sabato 31 ottobre 2020

Bond, James Bond.E fu Walt Disney a scoprirlo


di Roberto Silvestri 




Si sa tutto di Sean Connery?
 E' stato visto rivisto e adorato dalle generazioni maschili e femminili degli anni 60 (i Bond), dei 70 (i Milius, Lester e Huston); degli 80 (De Palma degli Intoccabili, Il nome della Rosa di Annaud e Indiana Jones e l'ultima crociata di Spielberg); dei novanta:  i due Highlander, Caccia a ottobre rosso, Entrapment, The rock, ovvero McTiernan, Mulchay Michael Bay e Joe Amiel. 
E così anche i millennial lo hanno scoperto e voluto imitare, magari anche senza saperlo, visto che rifiutò di fare Matrix, Harry Potter e Il signore degli anelli ("non l'ho mai capito"). Perché il suo fascino, unico, è contagioso. Alto, bello, muscoloso. Voce possente, in Italia quella di Pino Locchi, sopracciglie folte e scure (anche troppo, poi aggiustate), sguardo astuto e sardonico, gestualità  dal coordinamento sempre tecnicamente perfetto. Come il suo gin Martini, shaked not stirred, agitato non mescolato. Nel 1988 vince l'Oscar per Gli intoccabili (strappandolo al protagonista, Kevin Cosnter). Nel 1999 quando ha 69 anni lil settimanale popolare People lo incorona "l'uomo più sexy del mondo". Del 2000  è un film da lui prodotto, Scoprendo Forrester, di Gus Van Sant, che sintetizza una intera, lunga carriera, la sua egemonia schermica. Agire da duro (senza barba) o da saggio vecchio, o come ladro o come re (con la barba grigia) - ha fatto 4 film come King da Agamennone dei Banditi del tempo a Riccardo cuor di leone in Robin Hood di Kevin Reynold -  ma con la morbidezza scaltra del politico, i tempi perfetti del ballerino,  l'ironia del commediante di classe e la femminilità del giocatore di calcio che rispetta e conosce e non ignora mai il corpo e i movimenti, anche più impercettibili, dell'avversario. Mai maschilista. Mai egocentrico.  Semmai preda, oggetto del desiderio.
Sean era un proletario che ha fatto in gioventù mille mestieri. Mamma domestica e papà camionista, di Fountainbridge (che sarà il nome della sua casa di produzione, e ha tatuato sul braccio "Scotland forever" mai esibito in un film e "Mam and Dad") ha perfino lucidato le bare per sopravvivere. Come O'Toole Michael Caine e Peter Ustinov non ha fatto né il liceo né l'università, solo l'università della strada. Ma, contemporaneamente, lasciava la scuola prima del diploma, giocava benissimo a calcio, andava a scuola di danza e si presentava al concorso per Mister Universo Gb arrivando terzo. Il suo idolo? Un altro duro, un altro attore scozzese di traboccante mascolinità, Stanley Baker.  
Ma forse qualche cosa ce la siamo dimenticata, visto che  "Big Tam" si è ritirato a 74 anni, 16 anni fa, dal grande schermo. Vegano. Ecologista. Nazionalista scozzese, si è esiliato dalla Gran Bretagna, prima a Marbella, in Spagna e poi a Nassau, Bahamas perché sarebbe tornato solo in una Scozia indipendente e in una Edimburgo non più monarchica: "sogno che potrebbe realizzarsi perfino durante la mia vita", sperava. Nella lista nera della NRA, la società che tutela gli interessi dei venditori di armi da fuoco statunitensi, perché finanziava con i dollari americani guadagnati sul set potenti  campagne contro la caccia e la vendita di pistole e fucili, e si meravigliò quando Hollywood, la cui struttura e politica aveva attaccato tutta la vita, gli conferì premi alla carriera e la regina Elisabetta gli conferì la più alta onorificenza del Regno Unito (che accettò forse come Bond più che come Connery). 
Si era ritirato ma non poté rinunciare a prestare la sua voce, così profonda e unica, al videogioco di 007 dalla Russia con amore che dei "7 magnifici Bond "che ha girato è sempre stato il suo prediletto. 
Ma forse abbiamo dimenticato lo splendido film che ha fatto prima di diventare famoso, quando era ancora poco più di un caratterista, I piloti dell'inferno di Cy Endfield 1957. Era una storia che riguardava i camionisti salariati d'Inghilterra sottoposti a ritmi di lavoro schiavistici con conseguenze cruente (come i motorboy di oggi). Per Sean era un soggetto quasi autobiografico, vista la professione del padre. Il regista americano di quel film era stato sbattuto fuori dagli Usa perché comunista, coinvolto nelle epurazioni maccartiste. A proposito di film politici radicali ricordiamo anche - dimenticatissimo -  I cospiratori di Martin Ritt del 1970, sui Molly Maguires, organizzazione segreta anarco-sindacalista di fine ottocento piuttosto clandestina, molto, molto "cattiva" come direbbero i migliori commentari calcistici di Sky, con Sean Connery che cerca di aizzare alla lotta i minatori supersfruttati con ogni mezzo necessario. 
Ovviamente ricorderei anche il bellissimo, magico e poetico film prodotto da Walt Disney in Irlanda, Darby O'Gill e il re dei folletti (1959) diretto da Robert Stevenson (Connery ha partecipato anche a una puntata della serie Disneyland,  sempre del 1959) che potrete vedere sulla piattaforma Disney Plus. E' un momento importante nella sua carriera, anzi l'attimo fatale. Sean veniva dal teatro e dagli sceneggiati tv (un Macbeth, e il conte Vronsky in Anna Karenina). Fu infatti proprio vedendo quel film tutto fate gnomi e spettri che il produttore Albert Broccoli (e sua moglie), architetto con Harry Saltzman della più famosa saga cinematografico della storia, gli  007, si accorse di un attore di secondo piano, poco più di un caratterista, che nel ruolo di Michael McBride simpatizzava con il re dei folletti che doveva invece sfrattare dalla sua fattoria e nella scena finale fa a cazzotti con il teppistello del paese e lo massacra. "E' un duro, ma sa muoversi con grazia!". Alto bello muscoloso e dalle folti ciglia scure proletarie era il Bond perfetto anche se in un primo momento Ian Fleming restò male, era "troppo grezzo, un rude e sardonico scozzese dalla voce possente. Non è meglio Cary Grant"? Poi si auto-criticò. Non va sottovalutato il fatto che Harry Salzman  (che poi ha avuto due cani, uno di nome James e l'altro di nome Bond) assieme a John Osborne aveva precedentemente prodotto opere come Ricorda con rabbia e fondato una sua compagnia, la Woodfalls Films, assieme a Tony Richardson, finanziando un film manifesto del free cinema inglese  Sabato sera domenica mattina. Veniva insomma dal cinema arrabbiato d'arte. 

