari, uno sulla campagna francese e l'altro sulla campagna egiziana commentati in voce off da Engels (sulla condizione dei contadini dell'esagono prima del 1789) e di Mahmoud Hussein (sulla storia egiziana e sugli sforzi per uscire dal colonialismo) leggiamo:
“Credo che in tutti i film di Straub-Huillet si mescolino attivamente due passioni, la politica e l'estetica. La prima fondata sull'odio e la seconda sull'amore. Nei loro film l'odio è il motore della passione politica, l'amore quello della passione estetica. E' infatti una questione di passioni, e questo appare sia quando i film vengono violentemente rifiutati che quando sono amati. Due tipi di personaggi o di figure ne rappresentano i poli: gli uni, positivi, sono sia i resistenti, personaggi particolarmente forti o non totalmente lucidi (come la nonna di Non riconciliati) o di una lucidità che eccede la realtà (il Mosé di Schoenberg) che gli artisti (dalla forte capacità di resistenza): Brecht, Pavese, Fortini (con, in quest'ultimo caso, la fortuna di poter mettere faccia faccia l'autore con i propri scritti). Gli altri, negativi: banchieri, avvocati, militari, uomini di potere, agenti della repressione e democratici opportunisti... Ma l'odio e l'amore non sono puri e e non appartengono a una sola parte: il primo che sarebbe rivolto ai personaggi negativi e la seconda ai positivi. D'altra parte l'odio non è una colorazione esclusiva della passione politica (Straub-Huillet ama gli oppressi), né l'amore la colorazione esclusiva della passione estetica (odia i clichés, le inquadrature senza senso, le durate inutili, la pornografia – intesa come belluria, orpello, esagerazione ridondante, colorazione sentimentale eccessiva; ndr). Odio e amore sono strettamente legati e scambiati, ma questo innesto di due passioni - la cui composizione esatta ci sfugge - è precisamente quel che orienta la più o meno grande riuscita dei suoi film...”. Naturalmente sia i personaggi positivi che negativi nella loro iscrizione cinematografica straubiana sono trattati nella stessa maniera, in modo quasi democratico, creando effetti di spaesamento di fronte ad attori divisi tra un testo da memorizzare in maniera non naturalistica e una macchina corporale che vorrebbe liberare la propria energia liberamente ma ha il dovere di sottomettersi agli ordini misteriosi e implacabili di ciascuna inquadratura.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh17Ihy8p7mkjZwfP-DzDQGWmOHUgKZiRuK8-USEYu9f1cDC3zc_gXVRxqlsm1YhqBQ2S7h_i5mLgXGtA6Ne_HKgiwDApAHuDkoMeCY3E1AlTukTolzDJVrdH_gLDdTB7t6DeRcbV6p4u1ucLZvMyFMRNNY7sGq93MFeO1D1Trfz-CzqJmYT9Vyk0tmhPE/s500/daniele%20e%20jean%20marie%206.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="364" data-original-width="500" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh17Ihy8p7mkjZwfP-DzDQGWmOHUgKZiRuK8-USEYu9f1cDC3zc_gXVRxqlsm1YhqBQ2S7h_i5mLgXGtA6Ne_HKgiwDApAHuDkoMeCY3E1AlTukTolzDJVrdH_gLDdTB7t6DeRcbV6p4u1ucLZvMyFMRNNY7sGq93MFeO1D1Trfz-CzqJmYT9Vyk0tmhPE/s320/daniele%20e%20jean%20marie%206.jpg"/></a></div>
A Tokyo (fino al 16 marzo) e alla Cineteca di Parigi (fino all'11 marzo) sono state organizzate due retrospettive complete delle opere di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Il sito ufficiale Straub-Huillet ci aggiorna comunque periodicamente sulle proiezioni dei loro film in tutto il mondo (più in Thailandia che in Italia per la verità nel 2023). Ma sono disponibili su RaiPlay almeno quattro delle 52 opere - lotta tra le idee e la materia - di Jean-Marie Straub (30 firmate con Huillet), si tratta degli ultimi lavori, in lingua originale con sottotitoli del solo Jean-Marie: L’Aquarium et la Nation (Francia, 2015, 31'18”, testi da André Malraux, Les Noyers de l’Altenburg e The Walnut Trees of Altenburg); Où En Êtes-Vous: Jean-Marie Straub? (Svizzera, 2016, 9'), Les Gens Du Lac (Svizzera, 2018, 18'44”, testo di Janine Massard), La France Contre Les Robots (Svizzera, 2020, 9'53” dal testo di Georges Bernanos). E su Mubi c'è Omaggio all'arte italiana (2015).
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi60LWmqpYMkmvJ8sGBZY2wJibq-4eNYR_hvocFMFKWsf8gYDO2DzaHIcAB64ZXQDFEVXSpdW2PfCrL5RAkz2id391bTtavZU6lKKrqn2S_so2SsepKJMoqX1N9DPGjN_wax-kSiwCv0BexAUm9LOWG6IT4pN-HLXqZVVyclEnOGSsTWgh7nwDxtRxho6k/s1400/daniele%20e%20jean%20marie%205.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="963" data-original-width="1400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi60LWmqpYMkmvJ8sGBZY2wJibq-4eNYR_hvocFMFKWsf8gYDO2DzaHIcAB64ZXQDFEVXSpdW2PfCrL5RAkz2id391bTtavZU6lKKrqn2S_so2SsepKJMoqX1N9DPGjN_wax-kSiwCv0BexAUm9LOWG6IT4pN-HLXqZVVyclEnOGSsTWgh7nwDxtRxho6k/s320/daniele%20e%20jean%20marie%205.jpg"/></a></div>
INTRODUZIONE AL MIO FILM "LES YEUX NE VEULENT PAS"
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di Jean.Marie Straub
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Il film congiunge dapprima due colline, che si trovano oggi in mezzo alla città: il Campidoglio e il Palatino; tra le due, delle abitazioni popolari.
Il Campidoglio era il centro religioso della Roma antica e sul Palatino – oggi un unico mucchio di rovine – era stata fondata Roma e hanno abitato ben presto i ricchi, i potenti e i padroni dell'Impero romano; lassù si trova un albero, e ai piedi dell'albero una caverna nella aquale, durante l'ultima guerra, i comunisti nascondevano di giorno le armi che utilizzavano la notte contro i padroni di allora, i nazisti e i fascisti.
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Poi comincia, ancora più in alto sul Palatino – su una terrazza lunga, deserta, circondata dalla città attuale, dove stava una volta il palazzo dell'Imperatore Settimio Severo, una tragedia spesso comica, perfino ridicola – rappresentata da gente che porta i costumi romani.
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La tragedia si chiama Othon. Uno dei più grandi poeti della letteratura francese, Pierre Corneille, l'ha scritta; essa fu rappresentata per la prima volta alla corte del re Luigi XIV a Fontainebleu, il 3 agosto 1664 – e in seguito 30 volte soltanto tra il 1682 e il 1708 alla Comédie Francaise; dopo mai più. Pierre Corneille scrisse una prefazione: “Se i miei amici non mi ingannano, questa tragedia eguaglia o supera la migliore delle mie. Una quantità di suffragi illustri e soldii si sono dichiarati per essa, e se oso unirvi al mio, vi dirò che ci troverete una qualche giustezza nella condotta e un po' di buon senso nel ragionamento. Quanto ai versi non ne sono mai stati visti di miei ai quali abbia lavorato con maggiore cura. Il soggetto è tratto dalllo storico latino Tacito, che inziia le sue Storie con questa, e non ne ho ancora messa nessuna sul teatro a cui io abbia serbato maggiore fedeltà e prestato maggiore invenzione”.
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Pierre Corneille non era un uomo di corte, eera giurista nella città di Rouen e odiava la corte – e dei Romani almeno i patriottismo e l'imperialismo (opere precedenti come Horace e Nicomède lo provano). In Othon si tratta del potere e dell'amore. Il potere, cioé soltanto minaccia, ricatto, cinismo di una classe che da secoli lavora alla propria rovina e a quella del nostro pianeta. “Occupiamoci della nostra sicurezza e burliamoci del resto. Niente, niente bene pubblico, se ci di viene funesto; non viviamo che per noi, e non pensiamo che a noi” dice il prefetto Lacone nel corso della tragedia; lo stesso Lacone dice di Pisone, che propone come imperatore: “Pisone ha l'anima semplice e lo spirito abbattuto; se ha grande nascita ha poca virtù...” e dice due minuti dopo dello stesso Pisone: “Ha virtù, spirito, coraggio”. La tragedia mostra che il potere rende tale gente impotente in amore.
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La tragedia consiste in cinque atti. Tre si svolgono nella terrazza del Palatino. In quarto atto si sovlge in un parco cion una fontana barocca e una villa del XVII secolo. L'ultimo atto si svolge di nuovo tra le rovine romane, ma più in basso.
Camilla che nella storia di Tacito non esisteva, che è dunque un'invenzione di Corneille, rappresenta qui il paese, che non è mai consultato, e del destino del quale una cricca decide. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiaDsZXijrZGYRkI0quwQX_8QRghwf34sUzFtSB_HFD65XcUHugT-85or8tfhEi16XYBewFbEj1RoKpZlTEI0zTGQpbs35uw8dWv8wrfIUQOx3mAFZoTnHENAI0bzh5J37aQwt2PiVlz5u-T-QsP4AeGy-AOEX9_4LpXzijU2YCZV9Oczx7p3bW4-Zi4Dc/s474/daniele%20e%20jean%20marie%202.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="348" data-original-width="474" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiaDsZXijrZGYRkI0quwQX_8QRghwf34sUzFtSB_HFD65XcUHugT-85or8tfhEi16XYBewFbEj1RoKpZlTEI0zTGQpbs35uw8dWv8wrfIUQOx3mAFZoTnHENAI0bzh5J37aQwt2PiVlz5u-T-QsP4AeGy-AOEX9_4LpXzijU2YCZV9Oczx7p3bW4-Zi4Dc/s320/daniele%20e%20jean%20marie%202.jpg"/></a></div>
Alla fine del film Albino resta solo tra le rovine; nella Storia l'Imperatore Ottone doveva uccidersi tre mesi dopo sul campo di battaglia, per evitare che continuasse lo spargimento di sangue dei romani.<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtzDnwE3R7tKoWPygnUSywbmRvqJKPA744ysplkKpQE_RznORF4frS3jSDD3kzC6F6zLKDljpw12tyv4T5aZcQuF4sLjWpcBof2qXjvu2U2O3JXkvYlfun1zVSGcFbJMn-M3OSJpPssmlR0pJ4IthIANfSICoCSrYz28CrKA6jEhSLfPkpfWfb0joQgAg/s738/daniele%20e%20jean%20marie%203.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="477" data-original-width="738" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtzDnwE3R7tKoWPygnUSywbmRvqJKPA744ysplkKpQE_RznORF4frS3jSDD3kzC6F6zLKDljpw12tyv4T5aZcQuF4sLjWpcBof2qXjvu2U2O3JXkvYlfun1zVSGcFbJMn-M3OSJpPssmlR0pJ4IthIANfSICoCSrYz28CrKA6jEhSLfPkpfWfb0joQgAg/s320/daniele%20e%20jean%20marie%203.jpg"/></a></div>
Il testo detto nel film è il testo originale francese completo di Pierre Corneille; gli attori, per tre mesi, lo hanno letto, imparato, ripetute e esercitato ed è stato poi unicamente recitato a memoria, registrato durante quattro settimane sui luoghi stessi.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhw8iJYDJ4YRQO8PqOxN93Hlb6UedXx6GGEjEPdfvNlhyphenhyphenPKH5cCk_M8SsBuqywxonldc9gP4QzYp_mea6RJ3zGeQTv0F3lnp6dJUiMN_nC5yZzCXhEZW44PigHwGoD80LfPvUtsKvanBI0Hg_Vv5JBL5ZxkdAJKstWS-9y68SY_XlTA9mbFIOMWnCH7dPw/s960/daniele%20jean%20marie%204.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="960" data-original-width="960" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhw8iJYDJ4YRQO8PqOxN93Hlb6UedXx6GGEjEPdfvNlhyphenhyphenPKH5cCk_M8SsBuqywxonldc9gP4QzYp_mea6RJ3zGeQTv0F3lnp6dJUiMN_nC5yZzCXhEZW44PigHwGoD80LfPvUtsKvanBI0Hg_Vv5JBL5ZxkdAJKstWS-9y68SY_XlTA9mbFIOMWnCH7dPw/s320/daniele%20jean%20marie%204.jpg"/></a></div>
I sottotitoli italiani cercano di comunicare un'impressione della lingua di Corneille, molto serrata eppure semplice, molto moderna eppure straniera; questi sottotitoli sono una traduzione (di Adriano Aprà e Gianni Mingrone, Danièle Huillet e mia) sempre letterale, eppure frammentaria, del testo parlato e non c'è nemmeno il bisogno di leggere tutti questi sottotitoli; sono lì, offeti alla scelta dello spettatore, come segnali.
Piché il testo parlato, le parole, non sono qui più importanti che i ritmi e i tempi molto differenti degli attori, e i loro accenti (diversi accenti italiani e francesi, uno inglese, uno argentino); non più importanti dlelel oro voci particolari, (sor)prese nell'istante, che lottano contro il rimore, l'aria, lo spazio, il sole e il vento; non più importanti dei loro sospiri emessi loro malgrado o di tutte le altre piccole soprrese della vita registrate allo stesso tempo, come i rumori particolari che di colpo prendono un senso; non più importanti dello sforzo, il lavoro degli attori (sono io stesso tra loro – come il cattivo Lacone, perché volevo esserci) e il rischio che essi corrono, come dei sonnambuli o funamboli, da un capo all'altro di lunghi frammenti di un difficile testo; non più importanti della cornice nella quale gli attori sono chiusi; o dei loro movimenti o le posizioni all'interno di queste cornici, o dello sfondo davanti al quale si trovano; o dei cambiamenti e gli sbalzi di luce e di colore; non più importanti, in ogni caso, dei tagli, dei cambiamenti di immagini, delle inquadrature. Se si tengono orecchie e occhi aperti a tutto ciò, si potrà anche trovare il film avvincente e scoprire che qui tutto è informazione – ancche la realtà puramente sennsuale dello spazio, che gli attori lasciano vuoto alla fine di ogni atto: come sarbebe dolce, senza la tragedia del cinismo, dell'oppressione, dell'imperialismo, dello sfruttamento, la nostra terra. Liberiamola.
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-21435352803054128102024-02-13T00:00:00.000-08:002024-02-13T00:02:17.449-08:00DOCUMENTI. TONINO DE BERNARDI SU "BEATRICE SOLINAS DONGHI SCRITTRICE" E SU ANNA KARINAHo ritrovato questo testo di Tonino De Bernardi per la presentazione del suo mediometraggio di 30' realizzato nel 1986 per la Rai 3 della Liguria, coproduttore Arnaldo Bagnasco dal titolo "Beatrice Solinas Donghi scrittrice". Testo di Tonino De Bernardi e Massimo Bagigalupo. Regia di Tonino De Bernardi. Un mediometraggio che non compare nella filmografia Wikipedia, probabilmente perché di formato atipico (?). Recentemente il cineasta piemontese ha donato tutto il suo archivio al Museo del cinema di Torino. Nel 2022 il Centre Pompidou ha dedicato all' "Homme-cinema" una retrospettiva alla presenza di Isabelle Huppert. Segue un articolo scritto 4 anni fa da De Bernardi sul 'manifesto' in ricordo di Anna Karina. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjGOAU2INd4eTvuCMGBaD_LzNvQMkwpW4Baot__VUv58_YLGA5WasYGc9L0KvY_AlRrT6PAWkIFPiHi3pjq-3wdRgaVlSSkmHrqSJKSsvxOYYWNtH5QGhRqp43yNIKDrcvkjtIyYRNm3DCoyf20K0rvdkDA-wWL5RdztD-ZlzqPKuhyphenhyphenybii1Mz2l8_6UcY/s638/de%20bernardi%206.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="320" data-original-height="638" data-original-width="426" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjGOAU2INd4eTvuCMGBaD_LzNvQMkwpW4Baot__VUv58_YLGA5WasYGc9L0KvY_AlRrT6PAWkIFPiHi3pjq-3wdRgaVlSSkmHrqSJKSsvxOYYWNtH5QGhRqp43yNIKDrcvkjtIyYRNm3DCoyf20K0rvdkDA-wWL5RdztD-ZlzqPKuhyphenhyphenybii1Mz2l8_6UcY/s320/de%20bernardi%206.jpg"/></a></div>
di Tonino De Bernardi (1)<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0fhH5s7lqZFCk1W9Sdg0fO4Eg0i7xYjGvFoobhby4y5dHTzTdh4242VdFYhko6TAfu3Fz56nUONTsbvNpNNTnHW9jMf80o5QMKv1X9hwQx9VOFOcOVvf7k4AkYHEnOJjxZDGYaBjE76TFPdvEQfPV-JcX1AeJi-eTbNWudqP3IryWS14efVtmauGQm5A/s847/de%20bernardi%204.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="531" data-original-width="847" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0fhH5s7lqZFCk1W9Sdg0fO4Eg0i7xYjGvFoobhby4y5dHTzTdh4242VdFYhko6TAfu3Fz56nUONTsbvNpNNTnHW9jMf80o5QMKv1X9hwQx9VOFOcOVvf7k4AkYHEnOJjxZDGYaBjE76TFPdvEQfPV-JcX1AeJi-eTbNWudqP3IryWS14efVtmauGQm5A/s320/de%20bernardi%204.jpg"/></a></div>
Sono assolutamente convinto vi siano per me delle ragioni molto profonde per cui nella mia vita sto inseguendo questo sogno di catturare la scrittura mediante il cinema, e comunque di conciliare (o di opporre) i due mondi della parola e dell'immagine, del leggere e del guardare, dello scrivere e del trovare le visioni dell'occhio. Così anche credo che per me ce ne siano di altrettanto profonde per cui da anni io uomo vado avanti ad indagare il volto e la voce della donna come protagonisti della mia ricerca, e non solo in vista del cinema. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiXPHgSQipG4CirTXAX6t9oPsv4mVS4Eb4LHCVmyudAB3FTNDmMJZMSc_tm49LUu-1Z7G_f33gMZLWRYpQJHD91IVq23YKHH4x32_V7lNPi5slfDfrOUt08P3gSwVZUU3YqHBpqpfygT0jCSNXgYZPfscsSYIzTh_wKFPJ-Ag0KR_QQ5OoWNqp3zAOlYf0/s564/solinas%20donghi.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="423" data-original-width="564" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiXPHgSQipG4CirTXAX6t9oPsv4mVS4Eb4LHCVmyudAB3FTNDmMJZMSc_tm49LUu-1Z7G_f33gMZLWRYpQJHD91IVq23YKHH4x32_V7lNPi5slfDfrOUt08P3gSwVZUU3YqHBpqpfygT0jCSNXgYZPfscsSYIzTh_wKFPJ-Ag0KR_QQ5OoWNqp3zAOlYf0/s400/solinas%20donghi.jpg"/></a></div>
Donne e scrittura: prima, due anni fa, ho lavorato su una progenitrice tra fine 700 e inizio 800 la poetessa Diodata Saluzzo ed ora su una scrittrice del presente Beatrice Solinas Donghi. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWfj0GI6dnunjH4rNgbu7Srn4ET8pn1s3sLQfzgXvKwJYE3L4Zuzh4BwFvfyx3XICMbC6zEeSrmbzJDhcntlVST18GKFRA_qQf27lUp5jTQKGzLiMg-Yu0fK7MCBxWT5LKtakoqGdhS3r78VTfsaEfBoZeIz5Y7S5MTO0tlpNPJQmFwDizg47puriQNyo/s720/massimo-bacigalupo.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="480" data-original-width="720" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWfj0GI6dnunjH4rNgbu7Srn4ET8pn1s3sLQfzgXvKwJYE3L4Zuzh4BwFvfyx3XICMbC6zEeSrmbzJDhcntlVST18GKFRA_qQf27lUp5jTQKGzLiMg-Yu0fK7MCBxWT5LKtakoqGdhS3r78VTfsaEfBoZeIz5Y7S5MTO0tlpNPJQmFwDizg47puriQNyo/s400/massimo-bacigalupo.jpg"/></a></div>
L'incontro tra con Solinas Donghi è avvenuto attraverso il comune interesse e amore per le sorelle Bronte. Di lì mi è piaciuto risalire tramite i romanzi e i racconti alla persona che li ha scritti, e scoprirne la quotidianità e il vivere giorno per giorno.<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjiBEb_6HxLmAFJS9VPzR2FhlG3DR96nDd9xHUJbPpX7v2MbXs9f62fCoYxw43mG2vHgFiGewfDjM4sXNZiyq6RzsJ4bJz6M6fQld8ABB6mDYZ8CwSeTtoarO8s7DwdwjuV9c69Go0Wq01phRF8UwEgKL4oCrESHHgn-Vv5tK8jvIW4as5aWwCmTz9YCBI/s1384/tonino%20de%20bernardi9.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="922" data-original-width="1384" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjiBEb_6HxLmAFJS9VPzR2FhlG3DR96nDd9xHUJbPpX7v2MbXs9f62fCoYxw43mG2vHgFiGewfDjM4sXNZiyq6RzsJ4bJz6M6fQld8ABB6mDYZ8CwSeTtoarO8s7DwdwjuV9c69Go0Wq01phRF8UwEgKL4oCrESHHgn-Vv5tK8jvIW4as5aWwCmTz9YCBI/s320/tonino%20de%20bernardi9.jpg"/></a></div>
Il senso del passato. Ho compiuto attraverso Solinas Donghi un viaggio all'indietro nel tempo, ho risalito le età, ho raggiunto altre vite un'altra faccia, un'altra voce un altro corpo. E senitre nella eistenza di lei come unica esclusiva vocazione la dedizione allo scrivere, sin dall'infanzia.
Anche questa volta il mio lavoro è proceduto da un primo fondamentale atto di amoree e di identificazione.
Continuerò per questa strada lungo altre scritture altre voci altri volti di donna.<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgpztm7AuNiqVvV9Ezxd34iGvjA1wfTwEd2uxYGwr1wQSRQxArq89vmhS6POh0JTkEGsT2YpeBsMEnB2BjXYQvAPqnEzKOatgr98bJbuQtqQloWp5fHikrueWohR1YakBiQ4hcAjcGw5Udzdp8gqH5SBx7i42KZOnWa8K_ycDt-AGPQet7ePIwfhvHViYk/s2048/Tonino%20De%20Bernardi8.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1076" data-original-width="2048" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgpztm7AuNiqVvV9Ezxd34iGvjA1wfTwEd2uxYGwr1wQSRQxArq89vmhS6POh0JTkEGsT2YpeBsMEnB2BjXYQvAPqnEzKOatgr98bJbuQtqQloWp5fHikrueWohR1YakBiQ4hcAjcGw5Udzdp8gqH5SBx7i42KZOnWa8K_ycDt-AGPQet7ePIwfhvHViYk/s400/Tonino%20De%20Bernardi8.jpg"/></a></div>
(1) De Bernardi e Bacigalupo (nella terz'ultima foto) provengono dal cinema underground e sperimentale.Bacigalupo è docente di Letteratura americana e Letteratura inglese. De Bernardi è insegnante di Lettere nelle scuole medie (oggi in pensione)
Entrambi sino ad ora film-makers part-time (ovvero filmmakersd dell'io diviso)
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEilGFcyPMB5OjYXNbF9RHYBAk0x_9u3wTNRTj03pILv_sRgj9WnS_jcYdNYWNqibfDbHDaUm61FixatNRFtR90Hjd06Ng_MqcBOTX10Q82xdsIMRziw6_-LMhylddTThPvwrsid9ZcvsrUQa3SIRZQVJvl6e6qJmHAh29ZcA7lBTHrtiKPgmJcGLX_cN_k/s878/annakarina.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="878" data-original-width="878" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEilGFcyPMB5OjYXNbF9RHYBAk0x_9u3wTNRTj03pILv_sRgj9WnS_jcYdNYWNqibfDbHDaUm61FixatNRFtR90Hjd06Ng_MqcBOTX10Q82xdsIMRziw6_-LMhylddTThPvwrsid9ZcvsrUQa3SIRZQVJvl6e6qJmHAh29ZcA7lBTHrtiKPgmJcGLX_cN_k/s400/annakarina.jpg"/></a></div>
ANNA KARINA
di Tonino De Bernardi
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfP2zTjlY1Gd1qR1YYNtN9rf3_gxme8G3NNZehTTULPyYx0gOGD4TnpXnB7k1hSHKizFlht6K_NEut-14XZhkN-vKGMKTkIk3eBXpBiYdTO-lobZsy15P6ZPHcTM0trha85qs6N1TlCdADWxB0qewo_WEZZbExrzcnb_jkV94m9SwiNcact-NrKTCRQZI/s180/annakarina3.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="180" data-original-width="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfP2zTjlY1Gd1qR1YYNtN9rf3_gxme8G3NNZehTTULPyYx0gOGD4TnpXnB7k1hSHKizFlht6K_NEut-14XZhkN-vKGMKTkIk3eBXpBiYdTO-lobZsy15P6ZPHcTM0trha85qs6N1TlCdADWxB0qewo_WEZZbExrzcnb_jkV94m9SwiNcact-NrKTCRQZI/s400/annakarina3.jpg"/></a></div>
Cara Anna Karina, ti scrivo perchè te lo devo da tanto, come devo a Godard. Voglio dare la mia testimonianza di candida colomba a cavallo dei due millenni, visto che faccio anch’io il cinema e il cinema è «l’espressione dei bei sentimenti» (Godard ’52). Dire di te è dire di noi nella storia (o contro-fuori-storia) che si sta tessendo col nostro vissuto d’individui. Vagando nella propria vita si arriva agli altri sempre troppo tardi, sfasati. Vorrei rovesciare e non rovescio nulla, anzi compongo: mio ultimo film è addirittura RESURREZIONE da Tolstoj. Stasera ho perso MEDEA di Lars von Trier ’88 che non avevo voluto vedere allora. Ora ci tenevo per Medea che chi mi conosce sa quanto le sia legato. È andata bene, così ho iniziato a scriver questa lettera e non sono corso fuori nella notte fredda in bici. A Radio 3 c’è «Cavalleria Rusticana» che non amo, amo invece la musica indiana e il Mahabharata; tra i miei film c’è IL SOGNO DELL’INDIA ma, sfasamento, 40 ANNI DOPO, cioè io in ritardo come sempre, anche per l’India. Tu nei tuoi inizi tra Godard e Rivette, tu sullo schermo un certo sogno anni 60: io (con Pia e Emma, Giorgio, Loris a Chivasso) in platea a guardarti e vivere quello che ci facevate vivere voi francesi. Allora in Italia Pasolini esplodeva con ACCATTONE, suo primo film. Tu divenuta subito un’icona, tu nella costellazione delle donne del Godard di allora tra Jean Seberg , la Black Panter e Anne Wiazemsky LA CINESE (anche lei indimenticabile, ma già in Bresson e poi per Pasolini TEOREMA). Tu comunque nel 69 passi a JUSTINE di Cukor dal Quartetto d’Alessandria che allora leggevamo appassionati. Di Cukor ho amato tanto nella Chivasso del dopoguerra DONNE, ma allora non badavo al regista, solo le attrici! Il primo regista di cui sentii parlare dai media fu Rossellini, per via di Ingrid. Ma Godard è prima di tutto Jean Seberg, l’americana dell’Herald Tribune agli Champs Elysés. A ottobre ho rivissuto la sua dolorosa parabola rivedendola anche nel Garrel muto sublime di LES HAUTES SOLITUDES, pochi anni prima del suicidio. Volevo scrivere al figlio Alexandre Gary, a cui lei lasciò l’ultimo messaggio, aveva solo 16 anni. Volevo dirgli tutta la mia stima per sua madre Jean, lui ora si occupa dei libri del padre scrittore Romain, suicidatosi l’anno dopo. DOPPIO SUICIDIO, come il film di Pia di Chivasso Epremian De Silvestris, grande donna che ti amò tanto, cara Anna e che avresti dovuto incontrare, fece il cinema come me a Torino, il nostro underground, te ne parlò Armando Ceste con suo film fine ’90. Tu sarai per sempre la giovane bella di VIVRE SA VIE che nel buio della sala guarda da sola La passion de Jeanne D’Arc di Dreyer e piange, il primo piano si alterna a quello di Falconetti al rogo. Con te le città ideali di allora, Parigi, Londra e New York dei beatnik. Qui devo anche dire del sogno dell’India di allora, i Beattles e Ginsberg del Diario Indiano. Una sola volta t’ho incontrata, negli uffici del festival di Rotterdam, fine altro millennio o inizio nuovo. S’apre una porta e chi compare? «Anna Karina!» io esclamo forte con l’innocenza e lo stupore del bambino. Tu sorridi con gran semplicità e complicità. Qui apro una parentesi, io apro parentesi anche parlando (vivo tra parentesi?). A Rotterdam Fiorella m’ha detto che hai girato in casa di un’amica di Mareke per L’ISOLA DEL TESORO, Ruiz 1985, che ho perso. Leggo che anche Lou Castel è nel film. Io a Lou sarei arrivato a Dunkerque dieci anni dopo, per la trilogia di Sirene e Sireni, i SORRISI ASMATICI. Lou vi impersona l’Olandese Volante ed è in pratica uno dei protagonisti del n.1, FIORI DEL DESTINO. Tu e Lou giraste con gli stessi registi a un certo punto, pure con Fassbinder. Ruiz il gran cileno errante io l’ho incontrato ai festival di Enrico e company, non ricordo più bene quale. I miei attori Elena Bucci e Marco Sgrosso sono nel suo VIAGGIO CLANDESTINO-VITE DI SANTI E DI PECCATORI in Sicilia ’94, anche questo perso. E tu, cara Anna? perché non ti ho parlato subito allora a Rotterdam? Certo io non potrei scrivere come Carmelo «Sono apparso alla Madonna». Perchè non mi sono inginocchiato davanti a te come apparizione? Allora potevo farti delle domande e avere risposta. Io sfasato arrivo sempre dopo. «Il paradiso può attendere», ci ha illuso Lubitsch. Devo anche averti ritrovata ad altro festival, ma non ricordo, non so più distinguere quello che è sogno o realtà. Mi succede così anche col filmare, non so più quello che ho solo visto e quello che ho filmato. Sono gli intrecci di cinema e vita e gli intrecci delle vite altrui nelle nostre teste. Cosa siete ora voi intrecciate in nostre teste e ricordi, Jean Seberg, Anne Wiazemsky, tu Anna? Quante volte ho rivisto la scena di papà Alberto che fa ballare in braccio la nostra nipotina Teresa felice in mio LEI 2003? Alla parete l’affiche di QUESTA È LA MIA VITA. Ma il 2019? Tu Anna Karina la star così diversa dalle 9 donne di tutte le età del video della nostra amica Marie Vermillard LES INSOUMMISES, che ho visto da poco. Io allora, nel ’67, ho cominciato il cinema con Jonas Mekas e company. – Che fare? – si chiedeva Godard nel ’66 – Che fare allora visto che non so fare film semplici e logici come Roberto, umili e cinici come Bresson? – Mi chiedevo anch’io, iniziavo mio cinema. Non potevo rispondere come Jean Luc a Parigi. Insegnavo Lettere alla Media di Casalborgone, dovevo scrollarmelo di dosso quel cinema lì troppo «alto» di Rossellini e Bresson. Perciò seguii l’underground americano che era a mia misura. Tu Anna, Nanà di VIVRE SA VIE, sei così diversa dalle Nigeriane ai bordi delle strade Chivasso- Casalborgone, così come lo sono Joana Preiss e Claudia Marelli di CASA DOLCE CASA 2012. Giorni fa ho visto una donna africana allattare sul pavimento alla casa internazionale della donna Trieste. Che donna è questa nella sua realtà? Indagherò e continuerò il film iniziato? Ho scritto tempo fa sceneggiatura sterminata La putaine créatrice che è rimasta come le altre ormai tante. In LE PETIT SOLDAT, 1960, tu cara Anna sei Véronika, cognome Dreyer come Theodor. Il cinema è cinema, è la frase di Jean Luc che io non potrei mai dire, mi sembra. Come ero io allora quando ho visto te in VIVRE SA VIE? Cerco di ricordare amici e amiche, che ti amavano tanto. PIERROT LE FOU, ne parlavamo con Angela e Mario che non ci sono più. «Bisogna prestarsi agli altri e darsi a se stessi» Montaigne, inizio di VIVRE SA VIE in 12 tableaux. Anch’io la numerazione in MEDÉE MIRACLE e altri film miei, lo devo a Godard. FILM SOCIALISME un faro per me, sempre più. Ma c’è anche J-P Gorin (gruppo Dziga Vertov, Anne Wiazemsky e CREPA PADRONE Fonda e Montand): passato negli USA, ritrovato grazie ai Rencontres Cinématographiques di Jacques Déniel a Dunkerque (libro ’95 su me, prima su Nanni Moretti e altri). Lì con Région Pas de Calais iniziano Sirene e Sireni di FLEURS DU DESTIN, Lou, Lucas Belvaux, Ines De Medeiros ritrovata, Giulietta Debernardi e Manuela Giacomini e altri, ma già prima Francoise Lebrun e la mamma di Melvil Poupaud. Prima ancora con DONNE super8, ’80-’82, e MODI D’ESSERE video ’89 a Salso continuo l’Utopia d’un certo cinema. La cosa più sensazionale è che mio VIAGGIO A SODOMA ’88 è stato premiato a pari merito con Godard inizio novembre 1988 al World Wide Video Festival di Den Haag! Capisci?? Ma quegli stessi giorni muore in auto vicino a Casalborgone Maria Grazia Sacchi, compagna al liceo Cavour e ritrovata sposata con bimbi. L’ultima volta che la vidi fu a casa nostra a Casalborgone: lei e Pia avevano affittato insieme una casa in collina. Ma, cara Anna, tu ti sei autodiretta in VIVRE ENSEMBLE ’73 e poi ancora un road movie in Canada, VICTORIA 2008, noi Italiani non li abbiam visti. Sei al Père Lachaise tra i grandi. Balzac è stato lì, poi l’han passato al Panthéon. Brecht (la tomba a Berlino così lontana dalla grandeur), 18/1/49 – Ho sempre presente la vittoria dei comunisti cinesi che cambia completamente la faccia della terra – 20/1/49 – Traduco i Pensieri nel sorvolare la grande muraglia di Mao-Tse-Tung – A Radio3, ora Buxtehude da un convento tedesco, l’amo tanto. Bach e mio PASSIONE DI GIOVANNI ’09 ma pure Napoli APPASSIONATE ’99. Per secondo film con Huppert al Ministero tardano, io aspetto. Brecht – La DEFA, casa cinematografica zona orientale, incontra ogni difficoltà per soggetti attuali. La direzione fa una lista di temi. Propongo di mandare in giro persone che raccolgano storie – Stop. Andrea Paolini mio nipote «Gli ideali uccidono, ma vivo per loro», figlio di Alda Navale e di Cesare fratello di Giulio. All’epoca del nostro underground a Torino, ’67-’68, Giulio è stato l’arte povera-concettuale. – Vivere è amare/ Forse non ho mai vissuto veramente fino adesso – ma anche – Perché l’Amore non ha ragione/ Perché l’Amore è l’unica ragione – Stop. Tu Anna Karina da bimba cercavi l’amore. Non finirò mai questa lettera…
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-6763465107847353402023-09-29T02:48:00.002-07:002023-09-29T10:42:37.689-07:00Prendere a pugni il Palazzo. Ma non è elegante! Il nuovo film di Polanski (in duetto con "Menus Plaisirs: Les Troisgors" di Wiseman)<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgouzjLbizNpNuVp1lqdsPbR5jPPZftOUB4lGudBOf-ku1IF4Iwz0hJmZ6mB0dtARzG6TBpjecOyirnJm1gNF-hvGaBJbVQi_wBfWwMGoyNABuLpu76Tw08VtCR_dDwp6vhf22fJfSiYKgEwnWHpqwwZYPDFpa0lTaVGDC_zasglmDoH5qSPQYowVjsa-Q/s268/Palace%201.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="268" data-original-width="188" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgouzjLbizNpNuVp1lqdsPbR5jPPZftOUB4lGudBOf-ku1IF4Iwz0hJmZ6mB0dtARzG6TBpjecOyirnJm1gNF-hvGaBJbVQi_wBfWwMGoyNABuLpu76Tw08VtCR_dDwp6vhf22fJfSiYKgEwnWHpqwwZYPDFpa0lTaVGDC_zasglmDoH5qSPQYowVjsa-Q/s400/Palace%201.jpg"/></a></div>
Roberto Silvestri<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7hF0cFBrDrDp4MdmuKZ7oJhA4I03ApXkHy_wdH8z83ggImoQqo1v1iIqAjvJ7hYEHwauNPKoyYIyInok2LiCvCHsn0t3iXxS9R70RO0d8UBbYoJIftOiRn5YBqWpmX2gke9xIrnkN_ecPqQj2-TGBloNDrwzIAYC_7nk8w0oejBdbwrO_a0Tp3PbgVAU/s300/Palace%20polanski.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="168" data-original-width="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7hF0cFBrDrDp4MdmuKZ7oJhA4I03ApXkHy_wdH8z83ggImoQqo1v1iIqAjvJ7hYEHwauNPKoyYIyInok2LiCvCHsn0t3iXxS9R70RO0d8UBbYoJIftOiRn5YBqWpmX2gke9xIrnkN_ecPqQj2-TGBloNDrwzIAYC_7nk8w0oejBdbwrO_a0Tp3PbgVAU/s400/Palace%20polanski.jpg"/></a></div>
La fauna umana più repellente e provocatoria del pianeta festeggia la notte di capodanno 2000 in un hotel super esclusivo delle Alpi svizzere. Oligarchi russi rigonfi di soldi da esportare. Bancari corruttibili coinvolti in piani finanziari criminali. Miliardari braccati da parenti improbabili e ormai cadaveri, truccati da vivi per via dell’eredità. “Briatori” dall’erezione molto complicata e “Fedore” dell’eterna giovinezza chirurgica, tutti riuniti per l’Euro-Big-Party per esibire gli ornamenti e i colori di guerra del potere. Un delirante mondo Kitsch. Uomo dell’anno nascente è già il neo Zar Putin che, fatto fuori Eltsin morente, si presenta al mondo sovrapponendo in tv al decadente passato da agente frustrato del Kgb il neo-panslavismo minaccioso del fondamentalista “cristiano-ortodosso”.
Ci si augura che tutto questo possa essere spazzato via dal Millennium bug…Speranze vane. Solo un paio di animali, giovani e indocili, cane e pinguino impertinenti, festeggeranno davvero. Anche camerieri, cameriere, impiegati e fattorini, e profughi balcanici ed escort da circo Berlusconi sembrano contagiati da questi corpi consumati, di una certa età, e con tutta la loro storia scritta in faccia: corpi maturi, o come si dice, menti serie. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi9cTlg_IsanTSXprQ75b4c0LgTGekPfzgtW3Bx6LzCEn46Kw95GI71WLlIZ2nkEPwyQgHx5m1g5itOP5Q-1PIwwjZLawO7vWZrMPSCqwHKIHXG_OxWevp4PwiaIw6AfBfhiyIpLS6LIb0HyvWOQX09sHE8lLBVKCFTKNvsROFWV9-LLV5b6xDumb5mAxU/s318/Rourke.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="159" data-original-width="318" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi9cTlg_IsanTSXprQ75b4c0LgTGekPfzgtW3Bx6LzCEn46Kw95GI71WLlIZ2nkEPwyQgHx5m1g5itOP5Q-1PIwwjZLawO7vWZrMPSCqwHKIHXG_OxWevp4PwiaIw6AfBfhiyIpLS6LIb0HyvWOQX09sHE8lLBVKCFTKNvsROFWV9-LLV5b6xDumb5mAxU/s400/Rourke.jpg"/></a></div>
Morale? Un uomo non è amico di un altro uomo! Niente di più disgustoso e repellente per un uomo di un altro uomo. “Un uomo – scriveva nel 1960 un grande genio polacco dell’avanguardia letteraria - può essere sopportato da un altro uomo soltanto se sa rinunciare, se rinuncia a se stesso a beneficio di qualche cosa, dell’onore, della virtù, della nazione, della lotta… Ma un uomo che non è altro che un uomo? Una vera mostruosità”. Il regista provoca, uno a uno, questi provocatori. Un verme è molto più simpatico della marchesa, di Arthur William Dallas III, di Magnolia, del dott. Lima (è Joaquim Almeida), di Bill Crush, di Vaclav, dell’ambasciatore russo ….
Più che un incontro con il cinema siamo a un incontro di boxe con i pugni nudi, senza l’ipocrisia dei guantoni. Le anime candide non possono resistere.
Di questo si parla in The Palace. Finalmente (dopo un primo esperimento non del tutto riuscito 32 anni fa) si riesce a trasformare in immagini il flusso narrativo e la sostanza erotica (ma dovete cercarla nel fuori campo) di un romanzo di Witold Gombrowicz, come Cosmo o Pornografia (da cui Jan Jakub Kolski ha tratto un film). Per lungo tempo proibito nella Polonia del socialismo reale Witold Gombrowicz si era imposto nel 1937 come l'enfant terrible della letteratura moderna polacca con il suo primo romanzo Ferdydurke. Dopo un lungo esilio in Argentina, tra il 1939 e il 1963, tornato in Europa aveva trionfato sulle scene parigine con il dramma Le Mariage per la regia di Jorge Lavelli. E’ morto a Saint-Paul de Vence nel 1969. In Italia è stato subito adorato dal Gruppo 63, e Feltrinelli (consulente Nanni Balestrini) ha tradotto i suoi romanzi Ferdydurke e Cosmo, mentre Bompiani Pornografia (1960) ambientato durante l’occupazione nazista e la Resistenza.
Ma The Palace non è dunque solo una satira o un tipico affresco grottesco. Non è un divertimento slapstick né una commedia. Non è film d’autore che eccita lo spettatore indicandogli omaggi e citazioni, perché le parodie sono piuttosto nascoste (il realismo socialista rosa di La signora col cagnolino di Iosif Cheific 1960 e la Nuova Babilonia pre-Comune di Parigi di quando i sovietici erano “comunisti festivi”; i pupazzi di Svankmejer mimati da uno strepitoso Mickey Rourke - no, non è Califano - o Takashi Miike di Visitor Q… o qualunque festa di partito di un Menzel, di un Forman, di una Chytilova). E’ più un horror, certo, The Palace ma di tipo nuovo, che non sai ancora bene come maneggiare o definire per raccontarlo agli amici. Film deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile, concettuale e formalista, che va lavorato e decifrato mentre suscita reazioni contrastanti e simultanee: riso +indignazione, scandalo+rabbia. Ammirazione per un parco di attori dalla perfetta concentrazione. John Cleese, Fanny Ardant, Bronwyn James, Sydne Rome, Oliver Masucci, e anche Barbareschi è in palla. Non c’è pausa, ha il ritmo dei 10 mila metri di atletica leggera, corre forte sempre ma dei fratelli Vanzina d’epoca d’oro (a cui il film è stato associato) condivide lo spirito derisorio e cancella ogni personaggio teenager (un vuoto che inquieta non poco). Inoltre non è un film girato senza far caso all’attore. Anzi comincia dagli attori, “unendoli” in un modo qualsiasi e attraverso queste unioni creare il filo conduttore delle situazioni, dell’azione. Ed ecco che Polanski libera ciò che già esiste potenzialmente negli attori in quanto esseri viventi, con le loro particolari possibilità, diversità, unicità, mostruosità. Il personaggio scenico è creato per lui, cucito su misura come un vestito.<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUWie-oRqkq_BbV1dStjMG4sw7W433n_apNNzGzX1Aoc3Zuk6T9Dkuo-Cc0eyjQ8SDPYlpY-rXYoWasRlB2a09IKrQy7zJC6L7Qg1rpaEm4s6TQqr4LkUrPywJzlQIVsvTmk5xIEBrvpdogCycHbfCpkSSdpGpwC8Du2eh5-zvEWUuLdZZ3sepeZSk-Vk/s276/Skolimoski.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="183" data-original-width="276" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUWie-oRqkq_BbV1dStjMG4sw7W433n_apNNzGzX1Aoc3Zuk6T9Dkuo-Cc0eyjQ8SDPYlpY-rXYoWasRlB2a09IKrQy7zJC6L7Qg1rpaEm4s6TQqr4LkUrPywJzlQIVsvTmk5xIEBrvpdogCycHbfCpkSSdpGpwC8Du2eh5-zvEWUuLdZZ3sepeZSk-Vk/s400/Skolimoski.jpg"/></a></div>
Mi ha insospettito dunque, alla Mostra di Venezia 80, la vistosa freddezza sarcastica dei potenti media euroamericani (e perfino di qualche collega arabo), quasi fosse frutto di un complottardo pregiudizio preventivo, che ha presentato in anteprima mondiale il nuovo film di Roman Polanski, dal bel titolo pasoliniano “Il Palazzo”. Forse, dopo la valanga di serie tv che li hanno trasformati in eroi dei nostri tempi, i personaggi cattivissimi e sgradevoli non si possono più provocare, attaccare, criticare, picchiare né ridicolizzare? Ai colleghi egiziani, almeno, avrebbe dovuto ricordare, titolo a parte, che quel che avviene in un solo maestoso edificio può raccontare la miseria del mondo intero, e indurci all’indignazione, come ci ha insegnato Marwan Hamed nel 2006 in Imarat Yacoubian (The Yacoubian Building), emulo di Cukor, Bunuel, Wes Anderson, Tony Richardson, Jerry Lewis, Hitchcock, i Coen, Wenders, Billy Wilder, Richard Quine, Liliana Cavani, Luchino Visconti e tanti altri. Perfino Ostlund.
Il direttore del festival Alberto Barbera e il suo gruppo di selezione ha fatto molto bene a selezionare quest’opera, colta e speciale, epocale anche, visto che la sceneggiatura riunisce per la seconda volta gli illustri amici della “nuova onda polacca degli anni 60” Roman Polanski e Jertzy Skolimowski. Ma è stato un po’ troppo diplomatico (e in arte, a differenza che in politica, è un errore grave) nell’escludere dal concorso sia The Palace (per non provocare chi sbraita in giuria, come successe alla disinformata presidente della giuria Lucrecia Martel nel 2019 con L’ufficiale e la spia?), ambientato in un super hotel esclusivo della Svizzera francese (Gstaad, a un passo da casa Polanski), e un altro formidabile pamphlet sullo strapotere incontrastato dell’1% che oggi domina e schiavizza il pianeta, Menus Plaisirs: Les Troisgors (2023). Tre ore che Frederick Wiseman dedica alla capitale mondiale della goduria culinaria, presso Clermond Ferrand, il ristorante très chic dove un pranzo non costa meno di 550 euro e una paradisiaca bottiglia iperbariccata di Borgogna, se l’inflazione non galoppa, con soli 12 mila euro è tua. Wiseman, come un bimbo stupefatto si affeziona alla maestria di cuochi, agricoltori, camerieri, maître, dalle radici così gianseniste, e non ho mai visto un horror così agghiacciante e obliquo, raccontato da occhi altrettanto dolci e cuore così ammirato e perfido. E’ la stessa impressione che mi ha fatto il film-gemello, The Palace. Per i giansenisti (ci spiegò al cinema Luis Bunuel in La via lattea, 1969) l'essere umano nasce essenzialmente corrotto e, quindi, inevitabilmente destinato a commettere il male, dannato. Solo la predestinazione salva (i ricchissimi). Il giansenismo fu combattuta come eresia protestante dal cattolicesimo, perché solo per gli unti dal Signore era aperto il regno dei cieli. C’è chi racconta l’America proprio come il conflitto secolare tra chi crede che la costituzione sia stata scritta solo per proteggere i predestinati-proprietari-miliardari e chi i poveri cittadini “dannati”. Polanski e Wiseman sono con questi ultimi.
Il fatto che l’opera di Polanski non abbia distribuzione angloamericana né (ancora) francese, e venga battezzato in sale festivaliere dove i critici sono ormai minoranza insignificante e gli applausometri mercantili dominano, non mi ha dunque stupito. “Skolimowski è arrogante?” E con questo? Rispose in gioventù un non meno spavaldo Roman Polanski, chiamato dagli amici Romak, aggiungendo: “ma ha molto talento”. Anzi è stato proprio il suo maestro dialoghista nel Coltello nell’acqua, 1964, l’altra collaborazione, prima di The Palace.<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8oBEqGp25vEHKAhRYzZIXTRaAXzGdsW50lygT40XSoPrVB8GQpRKfgDikQvtEpdPwzNxnl7nn3AuVGrWgLRjBdRFQAuwbaJxrRLsWv8ZW96pmxjuWxWXrafR_RepLMktB3ZhU4lJT04duE3DaU2_taPOVn4sD_qWo6cJ_POQKvYMxRXJpKA9YDi_U284/s200/witold%20gombrowicz.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="199" data-original-width="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8oBEqGp25vEHKAhRYzZIXTRaAXzGdsW50lygT40XSoPrVB8GQpRKfgDikQvtEpdPwzNxnl7nn3AuVGrWgLRjBdRFQAuwbaJxrRLsWv8ZW96pmxjuWxWXrafR_RepLMktB3ZhU4lJT04duE3DaU2_taPOVn4sD_qWo6cJ_POQKvYMxRXJpKA9YDi_U284/s400/witold%20gombrowicz.jpg"/></a></div>
In una sceneggiatura di Skolimowski e della sua compagna Ewa Piaskowska non troverete mai espedienti che pretendono di imitare il linguaggio parlato. Nessun: ah! mah! beh! O altre inezie simili che abbondano nel cinema privo di costruzione formale e che si compiacciono di collezionare trovate graziose. Jerzy sta ore e ore a smussare dai dialoghi tutte le lettere inutili per rendere ogni parola imprevista, allusiva, sorprendente, ellittica, perché è sempre di qualcos’altro che si parla quando sono le intenzioni che ci muovono, qualunque sia obiettivo che ci si prefigga. Lui “ha un’enorme memoria verbale e immagazzina inconsciamente il modo esatto di dire le cose”.
Polanski, intervistato nel 1966 dai Cahiers du cinema ricordava: “Andrebbe su tutte le furie per una battuta come ‘Questa sera mi piacerebbe andare al cinema’, direbbe piuttosto: ‘danno qualcosa di interessante stasera?’”. Lo scrittore preferito di Polanski, quando nel 1957 riuscì a leggerlo finalmente grazie all’apertura culturale (breve) del Partito Operario Unificato sotto la direzione di Gomulka, era proprio Witold Gombrowicz, da cui Skolimowski ha tratto nel 1991 30 Door Key una sua lettura di Ferdydurke, il romanzo del 1937 che Polanski più adorava (un saggio dello studioso polacco Jacek Nowakowski racconta proprio i profondi rapporti tra l’autore esistenzialista dei celebri Diari, morto nel 1970 dopo un lungo esilio in America Latina e a Parigi e il regista di Per favore non mordermi sul collo, non meno esule di lui) perché gli ha insegnato a smascherare, con analoghi procedimenti grotteschi, paradossali e perversi, l’inautenticità della vita, i ruoli forzati che dobbiamo assumere e l’infantilismo coriaceo e indelebile che ci sottomette ai poteri. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7BC_Z2B10DBF9PW3cwCrS7cTKfDCt_UZ1nLz8Nj5vePKyypW2INJHuN6WB-wYfe1FAjVwH12LOq3kebpz1xP3jhr8-1u6nx2Z-iLsqF339qzDS-m38VmsGP5xYlGha5MhMbSbAQMxS9j9xnUCAdF5ZJdEjVWPBrFzTEaFMFBJfuH3cxxOCNAfTQkhrBQ/s1280/The-Palace3.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="884" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7BC_Z2B10DBF9PW3cwCrS7cTKfDCt_UZ1nLz8Nj5vePKyypW2INJHuN6WB-wYfe1FAjVwH12LOq3kebpz1xP3jhr8-1u6nx2Z-iLsqF339qzDS-m38VmsGP5xYlGha5MhMbSbAQMxS9j9xnUCAdF5ZJdEjVWPBrFzTEaFMFBJfuH3cxxOCNAfTQkhrBQ/s400/The-Palace3.jpg"/></a></div>
Scrive Skolmowski: “Ho letto Ferdydurke nel 1960, quando ero studente alla Scuola di Cinema di Lodz. Ricordo di averne discusso con Roman Polanski, che all'epoca lo considerava il suo libro preferito per come trattava e metteva a soqquadro l'ambiente scolastico, la borghesia e l'aristocrazia. Non condividevo del tutto il suo entusiasmo, perché c'erano alcuni aspetti di Gombrowicz che mi irritavano. Era un uomo dall'intelligenza caparbia, che si divertiva a prendere in giro i suoi lettori. A quel tempo questo mi dava fastidio”. Nel 2015 a Parigi, alla fiera del libro, Polanski ha letto un commovente elogio di Gombrowicz, ricordando la sua celebre frase “Non siamo noi che diciamo le parole, sono le parole che ci dicono”: "Witold Gombrowicz era il mio autore preferito quando ero giovane perché quel genere di letteratura era proibita in Polonia. Non si conosceva, l’ho scoperto solo grazie ad amici. La scoperta di questo genere di scrittura ha avuto un profondo impatto su di me: ignoravo nella realtà staliniana che romanzi così potessero esistere” . <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiR21PrYDNh7jhkAPgD9F5DHIlg_Dw89CikyEfCzWiicFmqu6jChhRG7fBlT30B-2BhLpdXE2m5pfKXeEFHgBrCSIB4cCc0Vf9OTlG4OFziwbKeB0a4Z3jJPBFwoFd5n51kHJs6BUpQw2WeEP5QpIvkuNVfSfN0LRqsUFjFEIqD57AlGARR5QC2q0Y5naw/s620/the%20palace4.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="413" data-original-width="620" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiR21PrYDNh7jhkAPgD9F5DHIlg_Dw89CikyEfCzWiicFmqu6jChhRG7fBlT30B-2BhLpdXE2m5pfKXeEFHgBrCSIB4cCc0Vf9OTlG4OFziwbKeB0a4Z3jJPBFwoFd5n51kHJs6BUpQw2WeEP5QpIvkuNVfSfN0LRqsUFjFEIqD57AlGARR5QC2q0Y5naw/s400/the%20palace4.jpg"/></a></div>
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-69502889692622944612023-09-09T14:23:00.001-07:002023-09-09T14:30:14.722-07:00Rimpiangendo la lobotomia. Il Leone d'oro va a Lanthimos per "Povere creature"Roberto Silvestri <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgu5SP0FPNpBs9oDLfWy-08OU1itDU5GFU3uRVtcxtqCjFK7--0B9x6ZMVz_-7s29rHpDjQC25Pd4-rA1-5SAw9a0_F7CMRk_vA6olgzzj8L9hsgVWDpJOdpW-le8xSpfRc1yE42nOSMM1rIJubumaQC16-hNppZN1Qg8k2Euh9vOs2HwYkdm2BHzyaxPE/s474/emma%20stone.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="306" data-original-width="474" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgu5SP0FPNpBs9oDLfWy-08OU1itDU5GFU3uRVtcxtqCjFK7--0B9x6ZMVz_-7s29rHpDjQC25Pd4-rA1-5SAw9a0_F7CMRk_vA6olgzzj8L9hsgVWDpJOdpW-le8xSpfRc1yE42nOSMM1rIJubumaQC16-hNppZN1Qg8k2Euh9vOs2HwYkdm2BHzyaxPE/s400/emma%20stone.jpg"/></a></div>
Il cineasta greco Yorgos Lanthimos con lo strano horror (“femminista” secondo lui), molto applaudito, e tra i favoriti della critica nazionale e internazionale, e che poi ha vinto stasera il Leone d'oro, forse perché si è considerato la risposta colta, “europea”, cromaticamente fiammeggiante anche nella parte in bianco e nero, al mondo rosato di Barbie, ha molto lavorato di cesello sul suo nuovo Poor Things dal romanzo dello scrittore scozzese Alasdair Gray. Ed entra nel club esclusivo dei creatori di mostri, dei dottor Frankenstein, e di chi, tra Racconti di Hoffman e bambole inanimate, suscitata molta paura con i cadaveri che riprendono vita grazie a innesti fuori natura (un inedito trapianto di cervello).
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiaLKV9JvJFVOwVnEFamcCeFFEUctc1oqrzi1MyPMFfYQBA8mZBr5lbnLuVLiGuYMgdMRuzK7AM3MEd1ekGNO7IQDMF-GwepIZOVyhrpapYPY6TYhlN17utT15bl5ueyLJDXLfKT_A32zleXCLTw8fc7kHaSlcB8VMPL_atWsia8bqnf7uYRAMttVwGfP8/s600/emma%202%20stone.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="600" data-original-width="427" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiaLKV9JvJFVOwVnEFamcCeFFEUctc1oqrzi1MyPMFfYQBA8mZBr5lbnLuVLiGuYMgdMRuzK7AM3MEd1ekGNO7IQDMF-GwepIZOVyhrpapYPY6TYhlN17utT15bl5ueyLJDXLfKT_A32zleXCLTw8fc7kHaSlcB8VMPL_atWsia8bqnf7uYRAMttVwGfP8/s400/emma%202%20stone.jpg"/></a></div>Il laboratorio diabolico è del dottore, anche lui piuttosto inguardabile, Godwin Baxter (Willem Dafoe) e la sua creatura, Bella (Emma Stone), rivive grazie a un ricambio di materia grigia, preso dalla nascitura e inserito nel cadavere di una giovane donna incinta, morta suicida e strappato alle acque. Bella Baxter, dopo un claudicante inizio sia mentale che motorio, prende possesso di sé e fugge dal palazzo che la rinchiude. Si butta alla conquista del mondo, in crociera, a partire da Lisbona, quasi un omaggio a Manoel de Oliveira, però non manca il fado, e non è strageniale, e al pieno dispiego della sua sessualità con l'aiuto non disinteressato anzi dissoluto dell'astuto avvocato (Mark Ruffolo) compagno di venura, che sarà poi sopraffatto dalla assoluta mancanza di freni inibitori e di pregiudizi della scatenata “mostra”, che naturalmente in un bordello parigino si sentirà di casa. Tanto che in Usa il film è vietato ai minori di 17 anni. La sceneggiatura è dell'australiano Tony McNamara (già al fianco di Lanthimos in La favorita) . Scene e costumi sono mozzafiato e molto devono alle straordinarie animazioni fantasmagoriche anni 50 e 60 del cecoslovacco Karel Zeman, con la sua 'fantascienza passatista' ripresa anche da Miyazaki. Ricostruita dall'uomo, la 'donna antica' tutta natura viva e tanto rimpianta, torna in vita. Ma questo artificio lobotomico alle giovani generazioni che sono ignare del caso Ulrike Meinhof non rimanda più a sinistre e abiette manipolazioni. Davvero una 'povera cosa'. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh7gBy9IbLyh6-IPUKi955j1L6RRmGBq8WlkiVxxFNbif_gGE1qjB0_Zp8mmmRTuLzbl8ByRAxVuhKiSVm3dnZ1F0tem-PqtJjXv5rnMroWkhbSz9mmqkBv6wbedLxlPX8jKi-T7310sqE2M9J2G89X0O3HPBw2AuAcG-1X4qAvGSv052jN88gzfF7n8us/s474/yorgos.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="265" data-original-width="474" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh7gBy9IbLyh6-IPUKi955j1L6RRmGBq8WlkiVxxFNbif_gGE1qjB0_Zp8mmmRTuLzbl8ByRAxVuhKiSVm3dnZ1F0tem-PqtJjXv5rnMroWkhbSz9mmqkBv6wbedLxlPX8jKi-T7310sqE2M9J2G89X0O3HPBw2AuAcG-1X4qAvGSv052jN88gzfF7n8us/s400/yorgos.jpg"/></a></div> il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-73433429423175264862023-09-06T04:24:00.008-07:002023-09-06T10:33:00.558-07:00Diario della Mostra di Venezia n.80. 29 e 30 agosto Roberto Silvestri <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPeA3_krzemrwGuQG6ZDPACMiEXur4LCq34Gk0Y2bG5Pj_M3YHCcINpWQda2ZnV4GFlzk8OvyDfAQiK6JkFYHjRm1ChZkcElI-V1uDtbbbQ0Bp8Q24pXX9YsR3A5XAU3TzhfEq6vc39QKnd18TF5eHeSezppUA_qo5UXLhg-HLKxEgvdOL_t815PJH2QQ/s660/lollo2.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="368" data-original-width="660" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPeA3_krzemrwGuQG6ZDPACMiEXur4LCq34Gk0Y2bG5Pj_M3YHCcINpWQda2ZnV4GFlzk8OvyDfAQiK6JkFYHjRm1ChZkcElI-V1uDtbbbQ0Bp8Q24pXX9YsR3A5XAU3TzhfEq6vc39QKnd18TF5eHeSezppUA_qo5UXLhg-HLKxEgvdOL_t815PJH2QQ/s400/lollo2.jpg"/></a></div>
La Preinaugurazione<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiR3rcCISM4vb8n6R0a0IzIc1Dgm0AQUsReAFM1hGdpAI12hsYhbgX2EgWKt_V6ztwnYoCevLpVDTLT8RxefWX_CiDLYBWN9jLvpljgAn1JTGgTkzq7PlaFat2cKFx1dmonCYx1FffjVDRSqtCjlrz3V-yb5u8bayMhG9YuKsUXltJauKHacREbPFsOg1Y/s320/lollo.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="158" data-original-width="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiR3rcCISM4vb8n6R0a0IzIc1Dgm0AQUsReAFM1hGdpAI12hsYhbgX2EgWKt_V6ztwnYoCevLpVDTLT8RxefWX_CiDLYBWN9jLvpljgAn1JTGgTkzq7PlaFat2cKFx1dmonCYx1FffjVDRSqtCjlrz3V-yb5u8bayMhG9YuKsUXltJauKHacREbPFsOg1Y/s400/lollo.jpeg"/></a></div>
Già la pre-inaugurazione esibisce segnali se non “eversivi” piuttosto antipatici. Intanto. Per la presenza più visibile del solito della polizia inassetto ninja e di sbarramenti di sicurezza e sistemi di controllo e tracciabilità degli ospiti non più giustificati. Esempi. Per quale motivo, a Covid-19 addomesticato, sussiste l'obbligo di prenotazione digitale dei posti che istituisce rituali sadici come la sveglia “blasettiana” alle 6 di mattina? Perché a sale non completamente piene si impedisce l'ingresso degli accreditati in fila, come avviene a Cannes?