Non si può comprendere l'esplosione di Connery e Bond nel 1962 senza considerare che in quel momento Londra era la capitale dell'arte mondiale, non solo del cinema, anche dell'arte rivoluzionaria (Bertrand Russell aveva guidato oceaniche manifestazioni pacifiste contro la bomba atomica e per fermare l'aggressione in Vietnam il movimento studentesco inglese non sarà meno drastico dei Weathermen o come si dice con maggiore rispetto e per rispetto alle donne combattenti dei Weather Underground) . Teatro (Osborne e gli arrabbiati, Peter Brook e Glenda Jackson ), moda (Mary Quant, Twiggy... Carnaby Street), arti plastiche (Richard Hamilton e la pop art inglese), design, musica popolare (Beatles, Rolling Stones, Who...), musica colta (Britten) formavano un tessuto pulsante di idee, contenuti e forme ricche ed esplosive. Mentre Hollywood viveva il momento peggiore della sua storia, il manierismo cool e pretenzioso e rigido dei suoi kolossal pompeur, l'Europa aveva conquistato i mercati mondiali con opere a basso costo, e alta naturalezza, super erotismo e spregiudicatezza anarchica. Lindsay Anderson, Tony Richardson, Richard Lester, Edgar Reisz, Lorenza Mazzetta si avvalevano di testi radicali e di "forze della natura" performative. Pensiamo solo ai magnifici undici attori (con Sean Connery) del momento: Peter O'Toole, Michael Caine, Oliver Reed, Albert Finney, Alan Bates, Richard Burton, Richard Harris, David Hemmings Dirk Bogarde, Stanley Baker e Tom Courteney (in panchina David Warner). I "rudi" anti borghesi (Harris, Finney, Reed) e i "morbidi" dalla sessualità ribelle (OToole, Bogarde) e lui, l'ago della bilancia. Il duro che si muove con grazia, che colpisce con classe come Cassius Clay e diventa un oggetto di spietata caccia sessuale femminile. Il contrario dei playboy dell'epoca, da Porfirio Rubirosa Maurizio Zanfanti, il latin lover della riviera romagnola. Pinewood oltretutto si avvale dell'esperienza delle "leggende viventi di Hollywood" come Joseph Losey, Jules Dassin, Ben e Norma Barzman, Donald Ogden Stewart, John Barry e Cy Endfield che il fanatismo bigotto dei conservatori Usa gli aveva regalato. E anche dell'eccellenza tecnologica dei suoi studi che attirerà presto la nuova generazione di Lucas e Spielberg, in cerca di attrezzature adeguate al loro "pensiero sensibile", alla materializzazione della loro fantasia sconfinata e galattica.       