Inoltre per la presenza rituale-non-rituale del ministro della cultura Sangiuliano che nel suo breve intervento fa già venire i brividi quando invita a guardare i film, come fa lui, “con gli occhi e il cuore dei bambini”. E uno ripensa immediatamente alle leggi censorie degli anni 50 (quelli sì di piombo) con Luigi Gedda e i comitati civici e i magistrati compiacenti a far crociate bigotte contro il cinema “adulto”, che corromperebbe i sani costumi “italici”. Così film molto importanti furono fatti a brandelli o messi direttamente al rogo.
E poi, altro segnale indigesto: perché “italianizzare” in modo così imbarazzante la manifestazione? Perché ben sei film nazionali in gara? Una esagerazione. Direbbe Castellitto jr. : manifestazione di strapotere, non di potenza vitale. Però. Pure Cannes lo fa. Certo ma Cannes ha da anni scelto la strada dell'autopromozione tricolore glamour, anche perché Unifrance sa produrre opere di qualità in ogni parte del mondo, Stati Uniti inclusi. RaiCinema e Cinecittà no. Solo colpa dello sciopero a Hollywood o qualcosa di più inquietante?
Per esempio è stato cancellato uno degli appuntamenti culturali più fecondi della manifestazione. Il “classico del cinema muto” con raffinato accompagnamento musicale, che gemellava la Mostra del Lido alle Giornate del cinema muto di Pordenone, una delle poche manifestazioni cinematografiche italiane di prestigio davvero internazionale. Ma sempre temuta, ignorata, boicottata dalle amministrazioni di destra della città friulana, che non ne comprende (per primitivismo capitalistico?) il senso. Al suo posto lo star system. La provinciale con la diva maggiorata Gina Lollobrigida, certo obbligatorio omaggio a una attrice amata e che ci ha lasciato quest'anno. E magnifico affondo, più che calligrafico e più che neorealista, di Mario Soldati, il più liberal degli antifascisti, contro quella parte monarchica del paese, di conti e marchesi che nessuna riforma agraria osò espropriare, dunque ancora viva e potente negli anni 50. Classe dominante che controllava immaginario, economia e sessualità del nostro provinciale paese, come se si fosse ancora nel medioevo (il film di Costanzo sul caso Montesi tornerà su queste radici malate dell'Italia dei femminicidi di oggi). Ma forse gli occhi di un bimbo sono attratti solo dalle forme procaci della povera ma bella protagonista, la Lollo, aggredita e minacciata costantemente da uomini sadici e donne perfide, e perfino dal bel giovine che l'ama e che lei adora. Il documentario di Orson Welles “Portrait of Gina” è dedicato all'italico vizio di affossare e dimenticare le nostre grandi personalità artistiche, dalla Duse a Caruso, e conferma dunque una interpretazione adulta di Lollobrigida, che faceva parte dell'elite senza potere, per dirla all'Alberoni. Nella parte finale del documentario, quando Welles riesce a intervistare la super star che conquisterà anche Hollywood, ecco la scena che - secondo Marco Giusti – segnerà la censura del piccolo film. “Io pago molte più tasse del produttore dei film”. Gli artisti potranno anche essere in vita 'leggende viventi del popolo' ma si devono sfruttare fino all'osso, da vive e da morte. La mostra “I Mondi di Gina” è visitabile fino all'8 ottobre 2023 presso l'Istituto Centrale per la Grafica - Palazzo Poli di Roma, in via Poli 54 (lato fontana di Trevi). Ore 10.00 – 19.00 dal martedì alla domenica (ultimo ingresso ore 18.00). Lunedi chiuso. Ed è stata ideata e curata in tutta fretta dal sottosegretario del MIC Lucia Borgonzoni e dalla Presidente di Cinecittà Chiara Sbarigia. Entrambe presenti alla preinaugurazione della Mostra d'Arte Cinematografica numero 80.I documentari di Welles, girati nel suo periopdo do esilio dagli Stati Uniti (malati di maccartismo) sono tutti stupendi, acuti, curiosi, divertenti come questo. Ne ha girato uno sugli esistenzialisti parigini, uno sui baschi, considerati i più osteggiati"indiani d'Europa", uno sulla corrida, e l'atavico sacrificio rituale dei tori (nello straordinario film su "Guernica" di Yervant Gianikian si vedranno le immagini di una corrida organizzata per raccogliere fondi pro esercito repubblicano durante la guerra civile) e su Isidore Isou, il poeta lettrista che gli spiega come ampliare la vocalità, cioé la coscienza sonora delle lettere che eistono già e di quelle che non esistono ancora...In un film cino-tibetano presentato fuori concorso, "Il leopardo delle nevi", di Pema Tseden, morto a 53 anni poco prima della Mostra dopo aver portato a Venezia ben tre film, sul rapporto non sempre semplice tra allevatori e bestie feroci e carnivori, c'è una piccola lezione di alfabeto tibetano e scopriremo che le loro 30 lettere hanno sonorità affascinanti e profonde.
Mentre scriviamo arriva la brutta notizia della morte del regista genovese e genoano Giuliano Montaldo. Uomo di cinema di prsigio mondiale, di cultura finissima,di umorismo contagiante e di altissima passione civile. Lui utilizzava gli attori giusti per ogni personaggio, senza chiedergli il luogo di nascita. Era un grande artista. Non un burocrate dell'ufficio passaporti, che avrebbe impedito a Adam Driver di interpretare Enzo Ferrari, come pretenderebbe Pierfrancesco Favino. A cui consiglio la visione di un film tedesco girato in Italia nei primi anni 70, di Koch, Spqr. In questo film la protagonista tedesca chiede a Pier Paolo Pasolini di essere assunta in un suo film. Da memorizzare la risposta di PPP. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixlnPEXi6qQ3wt_vOYa250R6pMlNO7cp4mEl2Uq1UIFERkQ3dhFtD7yy8sJaRp2hv4Dad0bjni68w9sMEMOSzHcbBIzbRbwK9JZjicqMfMuwdTY_tpLMFk9hHCuKpURqdDw-0qixN4SSjZYh7Oy4r9mpk_lvhJA-qs0oRBnwGoZrZrhweW4IBWDeoenpA/s2048/El-Conde-Pablo-Larrain.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="2048" data-original-width="1152" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixlnPEXi6qQ3wt_vOYa250R6pMlNO7cp4mEl2Uq1UIFERkQ3dhFtD7yy8sJaRp2hv4Dad0bjni68w9sMEMOSzHcbBIzbRbwK9JZjicqMfMuwdTY_tpLMFk9hHCuKpURqdDw-0qixN4SSjZYh7Oy4r9mpk_lvhJA-qs0oRBnwGoZrZrhweW4IBWDeoenpA/s400/El-Conde-Pablo-Larrain.jpg"/></a></div>
30 agosto 2023. Comandante e El Conde<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSD86cAniM4qsjTAFm5debRQs1hqZ9zOxcUbCAL6YzY1FwohrNsbEQLrc8T9Gvlj4SzEjdQ97TC8G7V4bGe3mFEaYu5_UY5W5sw_MrMxFLtF9x-IjtN9bPgkdsT1mFgku9WQ3heBTPWNJUVR4tDd-5v7WNvF7_Ek3AG3dqSe8rXojf6j9regq252wC92s/s259/favino.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="194" data-original-width="259" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSD86cAniM4qsjTAFm5debRQs1hqZ9zOxcUbCAL6YzY1FwohrNsbEQLrc8T9Gvlj4SzEjdQ97TC8G7V4bGe3mFEaYu5_UY5W5sw_MrMxFLtF9x-IjtN9bPgkdsT1mFgku9WQ3heBTPWNJUVR4tDd-5v7WNvF7_Ek3AG3dqSe8rXojf6j9regq252wC92s/s400/favino.jpg"/></a></div>
A proposito. Edoardo De Angelis dirige il film d'apertura, scritto con Sandro Veronesi, Comandante. Apertura italiana vera, non come quella annunciata di Guadagnino, annullata per lo sciopero Usa di attori e sceneggiatori. Qui i soldi (15 milioni di euro) sono della Indigo e di RaiCinema. Un po' ci si inquieta anche davanti al bio-pic (vanno alla grande nei festival) che glorifica però un alto atto di civiltà umana e marinara. Salvatore Todaro, comandante fascista (nel fuori campo) della regia Marina Militare, nell'ottobre 1940 affonda con il suo sommergibile Cappellini un mercantile belga in navigazione fantasma nell'Atlantico che lo aveva attaccato. Cercherà poi di portare in salvo i 26 marinai fiamminghi sopravvissuti all'affondamento come prescrive la legge del mare, trainandone la scialuppa, finche non si spezza il cavo, e ospitando poi i profughi a bordo fino a porto sicuro (nelle Azzorre neutrali), non senza pericolo per il suo stesso equipaggio. Dunque Todaro viola gli ordini ricevuti, per un motivo eticamente superiore. Fa come Dirty Harry. Todaro tradisce. E' infatti un braccio destro di Junio Valerio Borghese, un combattente della X Mas, anzi l'autore del simbolo di quella brigada Wagner ante-litteram. E probabilmente se non fosse morto in guerra nel 1942, lo avrebbe seguito nella repubblica di Salò, tradendo il re, e perfino nella giravolta filoamericano, tradendo Duce e Hitler, per superiori valori (in quel caso discutibili: l'anticomunismo). Esplicito il senso del film. Se perfino un fascista radicale sa cosa sono le leggi del mare perché il ministro Salvini continua a ignorarle, promulgando leggi in contrasto con la nostra costituzione? Peccato che il gioco dei dialoghi troppo scontato e i movimenti della cinepresa in uno spazio così angusto e complicato come un sommergibile, troppo contratti, con un insistere ripetitivo sui primi piani (ricordate invece i virtuosismi di Petersen?) ci ricordino quasi più le barzellette tv di Walter Chiari sui sommergibili che i film che secondo gli storici del cinema 'inventarono il neorealismo' perché scaraventavano il mondo autentico a scardinare ogni canone, format e clichés. Erano girati negli anni della seconda guerras mondiale da Francesco De Robertis (Mine in vista, Uomini sul fondo, Alfa Tau), con la consulenza non casuale di Rossellini, o scritti, nel dopoguerra da Marcantonio Bragadin (Siluri umani). Un film che ha dunque il merito di ristudiare un momento aureo del nostro passato cinematografico. Ma, a proposito di Walter Chiari, cade su ridicoli snodi di trama, forse causati dai vincoli di coproduzione, come la presenza di un traduttore dal fiammingo in italiano, incomprensibile perché Todaro parlava francese (almeno così afferma) e i fiamminghi parlano piuttosto bene il francese. A meno che non sia un raffinato rimando al libello nazionalista di Baudelaire sulla “inguaribile stupidità” dei belgi e degli alti ufficiali della marina italiana. Vedremo altri alti marinai in conflitto con le leggi del mare nel Caine di Friedkin. Ma lì non c'è un errore di dettaglio, e l'occhio è mobile nonostante lo spazio angusto (aula di corte marziale). Però va un po' più alla radice delle cose. Da buon lettore di Norman Mailer, Friedkin cita quel che Red risponde a Martinez in Il nudo e il morto: “Io che cos'ho contro gli stramaledetti giapponesi? Credi che mi importi se si tengono questa giungla fottuta? Che differenza fa per me se Cummings si prende una promozione?” “Il generale Cummings è una bava persona” disse Martinez. “Non esistono la mondo ufficili buoni” proclamò Red.
A proposito di “ufficiali buoni” il generale Pinochet per metà Cile è una brava persona. Dopo il suo sanguinoso colpo di stato ha arricchito pesantemente le tasche della media e dell'alta borghesia. Perché gli Stati Uniti, commossi dallo zelo nell'eseguire gli ordini di Kissinger, da tanta generosità anticomunista, e da tanta mansuetudine nei loro confronti, hanno fatto in modo che la loro moneta valesse il doppio delle altre valute sudamericane, inebriando la bilancia dei pagamenti di Santiago. Insomma Pablo Larrain esagera un po' nel “vampirizzare” fin quasi a renderlo demoniaco, come se fosse Hitler, un piccolo servo dei poteri forti di origine basca, proprio come l'anarchico-socialista che ha ucciso, Salvador Allende. Le classi agiate cilene devono in qualche modo scusarsi agli occhi del mondo per aver sguinzagliato il loro cane. Ma da pit bull a Dracula, che è un po' il simbolo stesso del capitalismo finanziario (come scriveva in un bel saggio di tanti anni fa Franco Moretti), che rende “sempre più ricchi i ricchi”, senza preoccuparsi di godere mai alcun “bene diurno”, il passo è troppo lungo. Questo El Conde che non muore mai, e la sua compare Vampirella Margaret Thatcher, circondati da famelici familiari, nel grottesco in bianco e nero, troneggiano come insopportabili e sacralizzati e dunque invincibili divinità maligne. E non criminali comuni. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhoxhDSjnmBZCtdwyiw_AUDStLa_wRgGwmlDZLX4-ezlPg6tyLxkprWNnGgPUQCKcefKroa70RayrG2_bP1h_Yg9qjHM0qFyukFuBtDcDHWVCjxwfJpJhbxTGZdkURO3eCwdT5c6m1nvoUD4so8B4pR9x01o2BwUBgFGJIJMmT6Y9sY62bvmUNuAAvfIrs/s600/la-provinciale.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="400" data-original-width="600" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhoxhDSjnmBZCtdwyiw_AUDStLa_wRgGwmlDZLX4-ezlPg6tyLxkprWNnGgPUQCKcefKroa70RayrG2_bP1h_Yg9qjHM0qFyukFuBtDcDHWVCjxwfJpJhbxTGZdkURO3eCwdT5c6m1nvoUD4so8B4pR9x01o2BwUBgFGJIJMmT6Y9sY62bvmUNuAAvfIrs/s400/la-provinciale.jpg"/></a></div>
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-72363038459670086882023-09-04T08:25:00.002-07:002023-09-04T08:27:36.743-07:00MOSTRA DI VENEZIA 80. LA BESTIA DI BERTRAND BONELLO
di Mariuccia Ciotta<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAokfGr8Qh81r1T4SWVR00NmFpIlvt8Kkp9WWygsSYPkghxw7VyB7st7J5jWy8H7kfRfvcigOVUkxnb4nlnFqahDsPGWGjyY4Z5mbuXHqMzVoRapDIDARbWgYXxf4AWzmntvjvMcybu3mojdLfgUVqTmNBayDDpbSVn3IPgwarneqHfKGd4X-MtVfjNe8/s1200/Bertrand-Bonello.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="675" data-original-width="1200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAokfGr8Qh81r1T4SWVR00NmFpIlvt8Kkp9WWygsSYPkghxw7VyB7st7J5jWy8H7kfRfvcigOVUkxnb4nlnFqahDsPGWGjyY4Z5mbuXHqMzVoRapDIDARbWgYXxf4AWzmntvjvMcybu3mojdLfgUVqTmNBayDDpbSVn3IPgwarneqHfKGd4X-MtVfjNe8/s400/Bertrand-Bonello.jpg"/></a></div>
Viaggio onirico attraverso due secoli in un gioco di
premonizioni che Henry James attribuì al giovane
John Mercher nel romanzo breve La bestia nella
giungla, scritto nel 1903. Al posto di John, Léa
Seydoux, il viso incollato all'obiettivo, corpo, volti e
abiti cangianti dal 1910, passando per il 2014 fino al
2044, dove si trovano tracce del Minority Report di
Spielberg con la vasca d'acqua dei sogni che
prevedono il futuro.
Le bambole-robot umanoidi di intelligenza artificiale
impongono l'azzeramento delle emozioni, leitmotiv
del cinema distopico come Equals (2015, passato alla
Mostra) con Kristen Stewart. Anche qui un siero antiempatia iniettato nell'orecchio depurerà i ricordi di
vite passate o mai vissute.
In concorso al Lido, La Bestia sprofonda in un delirio
lungo 145', il tempo per Gabrielle di cancellare dal
suo Dna l'angoscia che la perseguita di epoca in
epoca, la paura della catastrofe, la premonizione di
qualcosa capace di annientarla. Sospeso nel tempo
l'amore per Louis, ruolo che spettava al più
affascinante dei giovani attori francesi, Gaspard
Uillet, morto in un incidente poco prima delle riprese,
e al quale il film è dedicato. Al suo posto, George
MacKay, biondino britannico (si parla francese e
inglese), inseguito nei sogni, fantasma imprendibile.
Bonello nell'estenuante passaggio di anni e di ore,
sperimenta luci e generi, e arriva alla Los Angeles
delle grandi ville che evoca Mulholland Drive, l'aria
tersa, i colori pastello, la Bestia in agguato. E la
surrealtà di locali rosso sangue attraversati da luci
stroboscopiche, e abitata da David Lynch. Nel 2044,
gli umani sono una minoranza, e per non soffrire in un
mondo di automi è meglio mutarsi in macchine. Ecco
qual era la catastrofe, la terribile premonizione, non
essere più.il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-82936365869716612452023-09-03T09:13:00.006-07:002023-09-03T09:14:13.064-07:00MOSTRA DI VENEZIA 80. LEONARD BERNSTEIN NON E' PIU' RADICAL CHIC, MA NEANCHE RADICAL<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgzlimIPE-V6toPIDhTl8LVPdB1u04TxsPiYw_IagMoVxjHBuoDPSTadD8s95Urg32FAATbvUvaLR3pCX8Jvjd4kT3VxOxl82zqi0UmrDYJ66sbuLx3DjbNZ7vjol2YrkI-phjpD6z6hQ-qPskX_2-SnHgWBBa69cBfVyfdY-wDiLQM1Eo2QORAZJE1UYo/s258/bernstein%20black.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="258" data-original-width="256" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgzlimIPE-V6toPIDhTl8LVPdB1u04TxsPiYw_IagMoVxjHBuoDPSTadD8s95Urg32FAATbvUvaLR3pCX8Jvjd4kT3VxOxl82zqi0UmrDYJ66sbuLx3DjbNZ7vjol2YrkI-phjpD6z6hQ-qPskX_2-SnHgWBBa69cBfVyfdY-wDiLQM1Eo2QORAZJE1UYo/s400/bernstein%20black.jpg"
/></a></div>Roberto Silvestri<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhgHFz24AuUFouTwA_dk2hmXIA-qFf5jlmk1Q5dvx3E3soAKcNT00233KSmTOHyvRbuXbnqZYBoSR5pHYpzdkVTpOUsvI0dqF_qwrbm4uVRWmRwyPdnONs_btzSCjFuopRaTSkG5zTKuPM36HZuCy7CEr5EvuWIEU8mUfaPxCdKhzIMcv_FevdCdFxMZVM/s365/cox%20pantera%20nera.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="365" data-original-width="272" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhgHFz24AuUFouTwA_dk2hmXIA-qFf5jlmk1Q5dvx3E3soAKcNT00233KSmTOHyvRbuXbnqZYBoSR5pHYpzdkVTpOUsvI0dqF_qwrbm4uVRWmRwyPdnONs_btzSCjFuopRaTSkG5zTKuPM36HZuCy7CEr5EvuWIEU8mUfaPxCdKhzIMcv_FevdCdFxMZVM/s400/cox%20pantera%20nera.jpg"/></a></div>
Esterrefatto dalla reazione critica nazionale e internazionale di
Venezia 80 a una Mostra invivibile come mai nella storia
(indipendentemente dalla decina di film e oltre molto belli che
vengono comunque scodellati, “classici” a parte, perché il
comitato di selezione ha occhio e anima) e invece accolta da
quotidiani poker di stelle come se gli stessi critici si rendessero
ormai conto di non contare più nulla se non come gentili
amplificatori pubblicitari di ogni visualità masticabile, registro che
decenni di serie tv hanno cambiato il concetto di ricezione vispa,
trasformando noie micidiali in capolavori assoluti (Poor Things,
El Conde, Bastarden, Maestro, Killer...perfino Harmony Korine) e
i film dotati di vita propria ed eccitanti in insopportabili polpettoni
(i miei preferiti? Polanski, Ferrari, anche Besson, una commedia
di Stephanie Rothman del 1974).
Barbie e Oppenheimer non vengono forse trattati dal blob critico
dominante come preistoria audiovisiva? Già. Tranne il
divertimento acido di Costanzo (che pare il remake di Spqr, un
film tedesco dei primi anni 70 sul cinema italiano, c'è anche l'hotel
Plaza tra i protagonisti) i film italiani non reggono finora l'urto. Da
cui la rabbia verso Ferrari, omaggio al Bertolucci di Strategia del
ragno e al Bellocchio di I pugni in tasca perché è proprio quella
Emilia del culatello che Michael Mann sa catturare magicamente.
Infatti Adam Driver è stato qui perché il film è fuori norma, fuori
schema, fuori Hollywood. Oltretutto Sergio Castellitto è già stato
Enzo Ferrari in un film tv di 20 anni fa diretto da Carlo Carlei, non
a caso discepolo di Michael Mann della prima ora.
Già. Da decenni Hollywood è diventato un comparto secondario di
giganteschi conglomerati che fanno profitti planetari vendendo
poca arte e molto altro: armi, farmaci, prodotti chimici, sigarette
(grande ritorno del tabacco, un tempo bandito, sul grande
schermo), miniere, cliniche, acciaierie e carte di credito. Per
questo i grandi Studios trattano il falso in bilancio da giocolieri
(copiati dai governi democratici di tutto il mondo), le classifiche
di incasso come momento marketing e gli attori e sceneggiatori
che non sono super star come il diavolo trattava Faust (“volete
vendermi per l'eternità la vostra voce e la vostra sagoma? Ecco a
voi 30 mila dollari!”). Da cui lo sciopero di questi mesi.
Impressionante anche il controllo politico censorio sulle pellicole,
come dimostra Maestro, in concorso a Venezia 80.
Dunque già il titolo è perfido. Maestro, e lascia più che perplessi
quando si tratta del bio-pic Netflix sul grande musicista Leonard
Bernstein, superstar intoccabile perché idolo della televisione anni
70 per i suoi corsi di successo sulla musica sinfonica e operistica.
Quel retrogusto Mastercard, che di Maestro è gestore, non è
simpatico. Ma ho l'impressione che il perfido titolista alluda anche
a qualcos'altro. Bernstein è stato definito infatti nel 1970, in piena
guerra contro la guerra in Vietnam, da un prezzolato geniaccio
della destra statunitense, Tom Wolfe, il “maestro dei radical chic”.
Definizione abietta che ha tuttora grande successo nei salotti
devoti alla “Grande Bellezza”. E perfino tra gli sceneggiatori
statunitensi più liberal. Josh Singer ha scritto The Post e Il caso
Spotlight. Gliel'hanno fatta pagare?
Non credo però che tutti ricordino i fatti. E il film, diretto e
interpretato con lunga protesi nasale criticatissima da Bradley
Cooper, 48 anni (e coprodotto anche da Scorsese e Spielberg) -
ma la Mostra 80 sta esibendo un debole verso gli “uomini soli al
comando”, dopo che Comandante ha aperto la kermesse
nell'imbarazzo generale e sta per arrivare anche Io Capitano - ha
la vigliaccheria di oscurarli del tutto, dietro un interminabile e
insopportabile melodramma-fotocopia di A star is born
(algoritmico esordio di Cooper alla regia) che proprio di Bernstein
come “maestro di musica”, direttore d'orchestra mitico, si occupa
pochissimo e si ostina invece (come una spia dell'Fbi pagata da
Hoover) a rovistare nelle avventure coniugali (24 anni di
matrimonio) ed extraconiugali, perché omosessuali, dell'artista di
origini aschenazita. E' come raccontare Hitler tralasciando non
dico la “soluzione finale” ma anche solo la “notte dei cristalli”.
Peccato. Bradley Cooper dimostra di dirigere con stile radicale e
chic le schermaglie d'amore tra Bernstein e l'amata Felicia
Montealegre (nella prima parte del film, in bianco e nero stile
“Life”-”Time” epoca più amata, anche se davvero di piombo,
Corea, maccartismo...) e anche i duelli d'odio della storia (con i
colori lisergici della contestazione generale, dunque un po' malati
e avvelenati). Ma è come se ignorasse con ostinazione gli scontri
aspri della Storia.
Dopo un famoso party del 14 gennaio del 1970 il compositore dei
celebri musical West Side Story e Un giorno a New York - nonché
direttore d'orchestra della New York Philarmonic succedendo
giovanissimo a Bruno Walter - e sua moglie Felicia, attrice di
origine cilena molto impegnata politicamente a sinistra, sono stati
infatti oggetto della madre di tutte le vergognose campagne
mediatiche scatenate nell'ultimo mezzo secolo.
All'epoca Bernstein preparava un epocale Fidelio. E la coppia
ospitò nella propria villa (c'è chi riconosce il valore bancario
dell'arte) circa 90 persone per raccogliere fondi (10 mila dollari) a
sostegno delle famiglie dei "Panther 21", i militanti del partito
delle Pantere nere newyorchesi arrestati il 2 aprile 1969 e accusati
di aver progettato attentati dinamitardi contro sedi della polizia,
grandi magazzini e altri edifici pubblici di Manhattan Dopo 9 mesi
di carcere i “Panther 21” cauzione a 100 mila dollari, senza risorse
per preparare una adeguata difesa, non solo sono stati tutti
scagionati ma sono risultati vittime di infiltrati dell'Fbi che
avrebbero organizzato il complotto con la complicità dei massmedia (anche liberal) e delle forze dell'ordine.
Altro che radical chic. Altro che "la più grande minaccia alla
sicurezza interna del paese" come il direttore dell'FBI Edgar
Hoover definì il Black Panther Party per il suo dichiarato
marxismo. Altro che “giusto processo”. Piuttosto una plateale
violazione delle libertà civili che fu rintuzzata dall'opinione
pubblica e dal Movement (si schierarono con le pantere nere anche
Marlon Brando e Jean Seberg, altre divinità radical chic) e i
Bernstein, perché non era più il tempo di maccartismi. Alla festa
parteciparono tra gli altri Otto Preminger, Sidney e Gail Lumet,
Barbara Walters, Bob Silvers, le mogli di Arthur Penn e Harry
Belafonte, e i leader del Black Panther Party Robert Bay, Donald
Cox e Henry Miller. Charlotte Curtis sul New York Times (15
gennaio) scrisse tra l'altro: "Eccoli lì, le Pantere Nere del ghetto e
i liberali bianchi e neri delle classi medie, medio-alte e alte che si
studiavano cautamente tra i mobili costosi, le elaborate
composizioni floreali, i cocktail e i vassoi d'argento di tartine”
mentre il giorno dopo un editoriale disgustoso aizzava al
linciaggio morale: "L'emergere delle Pantere Nere come beniamini
romantici del jet set politico-culturale è un affronto alla
maggioranza dei neri americani... La terapia di gruppo più la
serata di raccolta fondi a casa di Leonard Bernstein... rappresenta
il tipo di elegante baraccopoli che degrada sia i clienti che i
patrocinati. Potrebbe essere liquidata come un divertimento che
allevia i sensi di colpa arricchito di coscienza sociale, tranne per il
suo impatto su quei bianchi e neri che lavorano seriamente per la
completa uguaglianza e la giustizia sociale. Ha deriso la memoria
di Martin Luther King Jr. ..." (The New York Times, 16 gennaio
1970). La risposta della signora Bernstein fu pubblicata,
ovviamente molti giorni dopo: "Come donna impegnata nella
tutela dello stato di diritto ho invitato un certo numero di persone a
casa mia il 14 gennaio per ascoltare l'avvocato e altri coinvolti nel
processo ai “Panther 21”, discutere il problema delle libertà civili
applicabili agli uomini ora in attesa di processo, e per aiutare a
raccogliere fondi per le loro spese legali... È stato per questo scopo
profondamente serio che è stato convocato il nostro incontro. Il
modo frivolo in cui è stato riportato come un evento "di moda" è
indegno del Times è offensivo per tutte le persone impegnati a far
rispettare la giustizia." (New York Times, 21 gennaio 1970). Nei
mesi successivi i Bernstein ricevettero lettere minatorie, furono
oggetto di innumerevoli attacchi stampa e vessati per tutta la
primavera davanti al loro edificio da manifestanti dell'associazione
ebraica “Defense League” che protestò a gran voce contro il
presunto "appoggio" di Bernstein alle Pantere nere antisioniste.
Cinque mesi dopo la raccolta fondi fu immortalata in un lungo
saggio di Tom Wolfe sul New York Magazine intitolato "Radical
Chic: That Party at Lenny's" (8 giugno 1970). Nel film si fa una
vaga allusione alla invidia e alla gelosia che motivavano gli
attacchi durissimi ricevuti da Lenny Bernstein, senza chiarire che
si allude a Tom Wolfe e al party “hollywoodiano”. Come i
reazionari di casa nostra di destra e di sinistra appresero bisogna
essere livorosi contro gli artisti liberi, milionari per il loro
maggiore talento, e dunque da aggredire “squadristicamente” a
parole meglio se prezzolati dai “diversamente miliardari”il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-41071458013375879542023-06-14T05:33:00.007-07:002023-06-14T05:39:38.157-07:00Arnold Schwarzenegger per la prima volta in streaming si prende in giro in Fubar, otto episodi al Cia...nuro <b>di Roberto Silvestri</b> <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVFDIqcw79DRO3fQDNbuCF2YT5Eo9nxCvbbGPlIre2X5KVJtJlmMh4PKNM67NRjtuH6e3c2mdKmItkhP8NE8eKL1rqocpNsa6iAI8WDu1xLzXwOOv4-zJf-jEu-uVc_r2U-OBwRP4dJ65w3sv1MD3wNahsY92RbpdkA4rYrIxAd1vNJzWJeg_u1J55/s1014/fubar3.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="570" data-original-width="1014" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVFDIqcw79DRO3fQDNbuCF2YT5Eo9nxCvbbGPlIre2X5KVJtJlmMh4PKNM67NRjtuH6e3c2mdKmItkhP8NE8eKL1rqocpNsa6iAI8WDu1xLzXwOOv4-zJf-jEu-uVc_r2U-OBwRP4dJ65w3sv1MD3wNahsY92RbpdkA4rYrIxAd1vNJzWJeg_u1J55/s400/fubar3.jpg"/></a></div>
Luke Brunner (Arnold Schwarzenegger), prima della pensione, fa 2 missioni per la Cia. Dopo un blitz cruento ad Anversa per sgominare un traffico di diamanti è in Guyana per salvare un collega in pericolo e strappare dalle grinfie del boss Boro (Gabriel Luna) un' atomica portatile (e pericolosamente in vendita). Luke ama più il lavoro della famiglia (però se la moglie vuol divorziare, lui vuole riconquistarla) e poi Boro, a cui ha ucciso il padre trafficante d'armi, ma gli ha pagato gli studi per evitare, senza successo, che ne seguisse l'esempio.
Sarebbe un thriller come gli altri se Luke non contasse su tecnologie futuriste e collaboratori (il suo capo è un giovane african-american) le cui veloci battute esigono super-prontezza di spirito. E se la spia nei guai, che Luke ritrova mentre gonfia di pugni un malcapitato nella giungla, non fosse sua figlia Emma (Monica Barbaro, italo-californiana), che credeva una pacifica vestale del volontariato. Anche Emma è stupefatta: “Ah! Ecco perché sparivi sempre da casa”! Gli scontri edipici che seguono danno ritmo a un “concept” ritrito ma regalano al copione acrobazie sorprendenti e non le variazioni a 360° sul carattere e sull'etica dei personaggi.
Per il compleanno di Eastwood, 93 anni, Schwarzenegger gli ha scritto: “sei il mio mentore, ho sempre cercato di imitarti!”. Meno come regista (Eroe per famiglie, 1992, non è memorabile) più attore-reattore e come repubblicano anticonformista, quando era governatore della California (su armi, ambiente e diritti civili). E così, dopo due Terminator inerziali, a 76 anni, l'attore austro-americano più palestrato del mondo, icona della new Hollywood (esordì con Bob Raphelson), scodella 8 buffi episodi di Fubar (“Fucked Up Beyond All Recognition”), serie ideata da Nick Santora, prima sua fiction di “gran fondo”, regalandoci campionature da True Lies, e ripetuti omaggi obliqui a Clint: il ri-matrimonio (Gunny), fenomenologia di una spia in pensione (Assassinio sull'Eiger), identificazione con il nemico e i sensi di colpa del padre per la figlia trascurata (Potere assoluto, e quasi tutti). Invece l'atroce, violentissima sequenza di esecuzione “pasoliniana”, quando passa e ripassa mentre parla d'altro, con un fuori strada, distrattamente, sul corpo esanime di un nemico ispanico ricorda piuttosto John Huston di Lettera al Cremlino, l'unico film capace di equiparare Kgb con la Cia, per metodi e etica. il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-27696852257151295802023-03-29T11:14:00.004-07:002023-03-29T11:18:55.005-07:00Il cinema camerunese perde i suoi pilastri. Muoiono i pionieri Jules Takam e Alphonse BéniROBERTO SILVESTRI
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgpx6aNwB4yZPHPBPfhVfQ3IuErlUtV7tLJA-r7yhIxu_4GND1aQmRwWfnrNfRlGu5A_K2rtqyFf68ghf8ovWSxtrWSzpRCrGh_NBI3wCNJiRQTRcY1DKvm5YC4FPrstxDNx_G52CEu8ph5Q-juejMO4mDFkqm7Z6Q5gT3Yav_VIn6WO_HTaO73rGyR/s1010/jules%20takam%20.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="1010" data-original-width="670" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgpx6aNwB4yZPHPBPfhVfQ3IuErlUtV7tLJA-r7yhIxu_4GND1aQmRwWfnrNfRlGu5A_K2rtqyFf68ghf8ovWSxtrWSzpRCrGh_NBI3wCNJiRQTRcY1DKvm5YC4FPrstxDNx_G52CEu8ph5Q-juejMO4mDFkqm7Z6Q5gT3Yav_VIn6WO_HTaO73rGyR/s400/jules%20takam%20.jpg"/></a></div>
Il cinema africano in questi giorni ha perso due suoi pionieri camerunesi, Jules Takam, morto nell’ospedale Lariboisière di Parigi il 9 marzo scorso a 81 anni. E Alphonse Béni, deceduto in patria tre giorni dopo, a 77 anni, paradossalmente in povertà visto che rappresentava l’ala più commerciale del cinema di Douala.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7UDMxlDo6iIPsu9eSMaybuxM9DGTu-fTKKj2lbaQpOW4ebtoIyyS3n9ivCyD3SyVjWmac31pqZgoJnfIOzISulWy8Er0vBKdld6qTb9ySRhB9to4-gbTH1xS4N-00QJLa0--hk6qXk1npyrWBxMMV2x9ij7M5uujAC_pGLqWQd0_SgRxbCqLK_pbQ/s948/Jean-Paul-Ngassa_Cinema-camerounais.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="320" data-original-height="948" data-original-width="588" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7UDMxlDo6iIPsu9eSMaybuxM9DGTu-fTKKj2lbaQpOW4ebtoIyyS3n9ivCyD3SyVjWmac31pqZgoJnfIOzISulWy8Er0vBKdld6qTb9ySRhB9to4-gbTH1xS4N-00QJLa0--hk6qXk1npyrWBxMMV2x9ij7M5uujAC_pGLqWQd0_SgRxbCqLK_pbQ/s320/Jean-Paul-Ngassa_Cinema-camerounais.jpg"/></a></div>L’anno scorso era anche scomparso Jean-Paul Ngassa, formato all’Idhec di Parigi negli anni 50 e autore del primo cortometraggio del paese, L'aventure en France (1962) 15’, codiretto con Philippe Brunet; di un altro corto, La grande Case Bamiléké (1965) di 35’, coregia di W. Hamon e del primo lungometraggio, Une nation est née (1972) un documentario che festeggiava i primi 10 anni di indipendenza nazionale. Segretario generale della Federazione panafricana dei cineasti (FEPACI), dal 1972 al 1976, dopo aver creato, con l’appoggio del regime di Amadou Ahidjo, Cameroon News, un giornale che aveva il compito di sostenere la produzione audiovisiva pubblica e dopo aver fondato e diretto, dal 1973, il Fondo per lo sviluppo industriale del cinema (FODIC) questo cineasta che veniva da Bana Bafang, Camerun occidentale, dove era nato nel 1939, è stato bruscamente licenziato per motivi politici, sostituito da un incompetente (un ingegnere agricolo) e per la delusione ha abbandonato definitivamente il cinema dedicandosi all’avvocatura.
Jules Takam era più conosciuto in Italia per aver partecipato alle mitiche “Giornate del cinema africano di Perugia”, create nei primi anni 80 da Mohamed Challouf (un regista tunisino che attualmente sta girando un documentario proprio sul cinema camerunese) dove ha presentato L'appet du gain (L’esca del guadagno, 1979) il suo primo lungometraggio, un poliziesco molto politico e pericolosamente polemico con la Francia, per la sua rapacità neocoloniale, ambientato in un paese “immaginario” dell’Africa subsahariana la cui banca centrale viene derubata da mafiosi europei con la complicità di un gruppo di alti funzionari locali golpisti.
Nato il 15 novembre 1941 a Bamendjou, nella regione occidentale del paese, in una nobile famiglia poligama, studia e lavora come sarto a Douala, e con la vendita del suo negozio di camicie si paga gli studi superiori al Conservatoire libre du cinéma français di Parigi (dove ha studiato anche Dikongue-Pipa) e lavora come montatore a Antenne 2 (ora France 2) girando nel 1972 il suo corto d’aesordio, L'Attente (L’attesa, 16').
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi3-4JJVbd5syP3iRk7d2YFeW2-05IacHUIbPdIv2GKXC9lxGcgxc-6sKpO4XhndGH4AqeKxdEoYwP5gr8zLdGy82pf_qwnSsv6YwWf3eHFBJtkzkp_U187ZwjcSQ6HnHD5Z05HsRyzx4sxghiZJPgzHWjEOh59YQQuIfSKJ4ueQW060A3Rt40AmTbO/s670/takam%20e%20.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="503" data-original-width="670" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi3-4JJVbd5syP3iRk7d2YFeW2-05IacHUIbPdIv2GKXC9lxGcgxc-6sKpO4XhndGH4AqeKxdEoYwP5gr8zLdGy82pf_qwnSsv6YwWf3eHFBJtkzkp_U187ZwjcSQ6HnHD5Z05HsRyzx4sxghiZJPgzHWjEOh59YQQuIfSKJ4ueQW060A3Rt40AmTbO/s400/takam%20e%20.jpg"/></a></div>
Assistente della grande montatrice francese Andrée Davanture (che ha affiancato l’esplosione artistica dei film-maker africani tra gli anni 70 e 80) ha partecipato alla lavorazione di Muna Moto (1975) di Jean-Pierre Dikongué Pipa, considerato dai critici il capolavoro del cinema camerunese e vincitore del primo premio, Yennenga Stallion, al Fespaco. Del 1998 è la commedia Le Cercle du pouvoirs codiretto con l’Ettore Scola del cinema camerunese, Daniel Kamwa, e tratto dalla sceneggiatura di Taka N’Deussa scritta nel 1987. E’ una satira sul potere del denaro dopo la svalutazione del franco CFA nei paesi africani francofoni. L’insuccesso commerciale del film lo costringe a cambiare lavoro, e diventa agente a contratto presso l'Assistenza Publica Sanitaria, pur continuando a scrivere sceneggiature che, come ha raccontato il regista congolese David-Pierre Fila al giornalista Christian Eboulé, erano soprattutto serie pensate per la televisione.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisS22fiEIpQKlcBtzWeo1r3EPF-lgDE3dd1-AuQcQLLLts2DRO_Cne7KplYcL-flBGASd22zNf5Is04hO6WOgCb3jPOQmRejm_NvhgeL5rgBVbPwtY51hzlhBmSsrTlnHyQ946dVvA_QOu8Dz5KjquPhdxLcICK7n3mRO4pp65uqAbg7ctM5VwpRs3/s800/black%20ninja%20alphonse%20beni.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="600" data-original-width="800" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisS22fiEIpQKlcBtzWeo1r3EPF-lgDE3dd1-AuQcQLLLts2DRO_Cne7KplYcL-flBGASd22zNf5Is04hO6WOgCb3jPOQmRejm_NvhgeL5rgBVbPwtY51hzlhBmSsrTlnHyQ946dVvA_QOu8Dz5KjquPhdxLcICK7n3mRO4pp65uqAbg7ctM5VwpRs3/s320/black%20ninja%20alphonse%20beni.jpg"/></a></div>Alphonse Béni, soprannominato il "ninja nero" ha iniziato la sua carriera come attore in Francia, tra erotismo e soft porn. Poi, tornato in Camerun, ha preferito un cinema di impegno commerciale e popolare, dirigendo film musicali, western o d’azione, interpretari da Richard Harrison, icona americana del cinema bis, o ispirati a Bruce Lee, come Cameroon Connection (1985). L'ispettore Baïko indagando su un omicidio incontra Bruce Le, sosia del grande filosofo-lottatore di Hong Kong. C’è anche Paco Rabanne. Questi film lo portano a Hong Kong, e con Godfrey Ho, partecipa come attore a Black Ninja (Il ninja nero, 1987), al fianco di Richard Harrison. Del 2005 l’ultimo lungometraggio, La Déchiure.
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-5007551657123278272022-10-28T06:48:00.002-07:002022-10-28T06:53:39.967-07:00Patafisica del vento. “Bentu” di Salvatore Mereu <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiqt8yqPUQRoG7LKGor6cur3czzvosn6O1of9WnPHE7fOleTUgHfuAXcFdHNtV0RQrZ7uUgdChbmIdvgKSBSjMLirBUU-qsIQJJ5_jvh0rtVC-2XOp_uRPofkh1qvoPqepvWo9F4cpco-gBm9v0aCx4mi4FxFLaf06ONUCTkhbq_vzg9Fuk7Hz-cUv9/s768/Bentu.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="432" data-original-width="768" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiqt8yqPUQRoG7LKGor6cur3czzvosn6O1of9WnPHE7fOleTUgHfuAXcFdHNtV0RQrZ7uUgdChbmIdvgKSBSjMLirBUU-qsIQJJ5_jvh0rtVC-2XOp_uRPofkh1qvoPqepvWo9F4cpco-gBm9v0aCx4mi4FxFLaf06ONUCTkhbq_vzg9Fuk7Hz-cUv9/s400/Bentu.jpg"/></a></div>
Roberto Silvestri
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgUT6jZsHUAoFO5P5kIKzjUu7LUaxtETvhrz2wsojwFvueyUaYAFCOiiBKR_oaIg1VQNe8BNWEfcXTSOBYw1w4kQchOfHN1Ys-0y-sylQLXvZDVtSs133evhagRylS5H7KBUFjhRVNNmrfPDjc3GDk6nbn5tdSMonq6zJ2-QFNHSjv2vIOOUAq97w9O/s2560/BENTU-4-scaled.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1440" data-original-width="2560" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgUT6jZsHUAoFO5P5kIKzjUu7LUaxtETvhrz2wsojwFvueyUaYAFCOiiBKR_oaIg1VQNe8BNWEfcXTSOBYw1w4kQchOfHN1Ys-0y-sylQLXvZDVtSs133evhagRylS5H7KBUFjhRVNNmrfPDjc3GDk6nbn5tdSMonq6zJ2-QFNHSjv2vIOOUAq97w9O/s400/BENTU-4-scaled.jpg"/></a></div>
Via col vento, Vento di terre lontane, L’altra faccia del vento… e naturalmente Canne al vento,
Questo vento (Bentu in sardo), protagonista trasparente del nuovo film, didattico-colturale, e a colori vivi, di Salvatore Mereu, modifica il paesaggio, danza tra il giallo intenso dei campi di grano e il blu assoluto del cielo, e produce incanti. Si potrebbe definire il lungometraggio breve di Mereu una perfetta (ma anche atroce) fiaba slow food. Senza principi né principesse. Ma con gli orrori e la morale dei racconti popolari.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgrvk32Exn5_A_Ta0HMgkMiEFeNUpag-tM-zGgRo3HF5EiWs3PJlW3T4rawwxkbqo4lZBesj-4REn2_OEEVuTqREjij56bsIJJqAz_rfN8Oj5jzN4_bCsxPPdrUEeaw2SV4TxRBzNgJ5tzB_qknJ8nkO5hKV9wNbkdBhIXSr6EQ2Z6xRyKxUeGkdDRT/s2560/BENTU-3-scaled.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1440" data-original-width="2560" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgrvk32Exn5_A_Ta0HMgkMiEFeNUpag-tM-zGgRo3HF5EiWs3PJlW3T4rawwxkbqo4lZBesj-4REn2_OEEVuTqREjij56bsIJJqAz_rfN8Oj5jzN4_bCsxPPdrUEeaw2SV4TxRBzNgJ5tzB_qknJ8nkO5hKV9wNbkdBhIXSr6EQ2Z6xRyKxUeGkdDRT/s400/BENTU-3-scaled.jpg"/></a></div>
Siamo a Sanluri, nel Campidano, al centro della Sardegna. Terre aspre e feconde che producono grani antichi (repellenti all’OGM) e un pane unico, il Civraxiu.
E terra di cavalli e asinelli, di turismo equino, sagre e corse in costume. Nel 1409, proprio in queste pianure, i catalani infransero il sogno di una Sardegna sarda. Ma, ironia della sorte, nessuna delle due nazioni, poi, divenne stato…
Non siamo comunque dentro un’opera “film commission”, anche perché in Sardegna funziona come deve il rapporto tra immaginario e promozione/valorizzazione del territorio, che deve essere obliquo, indiretto, inconscio. Non ci si accontenta qui di cartoline illustrate.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqVbKxZ56EDGViG2M-z0eWLRS9TcUQfNsl5owtvREG8P8ys0u3uMYln5iHhDcYhbFcJtdA4JB_Nr7qyjGL8YgUBbExAoapnvwi15aYDWSE_6kuaqwxNKnzCfzI2jZgvy7hrdRLiPE7m0s35jBWw_ZRnDIC-lxbGXv0joZrPbDNuIyPJDY93Gb8mSU5/s500/Salvatore-Mereu-38763.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="297" data-original-width="500" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqVbKxZ56EDGViG2M-z0eWLRS9TcUQfNsl5owtvREG8P8ys0u3uMYln5iHhDcYhbFcJtdA4JB_Nr7qyjGL8YgUBbExAoapnvwi15aYDWSE_6kuaqwxNKnzCfzI2jZgvy7hrdRLiPE7m0s35jBWw_ZRnDIC-lxbGXv0joZrPbDNuIyPJDY93Gb8mSU5/s400/Salvatore-Mereu-38763.jpg"/></a></div>
Liberamente tratto da una novella di Antonio Cossu (1927-2002), dalla raccolta "Il vento e altri racconti", Bentu si svolge nella seconda metà del '900. Il cinema contemporaneo ci ha abituato (da Lisandro Alonso a Fabrizio Ferraro, da Tarkovski a Apichapong Weerasethakul) ad andare contro corrente rispetto alle abitudini del telespettatore smanioso di attenzione continua e terrorizzato dai tempi vuoti. Se un film, come suggeriva Pasolini, è un corpo, si cerca di restituirgli la respirazione umana. Ma già negli anni 50 e 60 del secolo scorso l’era del boom economico (per pochi) non si parlava che di sorpasso.
E avanzava possente lo sviluppo industriale nelle campagne, e arrivavano le trebbiatrici meccanizzate ad alleviare la fatica nei campi. Ma nell’Italia democristiana la riforma agraria non ha sbriciolato, se non nei bordi, il latifondo (inebriato di bracciantato a costo zero, e dalla quantità mai dalla qualità del raccolto) né collettivizzato le terre, per la gioia, soprattutto cinematografica, del kolkoz ucraino.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi4O_0USgwp1XMQA9VAY6jJb4Z1gG-7MHT8y9Xv24oR2TBrYqGyd6PmJ5OtbqbDnqNJgEv4DDLkxazJlIlUiHmWiu7W4d_4vnCh0gOnCiEudrUs_AGTUeLZh5PsxM6IJFMNmLIfGles_2BKVshAZUm79G19GA2V3vn_F-49T9HaJId2kAuM66veuxnC/s1280/bentu%2010.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="720" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi4O_0USgwp1XMQA9VAY6jJb4Z1gG-7MHT8y9Xv24oR2TBrYqGyd6PmJ5OtbqbDnqNJgEv4DDLkxazJlIlUiHmWiu7W4d_4vnCh0gOnCiEudrUs_AGTUeLZh5PsxM6IJFMNmLIfGles_2BKVshAZUm79G19GA2V3vn_F-49T9HaJId2kAuM66veuxnC/s400/bentu%2010.jpg"/></a></div>
Solo pochi agricoltori indie, dalla vista lunga e di antica sapienza, si battevono istintivamente e anacronisticamente per la difesa della biodiversità e contro l'omologazione dei sapori, l'agricoltura massiva e le manipolazioni genetiche.
Uno di questi presidi involontari è l’appezzamento dell’anziano e burbero contadino Raffaele. E trasmette la sua scienza al suo piccolo, scalpitante e recalcitrante nipotino Angelino: c’è differenza tra sviluppo, che è per il Pil, e progresso, che è per il Pop(olo). E’ Raffaele la modernità, addirittura la fantascienza che già immagina agio e lauti profitti grazie a Kamut, grano Cappelli e Carlo Petrini. Il piccolo Angelino che è anche un vivace pescatore di anguille, e ha già colto il ritmo frenetico del nuovo mondo, non si accorge però che è un falso movimento fare un passo in avanti per poi rischiarne due indietro. E che vanno perciò rispettati i tempi asincroni e dissonanti della terra e i piaceri nascosi dell’habitat. Bisogna saper aspettare il vento, che liberi il grano dalla paglia. E anche attendere il momento giusto per cavalcare. Ma Angelino, coi suoi 10 anni, è troppo smanioso. Accetta di “alzare l’aria”, cioè di sollevare il raccolto di grano da terra con il forcone per separarla dalla paglia pur di ricevere, come premio, il permesso per l’agognata cavalcata che lo farà uomo prima degli amici.
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Naturalmente non raccontiamo il finale del film. Ma non c’è bisogno perché il film di Mereu è giù dentro una fiaba sul significato dell’arte, che Viktor Skovskij ruba liberamente alla raccolta indiana di racconti Hitopadesa e riprende in La mossa del cavallo (1923) e che sembra profeticamente anche parlare all’Italia di Giorgia. Immaginate che il piccolo e impaziente Angelino sia diventato il contadino protagonista di questa storia.
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“C’era una volta in un regno lontano, un contadino. In autunno mieté il grano, si mise a trebbiarlo e intanto bestemmiava. Passa un vecchio e gli dice: “Perché bestemmi, perché contamini l’aria pura? Non basta la capanna per bestemmiare?
E il contadino: “Come faccio a non bestemmiare? Il raccolto è pessimo. San Nicola ne ha combinata un’altra delle sue; quando ci voleva la pioggia ha mandato bel tempo e quando c’era bisogno di sole ha mandato il gelo. Ma il vecchio era San Nicola in persona. Si offese e gli disse: “Be’, se non t’accontento del tempo, ti darò l’autodeterminazione; eccoti il mandato così il tempo te lo fai da te. Il contadino si rallegrò e si mise a organizzare il tempo a modo suo. Ma quando in autunno fece il raccolto trovò che era brutto, bruttissimo.
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Eccolo che trebbia e bestemmia, e bestemmia tanto che i cavalli che arrancano per la strada storcono il muso.
Passa San Nicola e ride:
-Come va il raccolto?
Il contadino bestemmia così forte che le nuvolette di passaggio fanno “ah!” in cielo.
- E’ forse un raccolto questo?
- Be’ raccontami come hai organizzato questo tempo.
Il contadino racconta tutto punto per punto.
Il Santo ride:
- E di vento ne hai fatto?
- Perché mai, il vento non fa che scompigliare il grano.
- Il vento ci vuole; senza vento non viene fecondata la segale né il grano. Scommetto che non hai fatto neppure un temporale.
- No.
- Occorre anche il temporale.
Allora il contadino ci pensò su e disse al Santo.
- Sai che ti dico: fallo tu il tempo.
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E il Santo di rimando:
Hai fatto proprio come la gente in Italia che poi è diventata idiota.
- E cosa hanno fatto in Italia per diventare idioti? – chiese il contadino.
- La gente che viveva in Italia (o forse in Giappone?), cominciò ad accorgersi da sé, o forse se ne accorsero gli altri, che diventava più sciocca di giorno in giorno, e d’estate, con l’ora legale, anche tre ore in anticipo. Interrogarono i medici e quelli, dopo molte faticose ricerche, scoprirono l’enigma: quegli italiani mangiavano il riso brillato (o il grano tenero?), mentre il nutrimento indispensabile per il cevello si trova bensì nel riso ma soltanto nella pula.
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Allora un medico disse:
- E’ inutile inventarsi il cibo. Non si può prevedere tutto. La gente diventata idiota per non aver mangiato le glumelle del riso assomiglia all’uomo che si è dimenticato del vento…
La morale della fiaba per Sklovskij è che si finanzia, si regolamenta, si giudica l’arte senza sapere cosa sia. “Noi russi trascuriamo l’arte come le glumelle del riso”. L’arte non è uno dei tanti mezzi di propaganda. L’arte adesso viene regolamentata come il movimento dei treni, invece bisognerebbe permetterle di muoversi organicamente, come fa il cuore nel petto dell’uomo. La volontà di strafare conduce al disastro. Lasciate libertà all’arte, non in nome dell’arte ma perché non si può regolamentare ciò che non si conosce. Non a caso Enrico Ghezzi chiamò la sua rassegna ‘filosofica’ di Procida “Il vento del cinema”.
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-69974328467153350652022-10-27T10:45:00.000-07:002022-10-27T10:45:38.967-07:00Era gennaio a Riga. Alla Festa di Roma vince un film lettone, January di Viesturs Kairiss
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhlKyQDJQtbXeq2HrQfz5oU5zsc0m9fI2kTMexiAcq4QJq8SBPq2rQX3yGc_XD1deyjokhw-B5lnqqI8Oo5oNpVk8Kt5sKoc9-vm-ELraFFqy2BAM_CIaO8V3hdod0d9eIs8Pn3jeERo1moWwj-1z0zugUIOxhpLy6WqKIY6mqHWV-E_OWc3AHY6FW5/s1058/JANUARY_PosterENGLowRes.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="1058" data-original-width="750" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhlKyQDJQtbXeq2HrQfz5oU5zsc0m9fI2kTMexiAcq4QJq8SBPq2rQX3yGc_XD1deyjokhw-B5lnqqI8Oo5oNpVk8Kt5sKoc9-vm-ELraFFqy2BAM_CIaO8V3hdod0d9eIs8Pn3jeERo1moWwj-1z0zugUIOxhpLy6WqKIY6mqHWV-E_OWc3AHY6FW5/s400/JANUARY_PosterENGLowRes.jpg"/></a></div>
Mariuccia Ciotta
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEioFaokhSFD5i2H6soB8bcby2jjqJrWBoAl5PSB99s7WbPSCwaInvw8RvQEEinkrhE7GyJ_Kv6EIb2r5xwCCgaM4Hh1_Yp7Svkpdtu2KL34Ez1VhPhTMgi_jG9h-_6EBKGgdBPUeLwUGhmOj5vTnYjatajLB4Muoy3nzuiDPi1etrkazCvrLH3vmQ6j/s1280/January2.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="721" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEioFaokhSFD5i2H6soB8bcby2jjqJrWBoAl5PSB99s7WbPSCwaInvw8RvQEEinkrhE7GyJ_Kv6EIb2r5xwCCgaM4Hh1_Yp7Svkpdtu2KL34Ez1VhPhTMgi_jG9h-_6EBKGgdBPUeLwUGhmOj5vTnYjatajLB4Muoy3nzuiDPi1etrkazCvrLH3vmQ6j/s400/January2.jpg"/></a></div>
Immagine mutevole, si cambia formato, la narrazione passa dall'analogico al digitale al super8, filmati d'archivio, colori smacchiati dal tempo, fotografia sgranata (del polacco Wojciech Staron). Siamo nel 1991 a Riga, Lettonia e il diciannovenne Jazis (Karlis Arnolds Avots) è inquieto, va e viene lungo i corridoi dell'Accademia d'arte, filma le manganellate sovietiche in sala stampa. Si deve tacere sullo strappo da Mosca. Il paese ha decretato l'indipendenza l'anno precedente, ma la caduta del Muro è ancora fresca, e all'Urss non va che si sfugga alla sua sfera di influenza.
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January di Viesturs Kairiss ha vinto tre premi alla Festa di Roma n.17, che con la direzione di Paola Malanga ha ripristinato il concorso. Miglior film, regia e attore protagonista, dopo la vittoria al Tribeca Film Festival.
Documentari e opere liriche all'attivo, il regista (51 anni) gioca con materiali e toni emozionali diversi e ricorda il sé ragazzo e il grande cineasta Juris Poniesk (Juhan Ulfsak), un documentarista scomparso a soli 42 anni nel 1992. Cinema e storia dichiarano la nostalgia per il tempo delle grandi speranze, Jazis oscilla tra l'illusione comunista del padre – vuole arruolarsi nell'esercito russo – e le barricate contro l'Unione sovietica, finita non troppo bene nonostante la glasnost di Gorbaciov, che il 6 settembre 1991 riconoscerà l'indipendenza della Lettonia.