Ma i 7 007 a parte - 3 di Terence Young, 2 di Guy Hamilton, uno di Lewis Gilbert e di Irvin Kershner -  che con Marnie di Hitchcock e La collina del disonore  di Lumet completa la sua filmografia degli swinging sixty, la capacità di non farsi schiacciare da Bond si vede dalla crescita espressiva del decennio 70 e 80, sempre all'inseguimento di progetti anticonformisti e di qualità. Zardoz di Boorman (1974), Il vento e il leone di John Milius (su Roosevelt Theodor e l'Africa, del 1975), L'uomo che volle farsi re di John HustonI banditi del tempo di Terry Gilliam, Robin e Marian di Richard Lester  (1976). E ancora con Lumet Rapina record a New York del 1971 e Assassinio sull'Orient Express con Albert Finney nel ruolo di Poirot (1974). A volte si pentirà di un film, Avengers per esempio. A volte si entusiasmerà, per Entrapment, di Joe Amiel del 1999 anche perché toccherà lì il suo cachet record, 20 milioni di dollari. Se pensiamo che per Dr.No (007 Licenza di uccidere) aveva guadagnato solo 20 mila dollari, e 1.250.000 dollari per il suo ultimo Bond, Mai dire Mai (Never Say Never Again) del 1983, quando la calvizie di un 53enne (ma aveva iniziato a perdere i capelli fin dall'età di 17 anni) dovette essere nascosta da una parrucca costata ben 52.000 dollari. La distribuzione United Artists garantiva un budget di lusso.  

Il miglior saggio su James Bond, anche come icona della controcultura lounge scriverà Francesco Adinolfi in Mondo Exotica (2000), è quello di Alberto Abruzzese in Contropiano, pubblicato nel 1968 sul numero 1 della rivista marxista/operaista/trontiana. Il sociologo della comunicazione ci raccontava (scandalizzando tutti a cominciare da Cinema Nuovo, Cinema Sessanta e perfino Filmcritica) che la saga britannica è finalmente l'esempio riuscito di cinema politico, non reazionario o anticomunista come si crede (come pensava perfino Ian Fleming: "il mio personaggio letterario è un orrendo fascista maschilista, esecutore immorale di ordini superiori") ma che scavalcando quel tipo di dicotomia è proprio rivoluzionario (almeno per come l'ho interpretato io): "Il futuro di Bond ha notevoli affinità con il futuro di Marcuse. La lotta di classe diventa una dialettica di generazioni". La prova è che si chiamerà proprio The Bond (l'unione) il primo giornale underground dissidente stampato all'interno delle truppe di terra americane in Vietnam nel 1967. La fonte è il saggio di James Lewes Protest and Survives: Underground G.I. Newspapers during the Vietnam War. 2003. Greenwood editore.