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Commedia adolescenziale, umorismo, scherzi, giochi, amori, gelosie, e la sensazione di qualcosa di perduto. Il cinema della Nova Vlna ceca fa l'occhiolino a Jim Jarmusch e a Godard, e abbandona la venerazione per Bergman e Tarkovsky dei ragazzi lettoni. Kairiss sembra guardare più verso Paul Thomas Anderson e i suoi fotogrammi “sporchi”, metà messa in scena, metà realtà, luoghi e “fatti realmente accaduti”. Una specie di sbandamento dello sguardo, la doppia visione di Jazis verso la sua ragazza Anna (Alice Danovska), che lo lascia per uno stage con Poniesk, e la realtà dell'attacco sovietico a Vilnius, Lituania, che, come la Lettonia reclamava l'indipendenza, ottenuta nel settembre '91.
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Ma prima, il 13 gennaio, le truppe russe invasero la capitale, ne seguì uno scontro che provocò la morte di 14 persone e il ferimento di 700 cittadini. Su queste macerie l'alias del regista ritorna e cerca di ritrovare lo spirito di qualche rivoluzione, quella estetico-politica raccontata da Sergej Eisenstein, per esempio, nato di gennaio a Riga, e (naturalmente) mai nominato.
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il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-6325321107360988302022-10-18T05:19:00.001-07:002022-10-18T05:19:17.297-07:00Nino Migliori – Viaggio intorno alla mia stanza
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8Oay8_sewD94iNFc7rTeoBrkL8V-ewERMuoCINTBA1chdV8j75T39RYS8pwWrj7cXW9T7AedxflJmnZCjlXcXSuLk8q_Dd_vaKPSEhhuh88cHRRt4ZC-BsLG7YTZiXVv4ndIaxMHGCiks8UFmbFFffRDMWJnM7XW1n3Y2lG13LHnvOCBRHO0mzr9c/s1280/NINO-MIGLIORI.-VIAGGIO-INTORNO-ALLA-MIA-STANZA.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="720" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8Oay8_sewD94iNFc7rTeoBrkL8V-ewERMuoCINTBA1chdV8j75T39RYS8pwWrj7cXW9T7AedxflJmnZCjlXcXSuLk8q_Dd_vaKPSEhhuh88cHRRt4ZC-BsLG7YTZiXVv4ndIaxMHGCiks8UFmbFFffRDMWJnM7XW1n3Y2lG13LHnvOCBRHO0mzr9c/s400/NINO-MIGLIORI.-VIAGGIO-INTORNO-ALLA-MIA-STANZA.jpeg"/></a></div>
<b>di Mariuccia Ciotta</b>
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Il Tuffatore se ne sta in posa dal 1951, fermo sulla linea dell'orizzonte, a consacrare l'opera più celebre di Nino Migliori, classe 1926, che sfugge alla definizione di fotografo, e ancora adesso sfida luce, colori e materiali alchemici. Lo cattura in movimento Elisabetta Sgarbi con il suo Nino Migliori – Viaggio intorno alla mia stanza (41' 20”) presentato alla Festa di Roma nella sezione Freestyle.
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Tre correnti di sperimentazione si intrecciano nel film, tutte fuori dai limiti della propria disciplina. Migliori non si accontenta di aver fissato su carta XX e XXI secolo, passando dallo stile realista al realismo “tumefatto” e tonale - che ricorda i paesaggi e le nature morte dell'amico Morandi - all'astrattismo, fino a una pura espressione patafisica che etichetta l'album fotografico con definizioni tipo Ossidazioni, Pirogrammi, Cellogrammi, Lucigrammi. Da oggetto di indagine filmica, Migliori si ingegna a manipolare le visioni in campo, fiorite nell'occhio del diaframma, come in un film muto. L'effetto è uno strano caos di segni e di sorprese fluorescenti, di giochi metamorfici che entrano in collisione con la musica di Mirco Mariani, polistrumentista degli Extraliscio, anche lui in vena di invenzioni. Una pista di rumori, melodie e battiti. Magnifiche deviazioni sonore.
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Al soggetto e alla regia partecipa Eugenio Lio con il suo tocco lirico-filosofico che chiama a raccolta la piccola (voce da usignolo) Gilda Mariani e la musa di Migliori, Marina Truant.
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Il film gira nello spazio-atelier bolognese di Migliori e scivola dal falso piano del documentario alla vertigine visiva. Elisabetta Sgarbi entra nel mondo a rovescio di Alice, che, passata attraverso lo specchio, può mischiare magicamente suoni e immagini. Un film allucinatorio, un thriller composto da fantasmi, statue piangenti, palline trasparenti che rimbalzano nello spazio, volti riflessi e sdoppiati. Trasfigurazioni. E' questa, probabilmente, la sua opera che, caleidoscopio di forme mutanti, più di altre coniuga innovazione di linguaggio e flusso narrativo.il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-1363983370035287022022-10-13T09:29:00.004-07:002022-10-13T09:48:57.807-07:00"A Cooler Climate" di James Ivory e Giles Gardner apre la Festa di Roma. Premio alla carriera per il regista di "Camera con vista"
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjejos-Sr8paFKzVF7QZdcN_DInZWXNHTvnFhy6XW98g5IpkS55aI5t8oW2C-0rHQdCt4eL2HGSz0YkS5r6f8ebPlOGkaX3i58FBNzGCFmtdHLoqSDflEl-xSgJ3WCW3on2ZczfPnvXQNNdnCWrl76gpB9uPrjaOiXL6q7cjN8R5w4AdMRIQOrNb4ry/s1600/James%20Ivory.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="600" data-original-height="900" data-original-width="1600" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjejos-Sr8paFKzVF7QZdcN_DInZWXNHTvnFhy6XW98g5IpkS55aI5t8oW2C-0rHQdCt4eL2HGSz0YkS5r6f8ebPlOGkaX3i58FBNzGCFmtdHLoqSDflEl-xSgJ3WCW3on2ZczfPnvXQNNdnCWrl76gpB9uPrjaOiXL6q7cjN8R5w4AdMRIQOrNb4ry/s600/James%20Ivory.jpg"/></a></div>Roberto Silvestri
Grande partenza a Roma con A cooler climate di James “Solid” Ivory. Un film (appena visto anche al New York Film Festival) profondamente personale. Finalmente Ivory è entrato nella “modernità” espressiva, anche se da molto adulto (Luca Guadagnino ce lo aveva un po’ anticipato in Chiamami col tuo nome, scritto da Ivory).
Ma per l’americano Ivory, provinciale e gay nel regno dei boscaioli, non era stato proprio facile fare coming out. Almeno non come per Christopher Isherwood, l’impertinente inglese che scandalizzava i salotti letterari e le spiagge dei surfisti di Los Angeles anni 50, esibendo il suo amante minorenne (ce lo hanno raccontato in Chris & Dan Tina Mascara e Guido Santi).
La proiezione di A Cooler Climate (che è anche il titolo di un vecchio tv movie di Susan Seidelman) era affiancata a un grande riconoscimento che il presidente Gianluca Farinelli e la direttora della Festa di Roma, Paola Malanga, gli hanno squisitamente voluto fare. Il premio alla carriera. Invece Solid Ivory è il titolo del suo recente libro di memorie, nelle quali racconta la sua vita e le sue avventure sul set con Maggie Smith, Anthony Hopkins, Vanessa Redgrave, il suo rapporto con il British Style, comprese le musiche commoventi e spigolose di Richard Robbins.
Il premio alla carriera della Festa di Roma è stato infatti consegnato oggi al cineasta più nomade e transcontinentale di tutti. James Ivory. 94 anni e 40 film sempre fotogenici all’attivo, unici e sensuali, fuori schema, illuminati dagli attori e dalle attrici più cool e da ambienti e luci chic, e se “accademici” e “classici” appartenenti però a due Accademie e a due classicismi ben contrapposti e da lui quasi fusi: l’Orientale e l’Occidentale. Basta ripensare alle sue opere più note.
Party selvaggio, Roseland (dimenticato, ma oggi ci sembra il suo più obliquo, libero e charmant), Gli europei, Quartet, I Bostoniani, Calore e polvere, Camera con vista, Casa Howard, Quel che resta del giorno….
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Ivory, cittadino di agiata famiglia industriale dell’Oregon, settore legname, è già coinvolto da piccolo nel mondo magico del cinema (il padre vende legname per i set hollywoodiani della Mgm e se lo porta dietro).
Nel nostro immaginario la sua opera è irresistibilmente collegata all’India e all’Oriente meno estremo. Stilisticamente all’adorato modernista Satyajit Ray. Sentimentalmente al suo partner di sempre, il produttore indiano Ismail Merchant (ma in Solid Ivory si svela che il compositore Robbins era anche l'amante di Merchant, un rapporto che non sembra aver minacciato il primato della loro relazione) e alla sua sceneggiatrice indiana, Ruth Prawer Jhabvala…
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A cooler climate (Un clima più fresco), 75’, accompagnato da un giro melodico minimalista, ripetuto e vivace di Alexandre Desplat, malinconico documentario introspettivo, puzzle di memorie, è l’autobiografia di un corpo represso che si scioglie e cresce molto lontano dall’ambiente claustrofobico natio. Strano, no? Proprio a Kabul. E non può che iniziare proustianamente e affidarsi poi al fascino della prima autobiografia di pregio letterario e pittorico, redatta nei primi anni del XVI secolo, da un condottiero, il mongolo Babur, il conquistatore dell’Afghanistan, poi fondatore della dinastia Moghul, che ha regnato in India per tre secoli, ma anche raffinato scrittore d’avangardia. Ivory ce ne legge molte pagine.
A cooler climate, il piacere di un clima favolosamente temperato, accomuna proprio Ivory e Babur (entrambi omosessuali), e prende lo spunto da un anno giovanile trascorso in Afghanistan tanto tempo fa. Inizia con il regista che oggi, intento al trasloco dalla sua casa stile coloniale (ovviamente) americana, un po’ screpolata, ritrova in una cassa le pizze piuttosto scolorite nonostante i ritocchi digitali di un film mai montato, che sarebbe stata la sua opera terza, del 1960, sequenze girate a Kabul, nei dintorni, sul fiume, nelle campagne, prima dell’invasione sovietica, della resistenza talebana, degli americani, dei mujaheddin…. Diventa uno stupendo documentario raccontato fuori campo in prima persona singolare maschile gay (non solo illustrato dunque dal suo archivio privato di immagini a colori), e diretto, per pudore penso, con il montatore inglese Giles Gardner (che in Afghanistan nel 2018 ha scritto con Sara Mahni “Mille ragazze come me”, un doc sulle figlie molestate e violentate dai padri, poi protetti nei tribunali da un sistema giudiziario patriarcale).
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEivK_HDzWXVZUzQDsDL9VCbKKSPBd_-rHKf_8uNIlo6L8gGT6gR5qPuCZ0hwVx5sAuXkU3wo9VyOo_9Wns8LXZc15UmHi7TSnava2tTIOAEmmQZdDmOKY3LAYDLaBmf1WnqMYvV4XL1RK8uAXqDGOGVkwShB5Kt0p_m5RAQ_8jKpF5HYSfba7j1B9B_/s681/JamesIvory.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="383" data-original-width="681" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEivK_HDzWXVZUzQDsDL9VCbKKSPBd_-rHKf_8uNIlo6L8gGT6gR5qPuCZ0hwVx5sAuXkU3wo9VyOo_9Wns8LXZc15UmHi7TSnava2tTIOAEmmQZdDmOKY3LAYDLaBmf1WnqMYvV4XL1RK8uAXqDGOGVkwShB5Kt0p_m5RAQ_8jKpF5HYSfba7j1B9B_/s400/JamesIvory.jpg"/></a></div>
Alla ricerca del tempo perduto Ivory lo ha letto proprio mentre viveva a Kabul e la scrittura di Proust evoca per lui il raglio del bestiame, la sua madeleine privata acustica, visto che si trovava in un paese per il 99% rurale, che ambiva alla modernizzazione (strade finanziate dagli americani, dighe dai sovietici, entrambi pronti ad assaltare quello strategico ma indocile territorio) ma manteneva tracce coriacee del secolare passato, come il girovagare del bestiame tra gli autobus pubblici e il chador e il burqa non più obbligatori, ma vivamente consigliati alle donne. In quel momento Ivory aveva all’attivo solo due documentari, uno dedicato alle bellezze di Venezia e un corto sulle antiche miniature indiane.
Ed era atterrato in un paese lontano (che non era ancora la meta fissa del turismo hippies, inebriato dall’hascisc, dall’afghano nero e dai suoi poteri lisergici) e nell’aeroporto più disagevole e abbandonato del mondo, oltretutto lontano dalla capitale, solo perché affascinato proprio dal leggendario clima di quel paese, “il migliore del mondo”, temperatura mai superiore ai 30 gradi, “si dormiva con le coperte anche d’estate”.
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Città bruttina, senza monumenti di rilievo, Kabul, circondata però da montagne magnifiche che conservano le vestigia della muraglia edificata da quel grande conquistatore mongolo, morto a 48 anni, discendente diretto di Tamerlano. Esotismo zero, nel testo e nelle immagini. Il ricordo, invece, dell’estrema l’avversione per il cibo, un incubo per il suo apparato digerente, molte scene di vita quotidiana cittadina e rurale, come l’arrivo a Kabul dal Pakistana di una signora inglese cliente fissa dei parrucchieri locali, altro che Karachi, e che lui riaccompagnerà a casa in auto, o bimbi che giocano nel fiume lanciandosi come fosse un pallone la testa mozzata di una capra.
Sono però i giovani adorati amanti maschi di Babur, raffigurati negli antichi libri illustrati a guidare e ispirare Ivory nei suoi ricordi, il vagabondaggio intellettuale dell'imperatore nei vicoli della città, l’incontro con un quasi mendicante malvestito che offriva la rosa al sovrano e poi spariva, in contrapposizione alle sue avventure sensuali o eroticamente abbozzate tra i sunniti, e soprattutto in contrasto con i traumi infantili, alla derisione in Oregon dei suoi coetanei quando, per Natale, affermò in classe che, come regalo, non voleva fucili, ma una “casa di bambole” da decorare minuziosamente (era già l’ossessione scenografica, e non per le “bambole”, a ispirarlo) . Grazie Kabul, per la via di fuga che gli hai regalato, per quella spinta ricevuta verso l’autorealizzazione, anche creativa, data a un cineasta ormai pronto a regalarci le grandi narrazioni cinematografiche che hanno poi conquistato i prestigiosi festival negli anni 80 e 90. Grazie anche per quella statua di Buddha sopravvissuta per migliaia di anni ed eternizzata in questo film, anche se i talebani l’hanno sbriciolata nel 2001. Il momento più toccante del film è quando Ivory racconta l’incontro con due uomini afgani, l’amicizia rapida, l’invito casa, James che si chiede: “chissà se faremo sesso”, in un misto di desiderio e paura. Non lo faranno. Almeno questo ci dice il film.
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-4826862285391310392022-10-10T09:10:00.004-07:002022-10-16T11:44:09.530-07:00Le incantevoli notti di Pordenone. Giornate del cinema muto n.41
<b>Roberto Silvestri </b><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgq79TFlOf7ZbouR3Gpwq4zUvTath2FIlkWdeuleVr97VcXNC2YVQKlJopWMZssLUJOLLi_Jc58jWCwKfMXrb8XWtd3YxmeQPP1juldqKVD5x0dLz8vUewFtSKfRuotVc9teP089GTk2umknSR_A0PC9lmFkdIwAq7AoSxXTbCQItWX2uMCKZeyStzd/s660/poster%20Pordenone.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="600" data-original-height="330" data-original-width="660" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgq79TFlOf7ZbouR3Gpwq4zUvTath2FIlkWdeuleVr97VcXNC2YVQKlJopWMZssLUJOLLi_Jc58jWCwKfMXrb8XWtd3YxmeQPP1juldqKVD5x0dLz8vUewFtSKfRuotVc9teP089GTk2umknSR_A0PC9lmFkdIwAq7AoSxXTbCQItWX2uMCKZeyStzd/s600/poster%20Pordenone.jpg"/></a></div>
La maggior parte dei festival prestigiosi brillano per il contenuto artistico dei film selezionati, ma c’è un appuntamento mondiale di serie A in cui è soprattutto il contenuto artistico della sala cinematografa a contare.
Se si entra infatti – senza mascherina, distanziamento sociale e prenotazione, finalmente - nel teatro Verdi, affollata sede storica delle Giornate del cinema muto di Pordenone giunte alla 41esima edizione (1/8 ottobre), si troveranno fianco a fianco non solo i luminari, uomini e donne, della cultura cinematografica planetaria, i critici (pochi gli italiani, ma c’è Stefano Masi e Sergio Grmak Germani), gli archivisti, i restauratori, gli storici d’ogni continente, e quest’anno anche una copia di sublimi cinefili, il regista John Landis e la costumista e storica del costume Deborah Nadoolman Landis, ma anche i musicisti e i direttori d’orchestra che trasformano ogni appuntamento in un evento unico e irriproducibile. La versione più completa mai vista di <i>The Unknown </i>, lo sconosciuto, di Todd Browning, ci ha restituito in apertura del festival un'opera di modernità e potenza immaginaria devastante degna di un lavoro oltre l'horror di David Cronenberg, con una performance di Lon Chaney affidata a piccole variazioni Goldberg sul suo volto, dalla felicità più beata all'angoscia più disperata, di micidiale effetto, tanto da annullato qualunque effetto Kuleschov. <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhsqXrHLDhoT6IfmNU5LyxKZaOVR-XxDAcbDKSlCr09eN7A9tlPZjYZ2NjQuixOpKxcrx9K31NBIQyJNkwR_iz5Mz6U4Mwxu0mMakLe1p3YvJFGUKUzyPWkUY4GFV1NfaOEwd-5yq6v81svPezuWwXpG0zqEOgUBexYC7RJCG8sPbll-PPsCreEpR16/s700/chaney%20e%20joan%20.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="700" data-original-width="500" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhsqXrHLDhoT6IfmNU5LyxKZaOVR-XxDAcbDKSlCr09eN7A9tlPZjYZ2NjQuixOpKxcrx9K31NBIQyJNkwR_iz5Mz6U4Mwxu0mMakLe1p3YvJFGUKUzyPWkUY4GFV1NfaOEwd-5yq6v81svPezuWwXpG0zqEOgUBexYC7RJCG8sPbll-PPsCreEpR16/s400/chaney%20e%20joan%20.jpg"/></a></div>
<b>Circo. Mondo gitano. Spagna.</b>
Tutti hanno i fazzoletti in testa. Contesa d'amore tra sollevatore di peso e Alonso, il lanciatore di coltelli. Obiettivo Nanon (Joan Crawford), bella ma imprendibile. Ha la fobia delle mani maschili, non vuole farsi avvicinare, meno che mai toccare. Il lanciatore di coltelli sembrerebbe prevalere. Infatti è senza braccia. Lancia con i piedi. Non può abbracciarla. Fa tutto con i piedi. Il rivale piega l'acciaio ma quando si avvicina a Joan, viene respinto con rabbia. Le cose però non sono come sembrano. Infatti lei ama il forzuto, non l'amico "mostro" con cui è più affettuosa. Che poi mostro non è. E' tutto un trucco, ideato per non avere fastidi dalla polizia che ricerca ovunque un pericoloso assassino e rapinatore...Lon Chaney ucciderà perfino il padre di Joan, il padrone prepotente del circo... Ma quando si rende conto che lei potrebbe scoprire il suo segreto, ricatta un chirurgo (reo di aberranti crimini nel passato, in Algeria, chissà cosa ha fatto...) e si fa operare. Le braccia le perde davvero, per amore. Ma Joan supera la psicosi e si mette con mister muscolo. Chaney prepara l'atroce vendetta. Il rivale fa un pericoloso spettacolo con i cavalli. Li trattiene mentre corrono uno di qua e uno di là.. Basterà controllare la leva che ne trattiene la velocità e....
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Non si va a Pordenone per snobismo ma per lavorare. Non per commuoversi nostalgicamente davanti alle immagini di un’arte perduta per sempre – è crescente infatti anche il numero dei giovani critici che partecipano al Collegium, e vogliono confrontarsi con la vitalità di queste immagini - ma per rimuoverne e riattivarne i sensi, per deformare e riscrivere collettivamente e continuamente le storie del cinema, per ribaltare gerarchie ammuffite e obsolete, per vendicare talenti dimenticati, inattuali allora, ex anacronistici, futuristi oggi. Ogni frammento ritrovato può aprire sentieri fecondi. Se il destino per il cinema (non sul web, non in televisione) è legato ai grandi eventi, al futuro super show Marvel (in larga parte muto quanto a qualità e quantità dei dialoghi) ecco che le Giornate del Muto di Pordenone sono un po’ un’esperienze limite di quel tipo. Ci sono solo proiezioni eccezionali. E uniche. O grandi scoperte.
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<b>Da Norma Talmadge a Meryl Streep</b>
Per esempio senza la conoscenza approfondita (e per noi la scoperta) di Norma Talmadge, oggetto della retrospettiva divistica di questo 2022, ovvero della regina rimossa prima del cinema newyorker anni 10 poi della Hollywood anni 20, dell’attrice e produttrice che al fianco di Joseph Schenck fabbricò e rese il melodramma l’asse portante del mercato cinematograficamente “serio”, si comprenderebbe molto meno un certo tipo particolare di diva e la strada che da lei e da Norma Shearer e Ann Harding ci porta a Greer Garson, Deborah Kerr, persino a Grace Kelly e infine a Meryl Streep. Cioè alla storia dell’attrice di classe, dell’alta recitazione Studio System, di quelle performer capaci di interpretare i classici della letteratura e del teatro o le Grandi Donne della Storia Americana, asiatica, nativa o europea (nel caso di Talmadge: Yes or not, le imbarazzanti epopee colonialiste The Forbidden City e The Hearth of Wetona e The Moth). Hollywood non produce solo sex symbol o bellezze senza talento. Ma attrici di prestigio, capaci di micro-espressioni facciali sottilissime, di esaltarsi manovrando personaggi contrastanti e opposti o gestendo gamme espressive debordanti e estreme. Great Ladies, che onorano il cinema e danno dignità, interpretando da gran dame Madame Curie o Mrs.Miniver, alle cerimonie degli Oscar. Insomma come The Lady di Frank Borzage (1925), in Italia Una vera signora, tour de force recitativo che sulla scia di un personaggio dipinto da Frances Marion, Polly Pearl, le permette di essere credibile e commovente fino al masochismo come star del music hall londinese, poi ricca moglie in Costa azzurra abbandonata da un aristocratico abietto, poi madre single costretta ad affidare il figlio neonato a un pastore protestante pur di non lasciarlo al suocero ancora più immondo (forse è il ritratto di gentiluomo inglese più schifoso di tutto il cinema americano), poi poverissima venditrice di fiori alla ricerca del figlio perduto e sull’orlo del suicidio, infine saggia proprietaria di una locanda marsigliese, in un ambientino che Casco d’oro di Becker ruberà nel 1952 quasi filologicamente. Lì ritroverà, nel tragico finale, il figlio ormai soldato.
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Con il sonoro, molto ricca, Norma Talmadge abbandonerà il cinema. Muore a Las Vegas nel 1957. Una famiglia, la sua, di super star, anche se oggi quasi completamente dimenticate. Eppure la sorella Natalie sarà, per un po’, moglie e complice di Buster Keaton e l’altra sorella, la it girl Constance, meno attratta dalle Grandi Dame studiose di Eleonora Duse e Sarah Bernhardt e delle virtuosistiche triangolazioni di sguardo, cuore e mani, sarà un genio della commedia scatenata e della controcultura “gender”. Bisognerà farne, a Pordenone, una retrospettiva altrettanto ampia….
La moda e il silent movie
Intanto parte da quest’anno alle Giornate una attenzione speciale al capitolo “moda e cinema”. Un intervento, il 6 ottobre scorso, della storica del costume Michelle Tolini Finamore, oltre che quello di Deborah Landis, è stato proprio dedicato all’importanza che Norma Talmadge, produttrice di se stessa, e critica di moda in riviste specializzate (molto aiutata da Harrison Ford, ne parleremo), dava al reparto “dressing”, non solo per assumere sui set sarti di classe: grandi designer del costume diventeranno indispensabili presenze creative in tutti gli Studios.
Quando i gay erano protetti
Uno dei suoi partner più adorati, l’attore gay neworchese Harrison Ford (niente a che vedere con il suo omonimo moderno), contribuì al successo di Love’s Redempion (1921) e Smilin’Through (1922) anche per i suoi raffinatissimi gusti sartoriali (oltre che adorato dal geloso Schenk, perché non particolarmente pericoloso sul set). L’altro partner classico di Norma era l’irlandese che veniva dal Colorado, altrettanto omosessuale e stimato da Schenk, Eugene O’Brien (visto in The Moth e Ghost of Yesterday, una sorta di signora delle camelie del 1918), ma raccontano i pettegoli della settima arte, piuttosto più flessibile sessualmente…
Nel cinema muto la sensibilità gay alto-medio borghese (pensiamo anche a Edmund Lowe, Dorothy Arzner, William Desmond Taylor…) era molto apprezzata dai produttori (immigrati di lingua madre yiddish, piuttosto rozzi e geniali) purché fosse off screen, sia per la loro straordinaria creatività quanto a set e moda (pensiamo a George James Hopkins, responsabile del look Theda Bara, o a Howard Greer che nel 1922 creò il primo Wardrobe Departement per Pola Negri) che per la capacità, da fedeli partner di Norma Talmadge, di ricreare (in forme sottilmente e segretamente parodistiche, e in maniera insuperabile) l’intera raggiera dei valori, dei comportamenti e degli ideali middle-class. I mass-media anni dieci e primi anni venti erano più liberi e meno aggressivi di quelli che l’avrebbero certo fatta pagare a Rock Hudson e Tyrone Power…. Quella cultura e quella esperienza che a loro mancava. Clifton Webb, superato il decennio omofobo, riemergerà negli anni 40 come ultimo rappresentante dell’antica “covata benefica”, relativamente tollerata e privilegiate, prima del Codice Hays.
Inoltre.
<b>La musica dal vivo
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Lunedì 3 ottobre alle ore 22, durante la proiezione del melodramma della gelosia La dixième symphonie di Abel Gance del 1918, uno straclassico francese del cinema muto (presentato nella sezione ”Il canone rivisitato”), applausi a scena aperta dell’intera platea e galleria in piedi dopo la trascinante esecuzione al piano della “decima sinfonia” (evocata nel titolo del film) che John Sweeney ha appositamente creato, “alla maniera di Beethoven”, visto che la partitura originale è andata perduta. Il new zeland Sweeney, un “pianista del muto” per antonomasia, è un Papa della musica applicata al cinema “primitivo”, avendo lavorato con tutti i festival specializzati (Cinema Ritrovato compreso). In questa performance demoniaca, un dinamico pianismo liberatorio jazz-espressionista eccita fino alla rottura il design ossessionato dalla ricomposizione dell’opera romantica, rendendo dissonante, ma esteticamente avvincente, la sublimazione finale del tormento e del dolore esistenziale di Enric Damor (l’attore Severin Mars). Cioè del compositore stesso della “Decima”, sconvolto dal tradimento (in realtà del tutto inesistente) della moglie Eva (Emmy Lynn), ma grato a lei per averlo trascinato, con il suo oscuro passato, anche di assassina, riemerso, nel baratro tragico più creativo. E’ come se nella perversa parodia del sublime di Sweeney - a prendere il controllo musicale della partitura sia proprio il losco viveur Fred Ryce (Jean Toulot), il rivale di Damor, ma in fondo il suo doppio come si vedrà nel sorprendente finale, cioè il simbolo stesso della prepotenza maschile europea tra le due guerre, dittatoriale, a partire dal controllo delle donne. Il destino di Eva – ci dice Gance invitandoci solo a compiangerla - ricattata per tutta la vita, è la sottomissione totale, matrimoniale (e non c’è divorzio che tenga) e giudiziaria (in realtà ha ucciso per legittima difesa, ma nessun tribunale le darà mai ragione). Per fortuna arriva la musica di Sweeney a vendicarla, a trasformarla in antesignana della sovversiva femme fatale.
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Sosin così affianca e supera Gance, ancora prono all’inossidabile (e piuttosto noioso narrativamente) baricentro simbolico maschile, riaggregatosi opportunisticamente dopo la strage (10 milioni di giovani soldati morti) della Grande Guerra. Che avrà conseguenze disastrose, nei rapporti tra i sessi, in quasi tutte le società europee (la neutrale Svezia esclusa, come vedremo).
La qualità, anche musicale, delle proiezioni è dunque ciò che ha reso ancora più obbligatorio il viaggio annuale a Pordenone (decano dei tanti festival dei “silent movies” che ne hanno poi riapplicato la formula ovunque). Billy Wilder diceva che una platea è sempre geniale anche se il singolo spettatore può essere stupido. Pordenone lavora molto ben soprattutto sul singolo spettatore, per esempio fornendogli un catalogo che è il più ricco e completo e “militante” (in un’epoca di cataloghi, vedi Venezia e Cannes, solo autopromozionali, qui si fa provocazione e polemica).
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<b>Ruritania. La Svezia in crisi fu più fertile</b>
Nell’altra sezione forte del programma, dedicata ai film del genere Ruritania, e di grande attualità vista la commozione mondiale per le esequie di Elisabetta II, l’ ultima monarca magicamente rispettabile della storia, si è visto la divertentissima e sovversiva commedia, in coproduzione con la Germania, del 1928, quasi un Lubitsch-touch, Sua maestà il barbiere (Hans Kungl. Hoget Shinglar) scritta dal geniale umorista viennese ebreo Paul Merzbach (anche regista del cinema inglese oltre che scandinavo, visto che era in fuga da Hitler) e girato negli studi presso Stoccolma dal regista svedese Ragnar Hyltén-Cavallius che i grandi storici come il compagno Georges Sadoul e i fascisti Maurice Bordéche-Robert Brasillach ricordano solo perché lavorò a un certo punto con il sommo Vilgot Sjostrom, dilungandosi invece sulla crisi irreversibile del cinema svedese che era stato grande e unico nell’epoca Mauritz Stiller-Greta Garbo, affascinante per i suoi poemi “wilderness più misticismo”, fino ai primi anni 20, ma poi era stato distrutto da Hollywood che aveva avuto l’abilità di prosciugarne tutti i quadri creativi più illustri. E ne aveva mal copiato la ritmica e gli assoli. Invece.<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhw6kiQ2lontxOtReFdd70F4G1F-9X3QbtXB8FBwB4Cn8DWh25uA_QFeps5_wlA8H23Chnb590A5PHF15a6MxuSwZo43AVroo_Uhz0v8YM7minw8llrOmHrwk-RABcYt2z1HqWm28DppcfStjX9o5XwR6EQNpk8mi2KQ-bdRfS7nehtzqhhQA1Joi8F/s455/brita%20appelgren5.png" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="455" data-original-width="366" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhw6kiQ2lontxOtReFdd70F4G1F-9X3QbtXB8FBwB4Cn8DWh25uA_QFeps5_wlA8H23Chnb590A5PHF15a6MxuSwZo43AVroo_Uhz0v8YM7minw8llrOmHrwk-RABcYt2z1HqWm28DppcfStjX9o5XwR6EQNpk8mi2KQ-bdRfS7nehtzqhhQA1Joi8F/s400/brita%20appelgren5.png"/></a></div>
<b>Per un cinema europeo diverso </b>
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEji8aTwM-fv6dh5juTkrgEc4dzLKvE0lXIkwvyOuzrFuaoRggLMgANLVHN3czuGXQvKQsQ5JDm1Y4QDAt1a7oC_F0ZdhPGCSBow09YfHU1Nixkm5Eu5ygOpG9mA2huMTZqiREJHOCOLrwmROHUm6Y7CZAvWa8xH3HjKlAxYxvke7KZFzz-BPJUenfF5/s1280/merzbach%203.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="720" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEji8aTwM-fv6dh5juTkrgEc4dzLKvE0lXIkwvyOuzrFuaoRggLMgANLVHN3czuGXQvKQsQ5JDm1Y4QDAt1a7oC_F0ZdhPGCSBow09YfHU1Nixkm5Eu5ygOpG9mA2huMTZqiREJHOCOLrwmROHUm6Y7CZAvWa8xH3HjKlAxYxvke7KZFzz-BPJUenfF5/s400/merzbach%203.jpg"/></a></div>
Oltre alla presenza forte di un’altra diva dimenticata come la svedese Brita Appelgren, quasi una Drew Barrymore ante litteram, per grazia, arguzia e ferocia, e una irrisione alle leggi comportamentali e di glamour vittoriane, qui completamente sfigurate e irrise come in nessun mélo di Norma Talmadge si osava, questo swing-film, questo esempio sovversivo di commedia dei telefoni bianchi – bollato infatti dalla critica pregiata con la peggiore delle sue ingiurie, cioè come “americanata” - è invece un esempio importante, il prototipo, di altra via feconda che avrebbe potuto prendere, e non prese, il cinema europeo nel momento di passaggio dal muto al sonoro. Sono stati infatti i nipotini di Nestroy e della farsa viennesa a concepire nella prima metà dell’ottocento (feudale, dispotico, imperiale) e strutturare poi in dettagli sulfurei quella che sarebbe diventata la ‘slapstick comedy’, che nacque in Francia e fu soprattutto animata dalle selvagge nasty girl e dai comici anarchici, e poi si travestì da commedia avvelenata, deturpata, inquinata, insomma “sofisticata” che ebbe il suo momento di gloria proprio nel decennio dei film più censurati, ovunque nel mondo, della storia. Gli anni trenta. In Usa, in Urss, in Italia, in Germania… Il ramo Lubitsch-Wilder, che conosciamo di più, fruttificò a Hollywood. Ma un altro ramo, da Vienna, passando per Berlino, Parigi, Stoccolma e Londra, poteva essere la salvezza del cinema europeo. Farne la potenza n.1 competitiva sul mercato mondiale. E fu lasciato morire. Fu un grosso equivoco sul concetto di cinema di qualità, d’arte, d’autore. Ai tecnici della battuta e della frase fatta, avrebbe risposto Karl Kraus che l’arte (non permessa dalla legge) è quella “lunga strada tra il guardato e il pensato, il percorso più breve tra un rigagnolo e la Via Lattea”. E forse sotto il cielo europeo non c’è stato nessun corriere veloce come Paul Merzbach: con lui la vita non è stata male arredata. Copiava Lubitsch? Certo, il couplet (cioè quando nel vaudeville a un brano musicale si cambiano le parole per far ridere, o un film trombone diventa divertente grazie a Franco e Ciccio) è grande arte, high art. Altra idea per un Pordenone a venire? <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdkzHi6HA02oRfGY6lsgh_9mXD1YLw6_pmRKB8fx9yduo_FdtqrDQFxhb8-KWXhd_3OzQzw0-kFh2hX4734lWYCESrcy9xjIHkaWff1eeyLLx1Ah7_vdviIrdRhs5K9dqGK9ctdLot5O2CcdniBXP7HY1fFS1Gp_lx8f-StfaqyG3TI6Nq2ejn77Kw/s544/Harrison_Ford_%28silent_film_actor%29.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="544" data-original-width="376" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdkzHi6HA02oRfGY6lsgh_9mXD1YLw6_pmRKB8fx9yduo_FdtqrDQFxhb8-KWXhd_3OzQzw0-kFh2hX4734lWYCESrcy9xjIHkaWff1eeyLLx1Ah7_vdviIrdRhs5K9dqGK9ctdLot5O2CcdniBXP7HY1fFS1Gp_lx8f-StfaqyG3TI6Nq2ejn77Kw/s400/Harrison_Ford_%28silent_film_actor%29.jpeg"/></a></div> (la foto è di Harrison Ford)
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-21660691966521311822022-09-30T09:32:00.009-07:002022-09-30T14:36:32.592-07:00"Ti mangio il cuore" di Pippo Mezzapesa. Il bidone come western puro
<b>Roberto Silvestri </b>
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhRhAGlj7DOWmNYs8qxvqMMX_8Ech1nM50pxVx7zxKthDexrsKb-OhQtCt8mLdISBIq6zKiXIjF66GGZTV-yB40yr1-mW-Ea23gplpF8p4m7yrPeOBL5U5JPPwBUdCG02lY3xoJ6DKbe1WKNISqDShnb4VJaS5bGSL0D7X_17l5NafxYOaS9_Ghl4KT/s1024/mezzapesa1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="608" data-original-width="1024" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhRhAGlj7DOWmNYs8qxvqMMX_8Ech1nM50pxVx7zxKthDexrsKb-OhQtCt8mLdISBIq6zKiXIjF66GGZTV-yB40yr1-mW-Ea23gplpF8p4m7yrPeOBL5U5JPPwBUdCG02lY3xoJ6DKbe1WKNISqDShnb4VJaS5bGSL0D7X_17l5NafxYOaS9_Ghl4KT/s400/mezzapesa1.jpg"/></a></div>
Condurre una vita con dignità non è facile. Impariamo qualcosa da Rosa di Fiore, tradire è eticamente più che corretto. Indigo Film che produce non voleva assolutamente (e giustamente) una replica di Gomorra (e simili) ormai gioiello alla moda cannibalizzato fino all’osso. Anche se il cognome del montatore semiesordiente, Vincenzo Soprano, parrebbe sospetto. Ma il suo lavoro free jazz basato sulla “fonologia della pausa” (come avrebbe detto Umberto Eco) e sul silenzio dello skratching, è mozzafiato. Da David di Donatello. Scrive con acutezza da Venezia il critico indiano Akash Deshpande: “Il modo in cui Soprano bilancia i silenzi con i raccapriccianti omicidi pieni di rabbia è geniale. L'intelligente mix di elementi della sceneggiatura rende il film costantemente coinvolgente e infinitamente avvincente. Cattura la tua totale attenzione. Anche i momenti di attesa destinati a concludersi con una nota tragica sono presentati con la necessaria suspense”.
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Proprio come la fotografia dalle mille sfumature di grigio, di nero e di bianco di Michele D’Attanasio. Se le sue inquadrature suggestive e significative rendono il film un'esperienza cinematografica che vale la pena vivere su grande schermo cinematografico ricordiamoci che Mezzapesa non ci siede sopra soddisfatto. Ma crea un’inedita atmosfera mai calligrafica, anzi aniconica, nel senso che non si affida mai a repertori standard cui alludere (la scena d’amore bianco-su-bianco nella salina; le esecuzioni; i dibattito da circolo cittadino, la stessa processione e ‘fuga’…). Questo può generare noia, inquietudine. Inoltre. Ma. Attenzione alla personalità dei pantaloni scelti via via da Ursula Patzak (che rifanno la storia del cinema, da Germi a Russ Meyer) ai quali Theo Teardo dà sostanza sonora vibrante e obliqua.
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Dunque bisognava far slittare sensazione, percezione, immaginazione, memoria dello spettatore fuori dalle icone ripetitive del thriller malavitoso nazionale, a sfondo neorealista. Il baricentro simbolico del film viene così consegnato interamente a Marilena (Elodie) che entra nella storia del cinema italiano con la grinta e la furia e gli occhi (truccati come nel cinema muto affinché ipnotizzi lo spettatore) di una Tura Satana. I suoi due antagonisti, Francesco Patané e Francesco Di Leva, sono pedine del suo romanzo di formazione, verso la libertà dell’amore (Andrea Malatesta la spinge naturalmente al doppio tradimento, di sangue e di talamo) e la libertà della ragione (quando capisce dai suoi falsi movimenti di far parte di un gioco doppiamente miserabile) e oltre: l’esodo, una seconda vita. Mezzapesa la tratta come Lev Kuleshov. Funziona.
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Così Lidia Vitale e Tommaso Ragno, che sono membri della famiglia mafiosa, i Malatesta, ma più da Bob Wilson o Pina Bausch che da Sollima jr. E Nicola Davide, Mauro Lamanna o Kalysie Pagan, i loro rivali Camporeale, che si spingono verso la commedia stracult e l’ibridazione scandalosa. Il prete, Massimo Iannantuoni, poi, dimostra definitivamente che non esistono piccole parti ma solo piccoli attori che Maria Teresa Monco (casting director) sa come evitare. Qui introvabili. Lo spettatore italiano ne sarà molto disorientato se non disturbato. Proprio come in un western epico di William Wellman o di Glauber Rocha. Già. Siamo nel West mentale, senza legge e senza dio.
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<b>Lunga parentesi </b>
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Nel western classico nordamericano, alle scaturigini dello sviluppo capitalistico, antropofagico per definizione, sono tre le “famiglie”, da sfida all’Ok Corral, che si combattono cioè all’ultimo sangue per la supremazia nei nuovi territori: i piccoli coltivatori indipendenti e “democratici”, ma dall’estremismo puritano pericolosamente ambiguo; gli allevatori, ossessionati dai muri e dai fili spinati (L’uomo senza paura di King Vidor); gli speculatori terrieri “federalisti” e molto atei, collegati con i poteri forti ferroviari e bancari dell’Est. Edgar Allan Poe ne fa una perfida satira nel 1843 in Didling Considered as One of Exact Science cioè “La bidonata come scienza esatta”.
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Quest’ultima famiglia, la più organizzata e famelica, e ben spalleggiata dall’esercito di Washington, sempre pronto a tenere a distanza i quarti incomodi alieni (nativi nervosi, francesi, sudisti impazziti, messicani, californios come Zorro, schiavi insorti…), completerà la “conquista wasp del West”. Secondo un’interpretazione della costituzione americana (sintomo della rivoluzione anti-inglese tradita o almeno incompiuta) che tende piuttosto (“In God We Trust” leggiamo sui dollari) all’eguaglianza e alla tutela religiosa dei grandi proprietari che non dei semplici cittadini. Dei redditi più che delle persone.
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Il western del crepuscolo (Furia selvaggia di Arthur Penn, 1958; Solo sotto le stelle di David Miller, 1962…) che anticipa l’autocritica New Hollywood a proposito di ideologia della Frontiera, e del divorare i pesci piccoli come comandamento unico e obbligatorio, non a caso inizierà a raffreddare l’entusiasmante epopea progressista, utilizzando un bianco e nero più riflessivo e saggistico, visto che anche di genocidio si trattava. L’ultimo John Ford e l’ultimo Howard Hawks ci piacquero molto, ma erano “diversamente classici”, e furono accolti gelidamente da critica e pubblico, come fossero opere di registi pentiti.
La semplificazione, di classe e di etnia, attuata invece dal western spaghetti italiano anni 60-70, gioconda e umoristica parodia di un complesso snodo storico-politico altrui, rende più gigantesca e cruciale la ferocia del conflitto, zoommata secondo una sensibilità sia terzomondista che Pop Art (almeno nei suoi esiti più alti, da Leone-Eastwood a Questi, da Lizzani a Sollima e Corbucci). Il contesto filologico importava molto poco ad Almeria (dove il nostro cinema era stato militarmente cacciato dall’occupazione Usa di Cinecittà) e non ricordo, infatti, un solo western spaghetti in bianco e nero.
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Se non uno. L’improprio, obliquo, contadino, metaforico Fuoco! di Gian Vittorio Baldi, troppo sottovalutato film del 1968 - e che del 1968 è drammatica allegoria, visto che la rivolta sociale obbligatoria degraderà nella psicosi familiare e infine nella follia individuale - aperto dalla sequenza di una statua della Madonna in processione, devastata dalle fucilate.
Adesso non si osa più sparare direttamente alla Madonna, ma, obliquamente, o di sponda. Ci pensa Pippo Mezzapesa a farlo. Sangue indiretto che ne imbratta la scultura. Sangue indiretto che ci ricorda famose e controverse stimmate, un’icona potente della zona scelta come set, il Gargano, nel foggiano, ma dell’est, del film Ti mangio il cuore….
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E Padre Pio vuol dire per me soprattutto ristabilire una triangolazione: il millenarismo populista (“il santo di Pietralcina ha combattuto il male tutta la vita” secondo Papa Francesco, ma non secondo Papa Giovanni XXIII che lo trattò piuttosto da “bidonista”); lo strapotere capitalistico dei latifondisti pugliesi, appoggiati dai carabinieri di stato; infine i braccianti - oggi transnazionali - perennemente presi a fucilate. E poi i Di Vella e il Caradonna nonno, la legge privata nella zona imposta con le armi perché di appalto si vive nelle repubbliche imperfette…Come nei villaggi western. E infatti agli attori del film foggiano – terra della quarta mafia - è stato consigliato di vedere molti western.
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<b>Fine parentesi </b>
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Lì, in Fuoco!, la tragedia individuale che portava alla follia scaturiva dalla disoccupazione atavica, qui, in Ti mangio il cuore (che diventa nel titolo internazionale un più mélo Cuori ardenti) la follia collettiva è frutto dell’orgoglio e della gloria di due famiglie potenti e criminali che scatenano un gioco di vendetta ciclica e reciproca per imporre a pallettoni la propria supremazia. Più bestiame. Più estorsioni. Più taglieggiamenti. Più licenze balneari… Ma di droga e prostituzione e ludopatie si parla poco.
L’umorismo feroce e macabro di questo copione di Mezzapesa (Antonella Gaeta e Davide Serino), già sbandierato nella saga del becchino Pinuccio Lovero, e del libro inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini (sulla vera storia di Rosa Di Fiore, prima pentita della mafia garganica …) non solo si dilunga sul matriarcato come macchina machista del potere (cinematograficamente non si può non pensare a James Cagnery di La furia umana o a De Niro e Bruce Dern di Il clan dei Barker, pupazzi nelle mani delle loro mamme Margaret Wycherly e Shirley Winters, disposte a tutte le peggiori aberrazione proprio come Lidia Vitale pur di trattenerli a sé, satellizzati) fa capire che, in questo paese di segreti e di “bidoni” di stato, bisogna tenere sempre ben presente il fuori campo. E’ lì che si manovra, astutamente, cinicamente e per il bene gattopardesco. Tutto deve cambiare per essere diversamente uguale.
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Si macinano sentimenti coriacei: rispetto, coerenza, orgoglio, vendetta. Quelli che fanno vincere elezioni. Ma c’è ancora chi è capace di tirarsi fuori da un set mentale psicotico e di cambiare gioco. Bisognerà solo attuare piccoli gesti cannibalici, di cancellazione materialistica, di bontà non buonistica, secondo l’indicazione postsadica di Luca Guadagnino (Bones and All) o del suo maestro Naghisa Oshima L’impero dei sensi. Dove il cannibalismo è segno di una ingiustizia tangibile, di un disequilibrio fertile nel rapporto erotico, estremo come programma minimo. E di una serie di film che oggi andrebbero rivisti: Nobi di Kon Ichikawa (1959), sbranarsi per sopravvivenza e fino a I sopravvissuti delle Ande di René Cardona jr (1976); I giovani cannibali (1960) di Michael Anderson (1960),il divorarsi perbene. L’urlo di Tinto Brass (1968), mangiato vivo dalla censura. I cannibali di Liliana Cavani (1969), dove vince il divorarsi moderato. Duetto per cannibali di Susan Sontag (1969), racconta come i vecchi mangiano i giovani per draculismo congenito. Poi gli hippies di Week-end di Godard e Pierre Clementi di Porcile (meglio il sesso cannibale che quello zoofilo). In Macunaima, per tornare al cinema novo brasiliano e a Glauber Rocha, Joaquim Pedro de Andrade ne fa l’allegoria del tropicalismo e dell’antropofagia, cioè di quella forza ibrida e contaminativa che creò il nuovo uomo brasiliano, al di là del nero schiavo, dell’indio perseguitato e del portoghese povero e sfruttato (quello che fu sterminato dalla repubblica brasiniana appena nata perché diventato movimento millenarista ribelle). Ovviamente La notte dei morti viventi di George Romero (1969) che, e non solo per il bianco e nero della cupissima fotografia alla quale Michele D’Attanasio “ruba” quel senso d’orrore ancestrale.
Ps. Se si parla di Michele Placido (qui perfetto) si racconta troppo la trama .... Le foto 8 e 9 sono tratte da Fuoco! di Gian Vittorio Baldi. Qui sotto il regista Pippo Mezzapesa
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il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-69875797383222910022022-09-13T16:26:00.003-07:002022-09-13T16:26:52.880-07:00Prénom Godard. Chi scriverà più le immagini ora che la "politica dell'autore" è morta? <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdqjF0jkGXLKbrR03dc2mCq4RK7AJJ2ZVUJqWLcbpgISNQzMOMFmK_syxzq6YE5GDBp_s4476XzJmMN9Q6zfA0SK9oxfAjgOjU5Nlz29QzYYR0OBG8_IKq7riJTwEjEGy7thAV0Nwtb34ZFuDCXOiXumKNFl-3Kz27BujTXYROhu1bPOmBvtF_-8zF/s960/godard%20poe%20.png" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="600" data-original-height="720" data-original-width="960" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdqjF0jkGXLKbrR03dc2mCq4RK7AJJ2ZVUJqWLcbpgISNQzMOMFmK_syxzq6YE5GDBp_s4476XzJmMN9Q6zfA0SK9oxfAjgOjU5Nlz29QzYYR0OBG8_IKq7riJTwEjEGy7thAV0Nwtb34ZFuDCXOiXumKNFl-3Kz27BujTXYROhu1bPOmBvtF_-8zF/s600/godard%20poe%20.png"/></a></div>
<b>Di Roberto Silvestri
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<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj04EuM7OaEF5l5WvsEAzgrNN-i-98r4qImRaC0sGJyd-IVZ7nHLEzEqanYEHjWTHZEvIrb7wMU4SLZ9eYGWETXyT_mQJj0RNQ_V1oq_1T-HnAiW37Y50WtMLHWdPbi_RpCnv6I50owelDxmWVBWCWWSTT1gx4xRBbMWn03G4Ez8_jUVTVaCP0wOSgG/s1280/godard%20passion2.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="852" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj04EuM7OaEF5l5WvsEAzgrNN-i-98r4qImRaC0sGJyd-IVZ7nHLEzEqanYEHjWTHZEvIrb7wMU4SLZ9eYGWETXyT_mQJj0RNQ_V1oq_1T-HnAiW37Y50WtMLHWdPbi_RpCnv6I50owelDxmWVBWCWWSTT1gx4xRBbMWn03G4Ez8_jUVTVaCP0wOSgG/s400/godard%20passion2.jpg"/></a></div>
Prima di lui si andava comodamente nel cinema sotto casa, soprattutto in famiglia. Da almeno tre decenni (1920-1950) la settima arte era regredita – più ancora in Europa che in America - a poco a poco a tempio del conformismo calligrafico, della narrazione compiaciuta di sé, della recitazione pompier e tossica, tra codici Hays e censure bigotte, in molti casi fasciste, terrorizzate dalle immagini.
Ma dopo lo tsunami Godard, dopo la scomposizione che lui ha attuato, come un gioco contagiante, su tutti gli elementi del linguaggio visivo, sonoro, non verbale, gestuale, comportamentale, involontario, e della memoria combinatoria che attiva la ricezione (se era vietato fare un primo piano con un grandangolo ebbene lui lo faceva, se il montaggio deve essere invisibile ecco il jump cut continuo), andare al cinema è diventato certo un gran lavoro ma anche un vero piacere, un divertimento da parco giochi, un’avventura dell’occhio-mio-dio, un gesto chic e snob e sovversivo. Ti sentivi uscire dal tuo corpo, essere Belmondo e Karina allo stesso tempo. Solo contro il mondo. Estasi.
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Avevi scoperto finalmente qualcosa che non avresti mai trovato nella letteratura, nella musica, nella pittura, nell’architettura. “La verità 24 fotogrammi al secondo”, parafrasando Cocteau (“il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo”) vuol dire poter cogliere le cose vere, cioè mutanti e conflittuali, che il visuale paralizza nell’ideologia, e “trasformare la notte in luce”, come scrive nel suo virtuale libretto rosso mai pubblicato, perché noi, fuori dalla sala buia, non vediamo di non vedere.
Pochi registi erano riusciti prima di Godard a liberarsi dai lacci e legacci imposti dai produttori – e, ricordiamolo, un film è un rapporto a due: regista e produttore, e Godard preferiva Thalberg a von Stroheim - mandando segnali segreti a critici ribelli e spettatori perspicaci. Les années Cahiers lo vedono alla macchina da scrivere a liberare nelle sue recensioni le immagini vitali incastonate nei mélo di Sirk, nei thriller di Hitchcock, nelle tragedie femministe di Mizoguchi e nelle commedie di Tashlin e Blake Edwards.
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Ecco perché Godard - e anche i suoi critofilm più incomprensibili, i suoi film-saggio più rivoluzionari e filosofici - piace nel subconscio a Hollywood. Ma quell’Oscar alla carriera lui l’ha rifiutato sdegnosamente, per non essere da meno di Marlon Brando (e per farsi premiare di più). Il suo decennale lavoro sulle unità spazio-temporali della sequenza ha vivisezionato funzioni e procedimenti di un film, e perennemente fatto rinascere il cinema, che se non sconvolge tutte le funzioni, logiche e emozionali, del nostro cervello, non c’è. Non esiste. E da neo-formalista (adorava Eisenstein e come era indignato con Kenneth Anger quando osò rimontare Que Viva Mexico) ha attivato in tutta la sua ultracentenaria opera sensazioni, intellezioni, immaginazioni e memoria, anche rianimando forme antiche e dimenticate: ecco “il bello”, che non è la copia di un modello, ma di un monello. Ecco la funzione estetica, attivare la costituzione d’oggetto e la formulazione di immagine. Abbassando il più possibile i costi di produzione. Lavorando sodo, come un falegname, un operaio. Senza guadagnare di più. Si tratta di psicosi egualitaria? No. Di come si intende democrazia. Lui la intende come Thoreau, Whitman e gli altri trascendentalisti americani dell’800 romantico e utopistico, pur con le sue origini calviniste, da dio cattivo che punisce, sono pochi i non peccatori. La intende come priorità delle persone e non dei proprietari.
Prendiamo una sequenza western normale (non alla Monte Hellman, che adorava tanto quanto non sopportava Woody Allen). Arriva il cowboy a cavallo, attacca il cavallo alla sbarra entra nel saloon e la cinepresa lo segue. Ebbene Godard non lascia mai il cavallo. Resta con lui. Il cinema è atto, movimento, tragitto, mai personaggio….
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Con Godard il cinema tornò quell’avventura sulfurea, delle origini, quel montaggio delle attrazioni da circo che trasforma le nostre parti basse in general intellect. Il teatro in documentario e viceversa.
Strano che Guy Debord, criticandolo da sinistra lo definisse “il tipico cineasta borghese". Anche se si riferiva al Godard primo periodo, quello della modernità di fraseggio, della soggettività desiderante, dell’anarchia come programma minimo, quello che lo stesso Godard poi ha autocriticato reinventandosi – chi non ha vissuto quei momenti non riuscirà a comprendere l’ovvietà di quella decisione, tra stragi di stato e Vietnam, polizia assassina e mostri prepotenti al poyere ovunque - come militante rivoluzionario maoista, e assieme a Gorin fondando il gruppo Dziga Vertov per realizzare dal 1968 al 1974 non film politici ma film fatti politicamente, ovvero applicando correttamente la politica dell’autore (che non è come si crede erroneamente sovranità del regista, ma sovranità della politica, committente le masse). Godard "ha giusto delle idee di cinema, più che delle giuste", e senza indipendenza e piena libertà, dunque senza basso costo e senza il costante aggiornamento sulle tecnologie audio, suono, video e digitali da dominare teoricamente ("bisognerebbe pagare chi vede la tv, non chi la fa"; oppure "i telereporter sono criminali di guerra", infine "i bambini sono prigionieri politici") Godard non sarebbe un pedagogo, come Rossellini gli ha insegnato ad essere e Serge Daney (il critico francese "di fase" più stimolante alla fine del secolo scorso) ha confermato che fosse. Da Ici et Ailleurs, Numéro deux e Comment sa va in poi, insomma dal 1974, prima a Grenoble poi nel villaggio svizzero di Rolle, cantone di Vaud, Godard mette in scena solo "persone che si fanno la lezione". Il Godard di questa "parte seconda" è soprattutto quello elettronico, che lavora per le sue società "Sonimage" e poi "JLG Film", assieme alla fotografa, artista multimediale e cineasta e storica dell’arte Anne-Marie Miéville. Ha gelato l'amicizia con Francois Truffaut, ha avuto un orribile e traumatico incidente di moto (nel 1972, in piena militanza maoista, quando ha abbandonato la totalizzante "unità di produzione Dziga Vertov" e il suo alter ego Jean-Pierre Gorin, ma metterà alla prova il metodo marxista-leninista non solo rispetto alla lotta di classe in Occidente e nei paesi dell’Est Europa o alle insorgenze anticoloniali in Mozambico e in Palestina, ma alla costruzione di un’immagine, e alle questioni interiori e sotterranee del privato, alla crisi ambientale, all’uscita dall’antropocene. Insomma il suo è un surplus di cinema politico, mai riflusso. Solo Godard (e Straub e pochi altri) combatte, con raffinata tecnica pugilistica, contro la televisione e il visuale virale e brutto di certo cinema (a volte contro Spielberg e Bertolucci) e di certa televisione, ma sul loro stesso terreno, campo contro campo. Truffaut diceva che Godard "ha sempre pensato al di sopra dei propri mezzi", ma certo molta tv e molta Hollywood pensano ben "al di sotto dei loro mezzi"... Ponendosi, per esempio in Je vous salue, Marie, non problemi di verginità della Madonna, ma di purezza/sporcizia dell'immagine. Il critico Alberto Farassino, scomparso troppo presto, grande studioso di Godard a cui ha dedicato un fondamentale Castoro, ricorda nella versione ampliata del 1996 una sua frase bellissima: "Dato quel che è accaduto in Cile, il fascismo, Pinochet, la mia vita prende di conseguenza una direzione piuttosto che un'altra. Quando incontro qualcuno non mi interessa dirgli che il fascismo è buono o cattivo, o che Pinochet è un imbecille. Gli parlo di me e di lui".
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“La macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente al confine tra il visibile della nostra vita quotidiana e l'invisibile di un aldilà inconoscibile”, insomma il cinema secondo Cocteau, diventa per Godard sempre qualcosa d’altro, di differente, di contraddittorio, il contrario di prima. E’ la sensibilità postmoderna, ovvero soggettività drastica coniugata a altissima etica politica che lo invita al nomadismo, alla deriva, al continuo cambio di set mentale. Ancora una volta.
Il lago, le montagne, il cane, quei certi quadri adorati, quella letteratura amata (il buffone shakespeariano, l'idiota dostoievskiano...), diventeranno gli elementi visuali fissi e di suggestione da impasto, molto più importanti delle storie, sempre "da non raccontare", o della Storia, da non perdere mai di vista, o della storia del cinema, che andrebbe bruciata. Se i film sono merci bisognerebbe bruciarli. Ma con il "fuoco interiore". Perché l'arte nasce da ciò che brucia. Così Godard, l'artigiano, il grande parlatore seducente (assistere a una sua conferenza stampa era come entrare nello stand della donna barbuta) lavora molto negli anni 80 per la tv di stato, da cattivo allievo di Rossellini: ecco le videoconferenze, le lezioni sul centenario, gli spot, ma anche i remake, produttivi non iconografici, come Fino all'ultimo respiro. II Leone d'oro di Venezia con Passion (una magnifica giuria tutta nouvelle vague, scelta da Rondi, con Bertolucci e Oshima tra gli altri, non poteva non premiarlo) fece inorridire il critico del Corriere della sera che, coraggiosamente lo stroncò, a rischio di perdere la direzione del Centro Sperimentale di cinematografia che, lo dice la parola stessa, o è godardiano o non dovrebbe neppure esistere.