I Magnifici Sette Bond sono piuttosto precoci nell'annunciare scenari geopolitici futuristi come lo scontro a venire tra democrazia e complessi militari industriali globalizzanti e totalitari (la Spectre non si può sovrapporre a Urss e Cina e al bipolarismo, piuttosto a conglomerati transnazionali dagli oscuri disegni apocalittici o predatori, guidati dai Bezos di allora, gli Adolfo Celi o i Gert Frober. In fondo la bomba atomica l'aveva sganciata la democrazia occidentale, no Mr.Truman?). Insomma è vero che Bond si scontra con una realtà futura tecnocratica per riaffermare la realtà presente della democrazia, ma apre un campo di tensioni "consumistiche", di desideri individuali possibili e inauditi e incontrollabili e destabilizzanti che molto si collegano alle elaborazioni di Marcuse e perfino di Roberto Rossellini nel magnifico saggio Utopia Autopsia 10 alla decima (Armando editore 1974). Lo sviluppo tecnologico raggiunto permetterebbe di risolvere ogni problema di fame nel mondo e di riduzione del lavoro planetario se solo si consentisse al cervello umano di svolgere in pieno la sua potenza, chiusa ancora nel segreto dei suoi dieci e più miliardi di neuroni, crescita che si vuole ritardare di parecchio per puntare alla sola crescita Pil, continuare a sottosviluppate i tre mondi e mantenere al potere assoluto l'1% del mondo.  Il "cinema politico-civile" di quegli anni (i Rosi, i Petri, i Taviani i Gavras) era per noi piuttosto "moderato e cantabile": il linguaggio era ricalcato sul cinema commerciale popolare e si asservivano le immagini alla disciplina di una ricezione obbligata di massa (il messaggio umanista, lavorista e progressista) ma non produttrice di altro senso erotico eretico e utopico. Volevamo tutti, non più solo Cererentola il principe azzurro. La fantascienza stava davvero per esplodere. Invece quei film politici doc erano chiusi al presente, non aperti al passato e al futuro. E parlavano al "pubblico" massificato e non allo spettatore singolare maschile o femminile, a corpi generazionalmente nuovi, quelli della "soggettività desiderante" come la chiamava Oshima. Quella fuori dalle Chiese e dai Partiti, sciolti dal giuramento. La generazione del 'vogliamo tutto e subito'. Del "Niente di meno, di più". Del sex prismatico, delle drugs benefiche e del rock'n'roll non bromurizzato. Della tensione tecnologica-fantascientifica. Infatti Bond è un "nuovo linguaggio", che non ha più bisogno di stile né di bellezza (è ,piuttosto macchina di desiderio erotico irresistibile)  come non saranno dopo di lui molti super eroi 3d Marvel, più giocondi e pedanti (Guardians of the Galaxy e Black Panther esclusi). Vince sul reale, contro una macchinazione che vuole peggiorare il presente (che già non è un granché) con una prospettiva futura assurdamente anti umanitaria. Un po' come i film western degli anni trenta-cinquanta, come spiegava Glauber Rocha, che elogiavano quella generazione selvaggia che conquistò il l'Ovest reinventando il mondo ma facendo piazza pulita (criminalmente come nel genocidio indiano) anche di un certo passato orrido (feudale, 'europeo', superstizioso, gerarchico) per riaffermare un altro presente. L'individualismo democratico, orizzontale.  

Non accademico. Thomas Sean Connery nasce nel 1930, figlio di un camionista e di una domestica, nella Edimburgo della grande crisi tra disoccupazione, povertà e fuga dalle campagne per una vita migliore in città. Il fratello fa lo stuccatore. Da piccolo si rimbocca le maniche consegnando il latte, facendo il macellaio e lavorando nelle miniere di carbone, disposto a tutto per aiutare economicamente la sua famiglia. A 16 anni si arruola nella Royal Navy (poi esonerato per motivi di salute) e al rientro scopre i mondo del teatro. Dunque è un attore che non fa il liceo né l'università. Qualcosa che lo accomuna a grandi attori formati e laureati nell'università della vita, un ateneo più esclusivo di Harvard e Yale. Come vediamo dal palmares. Ci sono gli attori, più che i divi, che consideriamo più profondi e colti: Roger Moore, Melina Mercuri, Al Pacino, Peter O'Toole, Gene Hackman, Lee Marvin, Elaine May (sic!), Cary Grant, Jerry Lewis e Dean Martin, Rod Steiger, Peter Ustinov, Michael Caine, Charlie Sheen, Ellen Burstyn, Robert Mitchum, Jim Carrey, Uma Thurman, Johnny Depp perfino Robert Downey jr., Anthony Quinn, Richard Pryor, Drew Barrymore (sic!) Keanu Reeves, Carrie Fisher, Nicholas Cage. Nessuno di questi si è diplomato alla high schoool. Certo molti di questi performer sono stati educati "privatamente", a differenza di altri non diplomati celebri come Gerard Depardieu, Sidney Poitier, Steve McQueen, Tom Cruise, Brigitte Bardot, Sophia Loren, Sonny Bono e Cher, Danny Aiello, John Travolta e Olivia Newton John, Quentin Tarantino, Prince, Mike Tyson, Ringo Starr, Michael J.Fox, Bo Derek e Laurence Fishbune, Rob Lowe, Courtney Lowe.