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Negli ultimi anni ancora scandali, detour. Una torta in faccia a Cannes, l’invito recente a votare Le Pen, inorridito dalla fine del socialismo, capelli perennemente arruffati e Gitanes papier mais in bocca. Forse aveva ragione Debord. L’ultimo grande borghese è morto.
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il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-54186074634009308052022-09-12T16:56:00.004-07:002022-09-12T23:00:16.353-07:00La Magica Roma dell’arte al potere. "Era Roma", il nuovo film di Mario Canale alle Giornate degli Autori di Venezia<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEglALQxzDyQJyuYD7Lf1ig5EEsekaSBgkdT8KZoaiAWNPMiEPqNGGLF8Zw1EB0kpiR5s3O_ckRl1gXWbPKK-MH4H81rojP1XRmERq5ytUGVTPSgx_DyNt5CSA5AA1KI6I3a5vyMCMkXoctl_KnYhajhTgBQf3L8fK29aHa4ICv5-Enn80GjN5bfE5DP/s800/l-estate-romana-di-renato-nicolini-1329121.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="600" data-original-height="420" data-original-width="800" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEglALQxzDyQJyuYD7Lf1ig5EEsekaSBgkdT8KZoaiAWNPMiEPqNGGLF8Zw1EB0kpiR5s3O_ckRl1gXWbPKK-MH4H81rojP1XRmERq5ytUGVTPSgx_DyNt5CSA5AA1KI6I3a5vyMCMkXoctl_KnYhajhTgBQf3L8fK29aHa4ICv5-Enn80GjN5bfE5DP/s600/l-estate-romana-di-renato-nicolini-1329121.jpg"/></a></div>
<b>di Roberto Silvestri </b>
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C’era una volta… Roma “centro del mondo”. Molti non ci crederanno oggi, ma tra il 1963 e il 1979 dopo Cristo lì avvennero incanti. Nel suo nuovo film Mario Canale, documentarista ex Il Male ed ex Potere Operaio, dall’emblematico titolo Era Roma, montaggio di un superbo materiale di repertorio, una cinquantina di sequenze da film underground rarissimi e film classici popolari, e interviste a una settantina di testimoni dell’epoca, si cerca di scoprire il mistero di quella estasiante e contagiante atmosfera. Effimera, anzi, secondo il noto aggettivo che scientificamente la definisce, sintesi neobarocca acutamente ripresa dall’assessore Renato Nicolini, per spiegare quell’ onda condivisa e aggregante, ma mutante e devastante, sempre imprevedibile e cangiante, costruttiva di pulsioni e desideri collettivi a venire. Bertolucci la definisce una “atmosfera entusiasmante che unì musica, cinema, politica e sesso in un'unica passione travolgente”.
Una fioritura artistica, culturale e vitale inaspettata, un intreccio inaudito e indisciplinato ma fecondo di “nuovo” cinema, e teatro altro, televisione sperimentale, rock inaudito, letteratura selvaggia e cibernetica, “droga che dilata la coscienza”, danza e moda mozzafiato, pittura-non-pittura, sesso multiverso, musica post weberniana spinta, fotografia pre-punk, cucina post-antica (“anche la pasta e fagioli è poesia!” urla un dissidente a Castelporziano, assaltando il palco dei performer lirici – tutti “atroci” tranne Ginsberg e Evtushenko - che crollerà, nei ricordi di un allibito e divertito Carlo Verdone) … causato da una pluralità di circostanze e che ha improvvisamente “messo caos nell’ordine di un mercato dei consumi culturali e dei comportamenti consentiti troppo disciplinato e che funzionava a compartimenti stagno”.
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Silvano Agosti ricorda che venne al Centro Sperimentale di Cinematografia perché era l’unica scuola dove si mangiava gratis e a Roma gli affitti in centro storico erano bassi…
Arbasino ricorda che si approfittò del boom economico per fare arte “libera”, finalmente, senza scopo o ansia di lucro e senza più assoggettarsi al mercato.
Quelli di Quindici eredi del Gruppo 63, come Nanni Balestrini, così odiato dai sovietici perché giudicati succubi del neocapitalismo “a causa di giochi linguistici incomprensibili dalle masse”, sono però tuttora convinti – ricordava Guglielmi - che la loro rivista anticipò tutte le tematiche del 68 (così come il Male in qualche modo ne scrisse la parola fine).
Enrico Vanzina ama citare una frase di Ennio Flaiano (che di questo viaggio nei misteri di Roma antica è un po’ì il Virgilio) a proposito del misterioso fascino di una città così poco maneggiabile: “E’ avvolta dall’eternità, Roma assolve sempre, mai condanna”.
Per il poeta Aurelio Picca: “Roma è un fotogramma che cattura l’eternità”.
Rodolfo Sonego e Alvin Curran restano di sasso quando arrivano tra i 7 colli: il primo quando mangia nelle trattorie prende appunti sui tipi che le frequentano che diventeranno il coro della commedia all’italiana; e il secondo è affascinato dal rumore della città, dalle donne che cantano sui balconi di prima mattina, per esempio, e dal trovare “paese” una così grande capitale. I vigili urbani di piazza del Popolo quando passa Sophia Loren fermano il traffico. E Panatta teenager si ricorda ancora dalla presenza attiva dei più famosi playboy (Franco Rapetti, Beppe Piroddi, Federico Martignone e Federico Pantanella). “Roma era la città delle più belle donne del mondo”.
Citto Maselli ancora non si capacita del fatto che le Stelle di Mario Schifano incassassero il doppio al Piper dei Procul Harum.
I cineasti in quegli anni poterono girare non i film su commissione, come avviene oggi, ma i film che volevano dvavero fare, grazie all’art.28 (come ricordano Enzo Porcelli e Italo Moscati, che produsse per la Rai gli amati e famigerati “sperimentali tv). Poco prima Marco Bellocchio aveva aperto la strada del cinema fuori schema con I pugni in tasca che poté girare solo perché il fratello aveva dei soldi da parte. Le porte di Cinecittà, che pure davano lavoro a 150 persone, più che alla Fiat, erano sbarrate per chi voleva fare cinema d’artista come Agosti, Tretti, Miscuglio, Leonardi, Grifi, Ponzi, Brocani, Schifano, Sergio Rossi (suo il bellissimo Policeman, molto poltiico, che in realtà fece infuriare sia Cesare Brandi che Michelangelo Antonioni che decise di non assumere più Lou Castel per Professione Reporter perché lo aveva interpretato) . Ma ne potevano fare a meno. I film d’artista in 16mm, super 8 e video avevano le loro sale e i loro festival.
Ma la prima causa scatenante quell’anarchia fertile che mi viene in mente è stata fine politica del monopolio della Dc più bigotta (i processi Braibanti-Valpreda furono il loro canto del cigno). Il Psi al governo, pungolato da Pci e Psiup, che modernizzò leggi del settore e affidò a professionisti, finalmente adeguati, istituzioni culturali e finanziamenti ben finalizzati. L’emergenza, poi, di personalità molto forti, capaci di cambiare le cose: editori come Feltrinelli e produttori coraggiosi come Alberto Grimaldi, direttori di gallerie (Palma Bucarelli) o di teatri visionari (da Grassi a Strehler fino a Nanni e Perlini), compositori e artisti che bombardavano le Accademie (Nono e Schifano, Bene e Sandro Franchina, Annabella Miscuglio e Augusto Tretti), cineasti capaci di trasformare nuove idee in visioni non addomesticabili e spazi magici come il Filmstudio 70, L’occhio l’orecchio la bocca o Il Politecnico. O il Piper e il Music Inn. Il Folkstudio e La Tartaruga di Plinio De Martiis. L’Attico di Fabio Sargentini e il Camion di Quartucci e il teatro Tenda…
Pensiamo, per fare un altro nome (che Mario Canale dimentica di ricordare), al critico e regista teatrale Gerardo Guerrieri che inventò la collana di teatro dell’Einaudi (quella che portò in Italia il teatro dell’assurdo, Ionesco e Beckett, e poi Brecht e Arthur Miller) e poi inventò il “Teatro Club”, portando a Roma per primo il fior fiore delle avanguardie mondiali, grazie anche a finanziamenti garantiti dal presidente del consiglio dei ministri dal 1963 al 1968, Aldo Moro (tessera del Filmstudio in tasca). Un magnifico documentario di Fabio Segatori del 2018 ha risarcito la sua straordinaria importanza (e forse per questo Canale lo ignora).
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Altro imput fu la crisi di Hollywood e la contemporanea insorgenza nel mercato internazionale del nostro cinema d’arte e di genere (western, poliziottesco, commedia, erotico…), capace per una volta di ibridarsi e contaminarsi tra pratiche alte e basse (per esempio la presenza di Pier Paolo Pasolini e Lou Castel, attori, in Requiescant, western spaghetti di Lizzani del 1964) e di non farsi ricattare dal finanziamento pubblico, attirò sperimentalisti da tutto il pianeta e provocò sperimentalismi artistici intrecciati. Dal vinaio di Campo de Fiori si incontravano Orson Welles e Chat Baker, Gregory Corso e Cohn Bendit, Jean Luc Godard e Franco Brocani, Steve Lacy e Mario Schifano, il Living con Olimpia Carlisi, Sergio Rossi e Franco Angeli, Glauber Rocha e Juliet Berto, Domenico Guaccero e Cathy Berberian, Lorenza Mazzetti e Titina Maselli, la pittrice islandese Róska Oskardottir e Gian Maria Volonté, Alvin Curran e Alberto Grifi, Thomas Harlan e Anne Wiazemsky, Titon Alea e Paulo Saraceni, Twombly e Uliano Lucas, Tano D’Amico e Trisha Brown, Yvonne Rainer e La Monte Young, Victor Cavallo e Charlemagne Palestine, Sargentini e Carlo Di Leo, Straub e Huillet… E così via.
Certo. I palazzinari avevano qualche anno prima compiuto l’ennesimo capolavoro, il loro ultimo sacco della Capitale e massacrato una periferia eletta da Italia nostra capitale mondiale della speculazione edilizia e del degrado urbanistico.
E nel 1960 Federico Fellini apre La dolce Vita (che imporrà al mondo la sovranità culturale di Roma e di via Veneto, luogo attraente e moderno dove tutto può accadere, poco dopo la Parigi di Godard e Truffaut) sorvolando l’Urbe in elicottero e svela quello scempio di Cinecittà, quartiere dormitorio, con schiacciate sull’antico acquedotto baraccopoli indecenti, piene di immigrati affamati di salario, e si trascina svolazzante una statua gigante di Cristo lavoratore che benedice, non senza imbarazzo, cemento e tettonica.
Non fu facile sconfiggere la censura in quella occasione, come ricorda il diciottenne Bertolucci, ospite dell’anteprima che Fellini organizzò per difendersi dagli attacchi prevedibili della curia e di Greggi.
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Poco dopo Vittorio Gassman, spettro di un pittore secentesco, Giovanni Battista Villari detto “il Caparra” in Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli (1961), si aggira sconsolato in piazza dei Consoli (dove una torre medievale sfuggì al genocidio ed è intatta ancora oggi), si volta disgustato verso un palazzo moderno appena finito al n.50, mostro architettonico grigio e blu fresco di cantiere e frutto di maneggi olimpionici, lo indica con il dito e sentenzia con la voce: “è il più brutto edificio mai concepito da mente umana” (*).
Però lì attorno a questa città, “la più zozza d’Italia”, già si aggiravano gli uomini di Pasolini in cerca di comparse per Accattone e Mamma Roma, perché quella era la “capitale della creatività, del caos e del possibile”. Raccontano la scena artistica e politica della Capitale, allora un centro mondiale dell’arte vivente anche Annarosa Morri, Felice Farina, Luca Ronchi, Marcello Villari e la voce di Alessandra Vanzi (fondatrice della Gaia Scienza).
Il film è stato presentato alla Mostra di Venezia dalle Giornate degli Autori n.19, sezione 100+1. Ovviamente non ci sono tutti i protagonisti di quell’epoca e alcuni di quelli che parlano forse parlano un po’ troppo (avrei preferito più Paola Pitagora che Tortorella o Andreotti o Verdone, più Sergio Lombardo che chi, come il compositore Piersanti (e poteva essere anche Piovani) boicottava con i suoi amici allievi del conservatorio i concerti di quel castrista e operaista di Luigi Nono.
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Ma non è questa l’unica critica che si può fare al bel lavoro. Semmai forse non si è analizzato troppo come mai è stata proprio Roma in quei 15 anni ad aver visualizzato meglio il trapasso dalla sensibilità moderna nell’arte (il punto di vista fortemente soggettivo imposto contro tutti e contro tutto, la soggettività desiderante come atto criminale) a quella postmoderna, dove quel punto di vista, di fronte agli orrori della politica internazionale (decolonizzazione sanguinosa, aggressione in sud est asiatico, stragi di stato), non può esimersi dal prendere posizione, sganciandosi dal mercato dell’arte per non essere considerati dei collaborazionisti. Quando gli artisti si rifiutarono, come gesto politico collettivo e planetario, di continuare insomma a fare gli artisti. E a confondere le carte. Scrittori si mettono a girare un solo film. Carmelo Bene lascia il teatro per i set. Pittori facevano cinema pur di evadere dai musei e dalle gallerie. Le gallerie diventavano spazi concettuali pur di non esporre quadri. “I maestri del dolore” (i pittori di piazza del Popolo si autodefinivano così, con ironia, racconta Paola Pitagora, allora compagna di Mambor, citando la popolare collana dei Fabbri Editori “I maestri del colore”) si dedicano anche loro al cinema, così come Sylvano Bussotti “per la sua assoluta insignificanza”. Godard, periodo maoista, lo ricorda Ettore Rosboch ironizzando troppo, gira Vento dell’Est “in un senso di inconcludenza creativa” (direbbe Bifo) chiamando il collettivo degli attori e della troupe in assemblea ogni mattina a decidere scena per scena cosa e come girare e imponendo l’egualitarismo degli stipendi (si opporrà solo Volonté). Qualche artista underground come Alfredo Leonardi, entra nelle organizzazioni rivoluzionarie maoiste o le finanzia (come Mario Schifano che sottoscrive per la nascita di Quindici). Quasi tutti torneranno prima o poi alla loro specializzazione artistica, ma completamente “rieducati”, come dopo aver partecipato a una “grande rivoluzione proletaria culturale occidentale”.
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Ma Mario Canale è molto più interessato, come Fellini, a raccontare la sua Roma, attraverso questo viaggio nell’utopia romana. E adora soprattutto quel che afferma lo sceneggiatore Furio Scarpelli, un principe della commedia italiana: “il subconscio ce l’hanno tutti? Sì. Ma il subconscio romano ha il particolare pudore di apparire sensibile, si vergogna di sembrare intelligente, ha il piacere di apparire sguaiato piuttosto che sembrare comprensivo. E quindo sostituisce facilmente la parola di conforto con la parolaccia tipo li mortacci tua o quanto sei stronzo, che, sotto sotto, è solo un’esortazione a fare meglio”. E così il prossimo lavoro di Canale sarà sui “Magnifici quattro della risata”… Gassman, Sordi, Manfredi e Tognazzi.
<b>(*) era la casa in cui abitavo dal 1960 al 1973</b>
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-884503866057719922022-09-09T09:43:00.007-07:002022-09-09T14:41:49.409-07:00Mostra di Venezia. Il signore delle formiche di Gianni Amelio<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjFAIf3aI8NQs5sH1x10md3M26ozbkC64xjgJLxwGiX8f3izDJeepjlc4ZWQfIVoDgUTTc1u9QTVXMSOAiAFmSszJ1Sl1pBMCO5S6LIYXk2feBEvgxIsNOhJsV2cmxYr0My2gBwAYN0Bpz--MvwSMw4qpqYDdwnlR6jaFetgGWIFfn1hzn9LWp_77hs/s300/amelio.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="168" data-original-width="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjFAIf3aI8NQs5sH1x10md3M26ozbkC64xjgJLxwGiX8f3izDJeepjlc4ZWQfIVoDgUTTc1u9QTVXMSOAiAFmSszJ1Sl1pBMCO5S6LIYXk2feBEvgxIsNOhJsV2cmxYr0My2gBwAYN0Bpz--MvwSMw4qpqYDdwnlR6jaFetgGWIFfn1hzn9LWp_77hs/s400/amelio.jpg"/></a></div>
<b>di Roberto Silvestri</b>
Una storia d'amore tragica come quella di Romeo e Giulietta fu quella di Aldo Briabanti e di Giovanni Sanfratello. Ma. Per parlare di oggi, e del pericoloso vento sovranista e omofobico che spira, “i gay vanno o curati o menati”, Gianni Amelio torna indietro nel tempo e va un po' più a sinistra. Prima attorno al Psi, adesso attorno al Psiup e alla sua rivista teorica d'affezione, <i>I Quaderni Piacentini </i>non a caso nata nel 1962 e che proprio tra il 1964 e il 1965 divenne indispensabile cannocchiale e microscopio del nostro pese malato..
Dopo aver raccontato la fine politica, e l'esilio in Tunisia, dell'ex segretario di Nenni, che defenestrò De Martino con l'aiuto della sinistra lombardiana, liberò i socialisti dall'abbraccio prepotente del Pci ma poi fu vttima del diabete devastante e di una conseguente auto-sopravvalutazione, Amelio ha fatto un passo indietro storico e ha accettato la proposta della Kavac Film di lavorare sul “caso Braibanti”.
Dal politico di successo caduto in disgrazia al poeta, maledetto sempre, e all'intellettuale marxista moderno o, come lo definiva indirettamente e con amore Pasolini su <i>Vie nuove</i>, in polemica con gli artisti vicino al Psiup (l'ala sinistra del Psi, guidata da Basso e Lussu, che si era staccata dopo l'ingresso del Psi al governo con la Dc), “stalinista beat”.
Braibanti, come i Bellocchio, Roversi, Isnenghi, Sergio Bologna, Goffredo Fofi, Edoarda Masi e Grazia Cherchi, aveva rotto i ponti con il partito-chiesa e con l'estetica del 'realismo socialista' obbligatorio (che ancora però la faceva da padrona nelle Feste dell'Unità, come si vede all'inizio di <i>Il signore delel formiche</i>. Il film è <i>Quando volano le cicogne </i>di Kalazotov manifesto del disgelo ma il Pci avrebbe dovuto diffondere quel che è davvero il film 'insostenibile' e indigeribile dallo stalinismo, cioé il suo magnifico Lursmani cheqmashi, ovvelo il "Chiodo nella scarpa" del 1931 - da georgiasno a georgiano - che fu proibito da Stalin perché Lalatozov prendeva in giro, troppo marxianamente, i piani quinquennaliin quanto tali) ) ma si distanziava troppo dalle masse maneggiando incomprensibili linguaggi teatrali, musicali, letterari, cinematografici (che Pasolini in quegli anni vedeva pericolosamente affini ai disegni tecnocratici del neocapitalismo) che finalmente, come teorizzava Oshima in Giappone o Godard in Europa, mettevano “caos nell'ordine” seguendo la parola d'ordine della “soggettività desiderante”, dell'individualismo democratico che fa i conti con l'individualismo rapace, molto poco demoniaco, delle classi dominanti.
Bisogna insomma spiegare oggi ai millennial e alla generazione Z, e a chi quel processo ha rimosso o neanche se ne accorse, si deve essere chiesto Amelio cosa ci fu dietro quella persecuzione vergognosa e giuridicamente inconsistente, e perché quella crociata ebbe un trionfale, ma apparente, successo.
Cosa succedeva insomma nelle viscere dell'Italia dei nonni, nei contraddittori anni Sessanta che prepararono il sessantotto. Cosa significava “lo strapotere Dc”. Che tipo di cultura repressiva e sessuofobica imperava allora (e pare che le masse adorino chi la riauspica, oggi) e che ruolo anticostituzionale era stato regalato, dopo le barricate contro Tambroni, alla Magistratura che assolveva in quei mesi troppi poliziotti “pistoleri”. C'è una battuta carina nel film, ma non credo proprio esatta. Mussolini non avrebbe criminalizzato l'omosessualità in Italia “perché froci tra i maschi italiaci non ce ne sono”. In realtà durante il ventennio vennero mandati al confino molti omosessuali. Ed è risaputo che anche nei partiti comunisti l'omosessualità veniva considerata una malattia. Il Partito comunista tedesco, per esempio, fece una campagna stampa durissima contro il capo delle SA anche perché “notorio pederasta”.
I giudici italiani del 1965 furono però capaci, in quella occasione, di trasformare le vittime, Aldo Braibanti e il suo amante Ettore, in colpevoli, e fu cieca di fronte a un palese rapimento e sequestro di maggiorenne, poi imprigionato in manicomio (e lì quasi assassinato dagli elettroshock) capovolgendo i fatti e condannando l'innocente Braibanti per offesa alla famiglia tradizionale e alla morale (?) dominante. ) 9 anni!
Elio Germano, nella parte del giornalista di cronaca nera che sa fare il suo lavoro, come se fosse l'eroe in un noir di Fuller - anche se il quotidiano fondato da Gramsci ma diretto (allora) da Maurizio Ferrrara, attenua, censura, “migliora” o capovolge i suoi servizi - è tra i pochi che difende l'omosessuale indifeso e colpito obliquamente come se fosse un Satana tentatore tra le mani dell'Inquisizione. Luigi Lo Cascio è talmente perfetto nel ruolo di amante fragile del giovane Ettore e di amante indistruttibile del giusto e del vero che una collega americana, in occasione della anteprima stampa, lo aveva scambiato proprio per Pasolini.
Due anni fa un ottimo documentario, Il caso Braibanti, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese (che ancora gira nei cinema italiani più attenti) aveva raccontato tutto questo e messo in ordine i fatti. Braibanti, filosofo, scrittore, poeta, mirmecologo, drammaturgo, partigiano, comunista, poi uscito da un partito che non aveva tratto tutte le debite conseguenze dal rapporto Krusciov al XX congresso Pcus e dalla destalinizzazione, per difetto e non per eccesso di spirito libertario e rivoluzionario, era diventato un punto di riferimento “controculturale” per letterati e artisti. Amico del musicista postmoderno antilitteram Sylvano Bussotti e di Carmelo Bene, complice del cineasta Alberto Grifi nei suoi sperimentali spettacoli teatrali che si rifacevano alle teorie dello psicanalista ungherese Ferencsi, era appunto tra i più importanti collaboratori della rivista I Quaderni Piacentini, ma anche il più esposto e indifeso. Amelio però non ha voluto fare una ricerca ulteriore, “essere pignolo”, facendosi aiutare soprattutto dai suoi ricordi personali, come pubblico nel processo, e da cosceneggiatori “debuttanti o quasi”, come li definisce nell'intervista a FilmTv, Edoardo Petti e Federico Fava, anche se per le coreografie di <i>Tranfert per Kamera verso virulentia</i>, ha avuto una consulente molto esperta come Alessandra Vanzi.
Perché andavano puniti i <i>Quaderni Piacentini</i>? Alberto Grifi era convinto che quella rivista doveva essere messa in difficoltà perché, attraverso una forte campagna di mobilitazione, stava impedendo alla Dc (dominata a Piacenza dalla sua fazione più reazionaria, di cui il padre di Ettore Tagliaferri che interpreta Giovanni Sanfratello, era un grande elettore) un succulento piano regolatore. Inoltre sosteneva che in quella occasione lo stato sperimentò la costruzione mediatica del mostro da sbattere in prima pagina. Valpreda, con tutte le connotazioni di “ballerino, dunque effeminato, e anarchico, dunque insurrezionalista” sarebbe stato il perfetto Braibanti Due da usare a tempo debito. Grifi, molto amico di Braibanti, e tra i pochi intellettuali e politici a organizzare un comitato di difesa (che comprendeva Moravia, Morante, i Cederna, il Psiup e il partito Radicale che Gianni Amelio però isola esageratamente attraverso il primissimo piano di Emma Bonino oggi), sarà vittima di un ulteriore processo farsa, accusato di possesso di droga leggera, in quella circostanza non posseduta (e condannato a due anni di carcere).
Ps. La voce Aldo Braibanti di Wikipedia è stata scritta da Aldo Braibanti. Dunque chiunque volesse sapere come si svolsero i fatti può fare riferimento awikipedia. Ancora una volta un faro di democrazia e libertà collettiva. Un caso di collaborazione tra formiche umane riuscito
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-11800314394360414642022-09-08T09:47:00.000-07:002022-09-08T09:47:02.529-07:00Illegally Blonde. Marilyn Monroe fa ancora paura e Andrew Dominik ne è addirittura terrorizzato
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi1T6Qn5lsHeVoOG_JNAuxgusEQjsXLi__6o2KplmDAWiKkTjUjbnSjFwvfX2NturUkpw8svlROEgWx5c3jvn0rQAtby5-FVRxf4wgjEypU-Xb4V8oaatteBrrFWxXeKXzhwcqDBz42OpgpFhZeQ1pTbmEDCPnLJFWG2-_7Nsn5tn8ZZir3nvQXDFLD/s970/blonde%203.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="600" data-original-height="500" data-original-width="970" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi1T6Qn5lsHeVoOG_JNAuxgusEQjsXLi__6o2KplmDAWiKkTjUjbnSjFwvfX2NturUkpw8svlROEgWx5c3jvn0rQAtby5-FVRxf4wgjEypU-Xb4V8oaatteBrrFWxXeKXzhwcqDBz42OpgpFhZeQ1pTbmEDCPnLJFWG2-_7Nsn5tn8ZZir3nvQXDFLD/s600/blonde%203.jpg"/></a></div>
<b>Mariuccia Ciotta</b>
Uscita dalle mille pagine e più di Joyce Carol Oates, il
corpo dilaniato di Marilyn Monroe nel passaggio dalla
forma irreale della diva a quella del suo simulacro, carne da
macello, ricalcata foto dopo foto, film dopo film, e
sovrimpressa col volto del suo doppio terreno Ana de
Armas. L'australiano Andrew Dominik (L'assassino di
Jesse James per mano del codardo Robert Ford) pesca nel
romanzo bio-fiction della scrittrice americana il ritratto
privato dell'Attrice Bionda, inchiodata nell'espressione
monotona della vergogna. I lineamenti contratti, la smorfia
del dolore e del pianto, Norma Jeane scolora nel bianco e
nero per riprodurre le immagini di allora e poi si accende di
color pastello seguendo le variazioni stiliste di Oates, che
cerca in sé le tracce di un altro Joyce.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgahs3jpQRPBZQC_b8So9T_-TE-wqar9YcsGkgkCZs3pziayg5AKTZv7waV7lh42FzoLhsYd9VuRxMkaee-xmZdrWn6tfkKwNrkbXY5qKKUn79LhRs7CKIAm9OjGogyy2W7p0mwQgFWM8ntw2fVRTRp49hzZCgHSLQscgK0ltIFP7b4Nq9-nrvUWFg4/s640/blonde%202.webp" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="360" data-original-width="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgahs3jpQRPBZQC_b8So9T_-TE-wqar9YcsGkgkCZs3pziayg5AKTZv7waV7lh42FzoLhsYd9VuRxMkaee-xmZdrWn6tfkKwNrkbXY5qKKUn79LhRs7CKIAm9OjGogyy2W7p0mwQgFWM8ntw2fVRTRp49hzZCgHSLQscgK0ltIFP7b4Nq9-nrvUWFg4/s400/blonde%202.webp"/></a></div>
Cattolica integralista, nel suo disgusto per Hollywood la
scrittrice va alla crociata contro il simbolo della rivolta anni
Cinquanta, contro il cinema del ritorno a casa,
dell'imperativo matrimoniale. La magnifica parodia Gli
uomini preferiscono le bionde, scritto da Anita Loos e
diretto da Howard Hawks, ridotto a film da bordello.
Dominik segue le istruzioni di Oates e mette in scena la
vittima della macchina stritolatutto, Hollywood, vittima
consenziente, che si piega alle voglie di Zanuck e di
chiunque la richieda per prestazioni extra. Marilyn è
l'invenzione della “bionda stupida” nelle mani di registi che
la deridono e la sfruttano mentre lei si sente Norma Jeane e
si ribella a Billy Wilder sul set di A qualcuno piace caldo,
“non dirmi che mi muovo come una gelatina!”. Norma odia
Marilyn, la “puttana” di Quando la moglie è in vacanza,
schiaffeggiata da Joe DiMaggio (Bobby Cannavale),
quando lei invece ama studiare Dostoevskij e Checov. E
tutto sarebbe cambiato se solo Arthur Miller (Adrian
Brody), il Drammaturgo, avesse avuto un po' più di
pazienza. E se il Bambino, inquadrato più volte nel ventre
rosato di Marilyn, non fosse stato più volte “ucciso”. Lo fa
parlare Dominik, con la vocina della colpa, “questa volta
non farmi male”. L'abietto si fa strada nel susseguire del
tempo, dall'infanzia all'abuso di farmaci. Macchina fissa
sulla copia morta, l'ordinario e distorto riflesso del Mito, la
grande attrice di George Cukor, John Huston, Henry
Hathaway, Jean Negulesco, Joshua Logan.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgUMx6FR5pY6hDSdwljcOKyVOvgptUUUn2Y8qlITYpoa3JAHPAqustF9gqth5-VtmRj6GjjG3A7NUAMgfpBG4H_4SZpkxVHSrX089uQiOoOgEXTFpS4s4qbWHNGIAzXO0B4nD44dMrb1_ZraMVK1LRuByW9oSAaGDTG4GVQn4Myw37i4CB6tX23-pZC/s474/blonde%201.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="370" data-original-width="474" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgUMx6FR5pY6hDSdwljcOKyVOvgptUUUn2Y8qlITYpoa3JAHPAqustF9gqth5-VtmRj6GjjG3A7NUAMgfpBG4H_4SZpkxVHSrX089uQiOoOgEXTFpS4s4qbWHNGIAzXO0B4nD44dMrb1_ZraMVK1LRuByW9oSAaGDTG4GVQn4Myw37i4CB6tX23-pZC/s400/blonde%201.jpg"/></a></div>
In un macabro cammino tra invenzioni sessuali, ménage à
trois con i figli di Charlie Chaplin e Edward G. Robinson,
il film colleziona una serie di orrori estetici e azzardi osceni
come l'incontro con il presidente John F. Kennedy. Il regista
cerca di raddoppiare l'effetto hard, che cadrà sotto la scure
della censura, e modifica la scena scritta da Oates. Kennedy
disteso seminudo sul letto. Marilyn trascinata a forza,
“servizio in camera”, da due gorilla. Il presidente è al
telefono e parla con qualcuno che lo avverte del danno
provocato dalle sue intemperanze sessuali, mentre lui
affonda la faccia di Marilyn nelle parti basse – in
televisione, razzi e obelischi mimano l'erezione. Dominik
gode all'idea di scandalizzare con il primo piano grondante
sesso, controvoglia, della “vittima consenziente”. L'osceno,
però, non sta lì, ma nell'accostamento di quest'opera con
Marilyn Monroe, con la storia del cinema e con i suoi
spettatori.