Con il toupe. La Warner Bros ha speso 52 mila dollari per creare l'acconciatura irresistibile di James Bond in Neve Say Never Again (Mai dire mai) diretto da quel beatnick di Irving Kershner nel 1983. Insomma è una questione di soldi il sex appeal? Se vediamo chi ne ha fatto uso a Hollywood ci viene questo dubbio: Bogart, Gary Cooper, Henry Fonda, James Stewart, John Wayne, Frank Sinatra, Burt Reynolds, Gene Kelly, Charlton Heston, Kevin Costner, ... Andy Warhol... Bé sono artisti, animali da palcoscenico, f for fake ... Bruce Willis no: "è un monumento all'architettura cranica" e può permettersi di essere pelato.



Il tatuaggio. Ovvio che si è tatuato sul braccio "Scotland forever" e "Mum & Dad". Quello di Robert Mitchum non sono riuscito mai a vederlo, la leggenda vuole che sul braccio abbia inciso una oscenità innominabile. 

Gli amici. Pochi tra i colleghi. Roger Moore, Michael Caine e Richard Harris 

Cachet. 10-13 milioni di dollari a film, dopo il boom del primo Bond, sarà il suo cachet medio. Come Clint, che arriva a 15.

Era tirchio? Sì, scrivevano i giornali scandalistici e reazionarii. "Notoriamente avaro" come Clark Gable, Cary Grant, Steve McQueen, Babs Streisand (sono considerati al contrario molto generosi De Niro, Streep, Clooney, Mirren, Stallone e Sharon Stone. E anche Mike Tyson). Ma non era affatto  tirchio come prevede il luogo comune. Utilizzava la maggior parte dei super cachet in edificazione di scuole a Edimburgo per i poveri (lui era stato costretto a lasciare la scuola a 13 anni), per lotte ambientaliste e ecologiste (e, finché gli fu possibile, per finanziare il partito indipendentista scozzese), per la cultura (è stato un magnifico supporter dei festival scozzesi del cinema e del teatro). Non approfittava del suo crescente successo divistico per ritoccare in alto i suoi introiti (come si legge nell'autobiografia di John Huston a proposito di L'uomo che volle farsi re, dove oltretutto dà prova sul set di una tecnica recitativa pressoché perfetta).   

Manesco? Solo nei ricordi della prima moglie, Diane Cilento: "L'ho lasciato dopo che mi ha incupito la faccia di pugni" . Ma quando si tratta di divorzi con celebrity meglio non dare ascolto ai pettegolezzi, chissà il suo avvocato cose le ha ordinato di dire. Ma, in una celebre e famigerata intervista televisiva disse a Barbara Walters che usare le mani con una donna quando se lo merita è più che giusto. Forse è per questo che il Saturday Night Life ne fece la caricatura, trasformando l'impeccabile agente segreto di Sua Maestà in un imbranatissimo partecipante a un telequiz...

Rimpianti. Doveva girare Vestito per uccidere con Brian De Palma... 