Nel romanzo, Kennedy non discute di sesso selvaggio, ma
della crisi dei missili di Cuba, del rischio guerra mondiale.
E dire che Ana de Armas, alias Norma Jeane, è di origini
cubane. Era il 1962, Marilyn morì il 5 agosto. L'anno dopo
John F, Kennedy fu ucciso a Dallas, dagli anticastristi,
probabilmente.il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-9188847454351580452022-09-07T09:46:00.006-07:002022-09-07T16:14:22.252-07:00Venezia 90. Argentina, 85. Aronofsky, Loznitsa, McDonagh<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjp6Bu4qDuH-rHz8HMSx8cOZjI6amuzuoK8O7u2v0f_59hkiDW6XSdlOrXEFAGSKVXi3woeQQVJI67_HSYVJTqME_yH-wA3oJq47bQ8X0ZQLBfM25eoTxQZnyfSJ8UYA7J9IPdVgVC9-bmbffb1lfZ8Xmu-nF7Vq7Uu51RkvZuokOUTJvJiQkxRt224/s300/argentina%201985.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="600" data-original-height="168" data-original-width="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjp6Bu4qDuH-rHz8HMSx8cOZjI6amuzuoK8O7u2v0f_59hkiDW6XSdlOrXEFAGSKVXi3woeQQVJI67_HSYVJTqME_yH-wA3oJq47bQ8X0ZQLBfM25eoTxQZnyfSJ8UYA7J9IPdVgVC9-bmbffb1lfZ8Xmu-nF7Vq7Uu51RkvZuokOUTJvJiQkxRt224/s600/argentina%201985.jpg"/></a></div>
Roberto Silvestri
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjy4e5XF-8H_6RvP6TTIJVExvr5yb1svXiFSseVARGrr1zoO3m5LXo_5C6tnKlqqN7ttRjKKH5Enw93tppKYHxDXHody3_hjDePPqZGS6OD78JAMYkW6EwE8s1DtOpmvw26pYPbrzDN0Ea_3njvJ77Fktfx92D7LBEjW_rO1bWGtEDJyu4-qmlOsMoj/s1200/Argentina-1985-0.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="740" data-original-width="1200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjy4e5XF-8H_6RvP6TTIJVExvr5yb1svXiFSseVARGrr1zoO3m5LXo_5C6tnKlqqN7ttRjKKH5Enw93tppKYHxDXHody3_hjDePPqZGS6OD78JAMYkW6EwE8s1DtOpmvw26pYPbrzDN0Ea_3njvJ77Fktfx92D7LBEjW_rO1bWGtEDJyu4-qmlOsMoj/s400/Argentina-1985-0.jpg"/></a></div>
Argentina 1985 di Santiago Mitre (Argentina/Usa)
La “sporca guerra”. Smuove ancora l'inconscio collettivo dell'America Latina (e il nostro) quel che ha commesso di politicamente scorretto ma anche di “sadisticamente corretto” la dittatura militare scatenata dai generali Videla e Massera (complici gli Stati Uniti d'America) contro il movimento democratico e rivoluzionario degli anni 70.
Ricordo un celebre filmato tv con Oriana Fallaci, invitata alla tv argentina per un dibattito, poco dopo la caduta della giunta. Lei (che non aveva vissuto in Argentina, con i mitra puntati addosso, in quei giorni cupi) si permetteva di additare uno per uno tutti i prestigiosi presenti e li rimproverava: “se siete qui vivi a parlare vuol dire che siete stati complici anche voi degli assassinii, delle torture e degli altri crimini della giunta militare”.
Proprio di questo parla il film di Mitre, del risveglio delle coscienze dopo lo shock delle Malvinas grazie alla insorgenza di una generazione di giovani senza responsabilità alcuna. E sembra alludere anche alla questione di fondo che i cileni si sono trovati di fronte respingendo il referendum costituzionale e preferendogli la dottrina Pinochet. Ovvero. Una costituzione democratica serve a proteggere la proprietà privata o il cittadino qualunque? Trump, Videla e molti altri nel mondo oggi, con ogni mezzo necessario, lottano contro il pericolo della “plebe informe”, e studiano solo come contenere le sediziosa maggioranza. Il ricordo alla tortura e allo sterminio, è tra le opzioni. Ovunque.
Prodotto da Amazon, distribuito dalla Sony in Argentina, diretto dal vincitore, nel 2015, della Settimana della critica di Cannes con Paulina (La Patota), interpretato da un magnifico Ricardo Darin, coi baffi alla Flaiano, già protagonista nel 2017 di La Cordillera di Mitre, questo film di classico genere giudiziario, ha conquistato i cuori e i cervelli del pubblico e della critica della Mostra di Venezia (il manifesto a parte). Dieci minuti di applausi.
Non è stata solo la “forza dell'argomento”, la sostanza conoscitiva scodellata a decretarne il successo, cioé la capacità che ha avuto il paese, appena uscito dall'incubo militare, e durante la fragile presidenza del radicale Raul Ricardo Alfonsin, di allestire in pochi mesi, e non senza ostruzionismi istituzionali e provocazioni fasciste, grazie a un pool di giovani giuristi partigiani scatenati, un processo rigorosamente documentato (e non senza pericoli) alla giunta militare tutta. O la forza giuridica inaspettata, espressa da una magistratura (così connivente per anni e intatta nella composizione), di condannare i maggiori responsabili dei crimini da loro ordinati fin dal 1976 (almeno in un primo momento, prima dell'amnistia che ha mantenuto perseguibili successivamente i soli reati di infanticidio: e comunque Videla è morto in carcere nel 2013 a 87 anni).
Ma hanno conquistato tutti la forma e la sostanza dell'espressione utilizzati dal quarantenne regista e sceneggiatore di Buenos Aires. Se cinema (e non la “visualità autoritaria” tv) vuol dire capacità di vedere meglio e altro rispetto a quel che vogliono farci vedere, contemplare, e saper ravvivare contemporaneamente la sensazione, la percezione, la riflessione e l'immaginazione degli spettatori, ecco un film antifascista (e forse persino anti-peronista) anche nella forma. Che sa indicare nell'immagine non un percorso autoritario da seguire, di sguardi che ipnotizzano e ti guidano, ma sempre un “fuori campo” da riattivare. Pensiamo a come Mitre e il co-sceneggiatore Mariano Llinàs abbiano contemporaneamente studiato e modernizzato la lezione del cinema politico anni 70 di Costa Gavras e Rosi e di quello contemporaneo (per esempio Il caso Spotlight di Tom McCarthy, 2015), la capacità di maneggiare cioé, con grande obiettività e senza manicheismi, i movimenti profondi della storia e di trovare il punctum esplosivo di uno scontro etico-politico e sintetizzarlo senza patetismi o sentimentalismi. Grazie anche alla micidiale potenza del loro umorismo, quasi un omaggio esplicito al fraseggio di Osvaldo Soriano.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjv7AZdMXLlXJsLhrU0fDFK2ZCrUPW3iQCzipJF6b-QE-F61mfY3Wr44PfBfnYVojOiiZCk-HB9SHZHImMzHv-AI-6oM4lVWT9bcIUra6bRVSArDPcI40nMMyLMaolyLYXFGTwGpxLSptL85nByGuJ9ls2zoiCahtxLTmRXLCnkQdBvP2roUizdSLzC/s300/the%20whale.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="168" data-original-width="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjv7AZdMXLlXJsLhrU0fDFK2ZCrUPW3iQCzipJF6b-QE-F61mfY3Wr44PfBfnYVojOiiZCk-HB9SHZHImMzHv-AI-6oM4lVWT9bcIUra6bRVSArDPcI40nMMyLMaolyLYXFGTwGpxLSptL85nByGuJ9ls2zoiCahtxLTmRXLCnkQdBvP2roUizdSLzC/s400/the%20whale.jpg"/></a></div>
The Whale di Darren Aronofsky Usa Concorso
L'anima turbolenta di Herman Melville viene sempre richiamata in campo dal cinema americano quando qualcosa di mostruoso, come la “balena bianca”, The Whale, appare all'orizzonte come metafora di una minaccia alla democrazia. E così tutta la squadra dei “fedeli d'amore”, Thoreau, Whitman, Jefferson, Emerson...i super eroi dell'immaginario statunitense vitale, illuminista, utopista, controculturale, romantico, che combatterono da una parte gli scettici liberali (che invece professano la democrazia dai loro scranni di potere solo per legarle le mani). E, dall'altra parte, contrastano i reazionari e i conservatori, i succubi del dio protestante e vendicativo, i puritani che confondono ancora Gesù con il dio dell' Antico Testamento, adorano il Signore dell'odio e non quello dell'amore, cioé chi vede e punisce peccatori ovunque, ma guarda cosa non tra chi fa da da più di un secolo stock-watering, cioé impiega il capitale azionario all'insaputa degli azionisti (qui ne vediamo un giovane e contraddittorio rappresentante, neanche troppo pio, Thoms, cioé l'attore millenniale TySimpkins).
Melville, dal suo ufficio doganale, si addentrava nella vita di uomini e donne, invece, originali e pieni di colore. Proprio come il protagonista del film, questo stravagante Charlie (un Brendan Fraser, da premio, anche se la fascistoide “coppa Volpi” proprio non gli si addice), professore di inglese super obeso, anzi così sproporzionatamente grasso, da tenere le lezioni web a distanza di letteratura e scrittura “creativa”, senza la telecamera accesa, per non turbare gli acerbi allievi. Ancora più difficile il rapporto, poi, con la figlia teenager anticonformista Ellie (una caldaia di energia incontrollabile, Sadie Sink, magnifica) che lui ha trascurato per anni, sconvolto da un amore poi finito tragicamente, e divorziando per questo dalla moglie Mary (Samantha Morton), mentre chi lo assiste (ne ha estremamente bisogno data la stazza) è Liz, la sorella asiatica di quel suo secondo amore.
The Whale ricorda per l'atmosfera dark da kammerspiel, e per la forte componente religiosa, più Pi greco che ogni altro film di Aronofsky, compreso quello che ha vinto nel 2008 il Leone d'oro a Venezia, The Wrestler. Ovvio che si tratti di un lavoro teatrale, di Samuel D. Hunter, e che è stato girato fuori Los Angeles, a Newburgh, stato di New York.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZsX1e3-9HAZOCWASVCQw43rVYfvzQd3bMh3g14DQuZ9ztd1g1mcTz3c-I-lym80BKMLs_0SPtcSWVWCEYlDK8ARqWs71WWXjISwwEvx2kV3KYwhLu4kgxqjtFesICFOX0XkHVFxdArDEyscna0-kMWvjF8bSYXxlyPHkqYWQOpR8KyM2sZyyNr2ED/s1024/the%20kiev%20trial.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="536" data-original-width="1024" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZsX1e3-9HAZOCWASVCQw43rVYfvzQd3bMh3g14DQuZ9ztd1g1mcTz3c-I-lym80BKMLs_0SPtcSWVWCEYlDK8ARqWs71WWXjISwwEvx2kV3KYwhLu4kgxqjtFesICFOX0XkHVFxdArDEyscna0-kMWvjF8bSYXxlyPHkqYWQOpR8KyM2sZyyNr2ED/s400/the%20kiev%20trial.jpg"/></a></div>
The Kiev Trial di Sergei Loznitsa Fuori concorso
Non piace agli ucraini il bielorusso Loznitsa, ma ucraino di adozione, e attualmente olandese di residenza, per alcune prese di posizioni non allineate al pensiero unico sull'aggresione russa. E alcuni dei suoi lavori non piacciono neanche a me. Per esempio quel documentario sul processo al partito degli industriali, usato da Stalin per colpire, assieme a Trotzky e Bucharin, l'ala destra del partito, e lanciare i piani quinquennali, rimontaggio di un documentario di epoca sovietica uscito regolarmente nelle sale, piuttosto importante per la storia del Pcus, ma trasformato, dopo montaggio nascosto e manipolatoria scritta finale, in materiale di piatta e opportunista propaganda, anticomunista ma soprattutto pasticcione.
Questa volta Loznitsa, appena premiato a Cannes per History of Destruction, mette ancora le mani su materiali di archivio, come Duchamp faceva sui cessi pubblici, e li 'santifica' con il suo “genio”, tagliando e spostando le sequenze e la continuità. Si tratta del processo 1946 ad alti (e più piccoli) esponenti dell'esercito nazista d'occupazione dell'Ucraina, delle SS e dei servizi segreti tedeschi (aveva già parlato dell'invasione, fiancheggiata dalle truppe dell'oggi glorificato Bandera, in Babi Yar Context). I processati si riconoscono tutti colpevoli di atrocità (ed è sconvolgente sentirli enumerare, senza alcuna partecipazione emotiva, anzi con l'annoiata e precisa pignoleria del burocrate, alle loro imprese) e li vedremo alla fine appesi atrocemente alla forca ma in bianco e nero mozzafiato. Loznitsa torna a Venezia dopo Funerale di stato del 2019.
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The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh Concorso Uk
Tra i film testa di serie della Mostra 90 di Venezia c'è questo duello all'ultimo sangue, quasi punk e tarantiniano, che trasformerà il concetto di “dita” (di una mano) nel concetto, più sessualmente allusivo, di “diti” (quando sono singolarmente presi, o tranciati), messo in scena (e prodotto) in una isoletta irlandese di fronte alla costa occidentale dell'isola più grande (già divisa: siamo nel 1928, e nelle contee rimaste al Regno Unito dal 1922 c'è guerriglia) da un cineasta che di questi conflitti interpersonali è specialista. E' il regista irlandese (del nord?) McDonagh, nato però in Inghilterra, che ha vinto il Leone d'Oro nel 2017 con Three Billboards Outside Ebbing (prima di vincere due oscar e 5 Bafta). Due vecchi amici di pub, improvvisamente rompono ogni relazione quando uno di loro, Colm (Brendan Gleeson), più grasso e carismatico, si accorge che l'altro, il più magro e svanito Padraic (Colin Farrell), lo annoia a morte. E visto che la morte si avvicina a passi da gigante, Colm non ha più voglia di perdere tempo con le chiacchiere di un disinteressante, anche se gentile, stupido pastore (la cui sorella, Kerry, invece, è intellettualmente e politicamente fuori schema) ma vuole dedicarsi con tutta la concentrazione e il silenzio possibili alla musica, vuol creare canzoni e ballate 'immortali'. Il conflitto assume dimensioni di una stupidità crescente, entrano in campo e complicano lo scenario anche lo scemo e la strega del villaggio, diventando quasi una irritante parodia del beckettiano teatro dell'assurdo.
Ovvio che il gioco performativo, già rodato in Bruges, tra Gleeson e Farrell, in debito con Stanlio e Ollio per i tempi e i silenzi dell'azione e dei dialoghi, regge interamente sulle proprie spalle questo grottesco sull'indifferenza (lì vicino si fa la storia, si impiccano quelli dell'Ira che sono contro il compromesso firmato da Michael Collins) che non si esime dal prendere feroce posizione contro le ipocrisie e le miserie anche morali del clero cattolico molestatore, dell'autorità poliziesca britannica marcia e di quelle brutte abitudini irlandesi che tanto fanno ridere gli inglesi (la loro proverbiale convivenza con gli animali, in questo caso un asino, che finirà proprio come Baltazhar).
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-48675195354338140102022-09-05T09:50:00.002-07:002022-09-07T09:38:24.432-07:00Mostra di Venezia 90. Seconda parte. Guadagnino e Padre Pio. Di Roberto Silvestri <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguwcimSxmJkcgjEQWTP6as4joC53FLyl5BUCiSTp4UfmpzIQK3oL3m1JVaRq9keTr_urW5fz8Owgq6ym0D2irVEeLyB4X70znztfChODlq7R2u5t-wn996wJ61XIaLRm6G0pHFz4enO2x9kOGRwG701cj_JfdYTeF6BtXAwMj9bi2MjDkbSVfcXaem/s700/athena.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="391" data-original-width="700" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguwcimSxmJkcgjEQWTP6as4joC53FLyl5BUCiSTp4UfmpzIQK3oL3m1JVaRq9keTr_urW5fz8Owgq6ym0D2irVEeLyB4X70znztfChODlq7R2u5t-wn996wJ61XIaLRm6G0pHFz4enO2x9kOGRwG701cj_JfdYTeF6BtXAwMj9bi2MjDkbSVfcXaem/s400/athena.jpg"/></a></div>
Athena di Romain Gavras Concorso
Più che dal papà Costis Costa Gavras, la cui profondità e radicalità dello sguardo politico-sociale ha comunque incorporato, deformandola appena, Romain ha rubato a Kathryn Bigelow i segreti dei piani sequenza vorticosi e complicati. E per i primi venti minuti il film ti inchioda sulla poltrona perché, rendendo omaggio a John Carpenter e a Distretto 13 Brigate della morte, e perfino a Mad Max III, si assiste a una azione ribelle riuscita e entusiasmante, di solito viene censurata nei film che ricevono finanziamenti pubblici. I black block parigini, neri e beur, di un suburbio degradato e gelido, dopo l'uccisione di un ragazzo del quartiere per mano – si ritiene - poliziesca, si impadroniscono di armi, caschi, giubbotti antiproiettili e automezzi della polizia, facendo un'irruzione imprevista ed esasperata nel commissariato dove si svolge la solita conferenza stampa piena di promesse e retorica. Abdel, fratello della vittima, un militare (Dani Benssalah), cercherà di impedire altre vittime e trovare un compromesso con i reparti speciali della polizia che hanno circondato i manifestanti, asserragliati nella loro fortezza dopo aver fatto uscire le famiglie, e rapito un poliziotto. Ma l'uccisione anche di un secondo fratello, Karim, leader dell'ala irriducibile e dunque “pazzoide” (Sami Slimane), scatenerà l'inferno..... Nel suo terzo film, scritto anche con Alexis Manenti e Lady Ly (I miserabili), un guerrilla-movie che si avvale di una drammaturgia secondaria non molto originale e di personaggi stereotipati, l'adrenalina di spegne via via e la scienza della moltitudine in lotta scompare: si prepara un finale salva Stato.
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Bones and All di Luca Guadagnino Concorso
Non si cannibalizzano da sempre i teenager? I giochi di potere su di loro non sono orrendamente sadici, come vediamo in Ucraina da mesi morire a frotte senza un perché? Ed ecco la magnifica vendetta, il grosso “ti mangio vivo” di Maren e Lee, a nome della Z generation..
Un “duetto per cannibali”, Taylor Russell eTimothée Chalamet, rovesciato rispetto al film del 1969 di Susan Sontag sul riflusso dei rivoluzionari. “Grazie a questo film ho deciso di non suicidarmi”, potrebbe scrivere a Guadagnino qualche spettatore centennial.
Ha infatti il sapore di Twilight il neo Badlans che Camille De Angelis ha spolpato per farne un un film politico (politico perché è bello, perché gli attori si muovono bene, anche Chloe Sevigny lascia a bocca aperta) scritto con David Kajganich e che ci e si trasporta nel cuore degli States, dall'Ohio all'Illinois, all'Iowa e al Nebraska: lunghe strade vuote, distributori di benzina deserti, sobborghi in cui i cartelloni pubblicitari sono due volte più alti delle case circostanti. Atmosfere e panorami dark e marginali, “non luoghi” che sputano “non libertà” grazie ai totali del bielorusso Arseni Kachaturian, che forse ha letto le poesie di Weldon Kees. Guadagnino inventa un tragitto antitetico, ma solo geograficamente, rispetto a quello di Easy Rider (il soundtrack possente, è ugualmente epocale). “Born to be wild”, cantavano lì gli Steppenwolf, e qui l'inizio è identicamente selvaggio. Non si va da Los Angeles a New Orleans, come con Hopper e Fonda, ma qui i ragazzi si impadroniscano del camion assassino: sono in cerca di gore e vendetta e, questa volta, di happy end. Uno scandalo per un horror, dar speranza. Forse Bob Dylan avrebbe regalato a Guadagnino la canzone che negò a Hopper perché quel finale gli sembrava troppo cupo e avrebbe preferito che si bruciasse quel pick-up....
Questi cannibali sono ovunque, una comunità di diversi, e si capiscono al volo o al fiuto, e sanno come ridurre all'osso la malvagità redneck, la giocondità del potere di classe e di razza, la vigliaccheria degli adulti, il risentimento dei vecchi eredi dell'alterità nativa (Mark Rylance). Hanno una loro etica, opposta ma profonda come quella dei guerrieri della Papua Nuova Guinea di una volta, che mangiavano i nemici uccisi per glorificarne il coraggio. Questi sono più ”vegetariani”, non sopportano la carne morta come invece in L'impero dei sensi. Easy rider in fondo non significava “il ganzo che vive con la pollastrella”? Fin dentro la morte, anche nella versione “la ganza che vive col pollastrello”.
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Monica di Andrea Pallaoro Concorso
Non totali, ma soprattutto primi piani (e insistentemente di profilo); sempre l'Ohio, ma più metropolitano (Cincinnati), con i bar, i camionisti, gli interni cupi...; una cinamatographer 'aliena' come Katelin Arizmendi per dare immagini corpose e seduttive al copione scritto dal duo Andrea Pallaoro e Orlando Tirado, ancora insieme a Venezia dopo aver fatto vincere una coppa Volpi, per Hannah, nel 2017, a Charlotte Rampling. Anche qui c'è una mattatrice delle scene e dei set, Patricia Clarkson (Lontano dal Paradiso, Il miglio verde …) mamma morente di Trace Lysette, trans ripudiata che torna a casa per assistere e curare chi quasi non ricorda di aver ripudiato. Film d'atmosfera, di sgaurdi sfuggenti, di dialoghi azzoppati sul nascere, ellittico fino alla perversione.
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Margini di Niccolò Falsetti Settimana della critica
La scena street punk di Grosseto 2008. O meglio Edoardo, Jacopo e Michele. Tre amici: uno, sposato con figlio, moglie cassiera, è impermeabile a ogni ipotesi di lavoro salariato. L'altro lavora in un night, sottopagato. Il terzo suona anche la classica e lo aspettano a Parigi per una registrazione. Insieme però spaccano: temperano bene le deformazioni armoniche e stropicciano con eleganza le melodie oblique. Ma: non hanno un soldo, non hanno appoggi politici, non riescono a esibirsi, li cacciano dalla cascina dove provavano, sono senza impianto e puntano tutto sull'accoppiata agognata con una mitica band americana, i Defense, idoli dell'hardcore, che a fatica riescono a far deviare in Toscana, da Mosca (4000 euro di biglietti aerei! Prosciugato il conto in banca). E andrà proprio tutto storto. Tranne il concerto degli americani. Trionfo. Ma qualche soddisfazione se la prenderanno lo stesso, i ragazzi. Per esempio distruggono l'orrido locale dell'amante della mamma (Valentina Carnelutti) di uno dei tre. Poi qualche bevuta, qualche battuta feroce in dialetto, l'amicizia, che li rende nonostante tutti inossidabili. Opera prima, sicuramente non ultima.
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Padre Pio di Abel Ferrara Giornate degli Autori
Quoziente di difficoltà alto per Ferrara, dopo copiosi studi di storici e ecclesiastici super partes che, voluti da papa Giovanni XXIII e da Paolo VI, smascherarono non senza difficoltà stigmate, apparizioni e miracoli. Attorno a un frate, forse giusto e buono, se ci arrendiamo alla devozione popolare, ma certo simpatizzante sempre per i latifondisti, i loro sgherri e successivamente per gli squadristi fascisti e che fu strumentalizzato, in anni di ossessione anticomunista, dal potere feudale e poi dalla Dc reazionaria. Così Ferrara sfiora solo la parte miracolistica, divide il film in due parti poco comunicanti (strage dei contadini da una parte, incerto nello stile tra ballata popolare e realismo socialista) e esperienza mistica del frate dall'altra, e qui è più Friedkin e l'esorcismo che lo appassiona)), compresi i suoi numerosi scontri fisici con il demonio, ovvero con i mali del mondo presente, passato e futuro (dai dieci milioni di morti della prima guerra mondiale ai 100 milioni di morti della seconda, che lui già prevede). La parte più interessante è proprio quella mistico-horror ovviamente già ben maneggiata in passato (e grazie anche alla presenza diabolica di Asia Argento). Fare di Padre Pio un Brus o unoSchwarzkogler, un esponente ante litteram della avanguardia azionista viennese degli anni 60, è stato il colpo di genio di Ferrara.
il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2402285178249430426.post-48742210414012887232022-09-04T15:26:00.004-07:002022-09-04T22:48:56.354-07:00Mostra di Venezia 90. Wiseman e Schrader. Di Mariuccia Ciotta <div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEijaf3qy0uk_IwqZPJXn3Q58ObIZbRHsWuI1JnWJWz158r_NYlPWXGT1VXbOisuj7Ectl69O3IXO0AUX2qTFDAPRwpr8tKCBdz2IrREOYB8YwsS25CQJzsoG0E-AoA0nBS2Oa6aNhdNUgtqKFYu7AftHA0086Ltym07rajpppcUFTrekWpsGnV4vdU2/s1920/couple%20wiseman.webp" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1080" data-original-width="1920" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEijaf3qy0uk_IwqZPJXn3Q58ObIZbRHsWuI1JnWJWz158r_NYlPWXGT1VXbOisuj7Ectl69O3IXO0AUX2qTFDAPRwpr8tKCBdz2IrREOYB8YwsS25CQJzsoG0E-AoA0nBS2Oa6aNhdNUgtqKFYu7AftHA0086Ltym07rajpppcUFTrekWpsGnV4vdU2/s400/couple%20wiseman.webp"/></a></div>Schermi incrociati per le vie del Lido e ritorno al cinema della sacralità. Niente format seriale. Frederick Wiseman e Paul Schrader si incontrano in un giardino del secolo scorso. Un couple (concorso) e Master Gardener (fuori concorso). L'immagine si congela nella visione trascendentale.
Wiseman (92 anni) segue le tracce di de Oliveira, al lavoro fino al traguardo di 106 anni, e non solo per una questione d'età. La sua Sofia/Sonja Andrèevna assomiglia alle portoghesi Benilde e Francisca, nascoste sotto abiti sontuosi, testimoni rivolte alla macchina da presa per confessare molti segreti e rivelarsi all'origine dell'arte maschile. Lei, Sonja (Nathalie Boutefeu) parla (in francese) di Lev Tolstoj, ed è già un suo personaggio, corpo reale per le pagine di Sonata a Kreutzer. Sospetti, gelosia, indifferenza, omicidio.
Nell'isola bretone di Belle-Ile, alberi, cespugli e fiori sono animati da vita propria. Le corolle si agitano e non solo a causa del vento, approvano o contestano le parole di Sonja che vaga nel giardino di La Boulaye, e recita, straniata, le lettere inviate al marito, ogni giorno per 48 anni di matrimonio e 13 figli. La mattina Leo è amoroso, la sera è spietato. Un giorno la ama, e poi la caccia via infastidito. Il giardino reagisce e commenta, come in un film parallelo dell'autore di National Gallery. Primi piani dei petali frementi, osservatori del monologo, quasi la platea dei consiglieri comunali di Monrovia. Wiseman non li alterna alla recita per sottolinearne l'emotività, ma scandaglia la fioritura e la interroga. Forse Sonja non è una vittima, ma una scrittrice alle prese con un provino, ricordando Straub/Huillet, privati, però, di concentrazione e di austerità. Wiseman ride, si capisce, dietro le spalle di Sonja. Sta dalla parte del giardino e dei suoi colori che elargiscono vita, collane preziose dipinte di azzurro e rosa pastello.
Ed eccoli tornare, apparizione disneyana e da paradiso anti-calvinista, i fiori, nella sequenza fiabesca di Paul Schrader che, come Wiseman, abbandona la storia del giardiniere ex primatista bianco, svastiche tatuate sulla schiena, ora pentito, ma succube della ricca signora sudista Norma Haverhill (Sigourney Weaver) che in un'altra vita sarà stata Rossella O'Hara, schiavi compresi.
Joel Edgerton è Narvel Roth, il master gardener della grande tenuta di Graceland, sotto osservazione poliziesca (è stato testimone di giustizia) e morale (e sessuale) della padrona del giardino, pronto al concorso del più bello della zona. La signora, che diffida della nipote mulatta, possiede una Luger e la punta contro l'ex nazista in una inversione delle parti. Chi è più bianco?
Gelido lo schermo, come sempre, tutto deve stare al suo posto secondo linee geometriche, seguendo le aiuole fiorite, moralmente squadrate, in continuità con Il collezionista di carte. All'improvviso, però, Schrader passa dal giardino all'italiana (e non alla francese, errore del copione?), ordinato e armonioso, all'allucinazione fantasmagorica, al giardino selvaggio in stile inglese. La vegetazione invade la strada sotto l'auto dell'ex white power innamorato della ragazzina african-american, il miracolo sparge fiori sui margini della carreggiata e poi, in un'esplosione di corolle multicolori, la notte si illumina e stende un tappeto di margherite e orchidee al passaggio della coppia.
Contatto con Un couple. Deviazione dall'ordine delle cose e del proprio stesso cinema. Liberazione urlata dalla strana coppia che guida in un altro film, fuori dal perimetro narrativo, allo stesso modo di Wiseman.il ciottasilvestrihttp://www.blogger.com/profile/06808844804044453377noreply@blogger.com0