 

venerdì 4 settembre 2020

L’importanza di Gianni Serra nella storia del cinema occidentale

La ragazzi di via Mille Lire di Gianni Serra (1980) 

Roberto Silvestri 

Nel 1980 vennero presentati nella sezione Controcampo italiano della Mostra di Venezia La ragazza di via Millelire di Gianni Serra e Razza selvaggia di Pasquale Squitieri. E ci sono state alcune divergenze tra il compagno Alberto Farassino (l’indimenticato maestro della critica e co-fondatore delle Brigate Rossellini)  e noi. Tra Repubblica, dove scriveva Farassino e il manifesto. 

Fu a proposito del bel film di Serra, non amato da una sala misteriosamente astiosa forse perché stanca di Mirafiori sud come i 35mila colletti bianchi e forse di nuovo fiera della "razza padrona". 

Farassino lo amava “quel poema dai contenuti ribaldi ma dalla metrica classica”. A noi però piaceva del film di Serra proprio la metrica ribalda, i contenuti classici e un’immagine pop street pre-Bansky, ovvero un pro e prefilmico denso e profondo, le analisi socio-antropologiche e le consulenze sociolinguistiche del fuori campo, le inchieste preliminari con il videotape su come veniva gestito e perché e da chi il traffico dell’eroina, i personaggi reali che recitano se stessi, la propria miseria e la propria bellezza. Insomma quasi una applicazione del disinteresse rosselliniano per i trucchetti del cinema-spettacolo. Squitieri, tra i pochi firmatari di un manifesto di pro-arrestati del 7 aprile, era stato solo in quella occasione politicamente corretto - in politica si fanno compromessi - ma aveva poi confuso le cose: in quel film ci sembrava pronto al compromesso estetico e presto in politica ci apparve glacialmente opportunista (sfruttando Tatarella, Petacci e Berlusconi).


Gianni Serra in Africa sul set di Progetto Atlantide (1988) 

Nel reportage dalla Mostra di Venezia La Repubblica, e in parallelo anche Guido Aristarco, appoggiò dunque Razza selvaggia, che sempre della Torino degli immigrati e degli emarginatissimi trattava (ringraziando però entrambi il sindaco Pci Novelli), accontentando i palati melò del grande pubblico (non a caso produceva la Titanus pre-berlusconiana). Invece il manifesto si schierò con Gianni Serra, e con il piccolo film no budget, anche se condividevamo i limiti delle produzioni povere “statali e televisive, protette da tante mamme e funzionari”. Serra pensava più ai palati popolari delle generazioni future, a quello di un altro popolo possibile, a venire. Il film “duro” di Serra fu poi invitato dal più rigoroso London Film Festival mentre quello “sconcertante ma mai timido e insipido” di Squitieri dal più brezneviano Moskow Film Festival…. 

Erano gli anni in cui, parola di un caro collega di Gianni Serra -  l’altrettanto militante ex documentarista Rai Antonello Branca - viale Mazzini effettivamente censurava la sostanza e i dettagli delle cose vere, e perfino la parola cancro non si poteva pronunciare nei servizi (meglio zuccherarla con “il male incurabile”, come imponeva il ligio responsabile Angelo Guglielmi). Ma di cose vere si poteva trattare. 

Il quotidiano del futuro partito unico della sinistra, la Repubblicascalfariana, comunque ebbe la meglio. Di Gianni Serra non si parlò quasi più. E proprio di cancro è morto Gianni Serra il 3 settembre 2020. 




Gianni Serra? Ma chi era costui? E Stavros Tornes oggi ci dice qualcosa? E Gioia Benelli? Cinema del secolo scorso,  troppo pericoloso. Da nascondere, cancellare. Eppure qualcuno ricorderà, almeno vagamente, Z l’orgia del potere.  E che nell’Europa moderna e fiera di essere nella Nato era intollerabile il fatto che si potessero tranquillamente tollerare i colonnelli golpisti di Atene e i loro fetidi agenti segreti del Kyp. L’anticomunismo è ancora merce benedetta, e non solo da Padre Pio.

Uno dei tre, 1970, film d’esordio cinematografico del comunista Gianni Serra,  regista visivamente colto e eticamente coraggioso, oggi totalmente espulso dalla memoria, raccontava un misfatto di cronaca vera. La morte drammatica di un antifascista greco fuggito in Italia. L’inchiesta su quello strano suicidio-non suicidio. Il padre che arriva da Atene. I depistaggi, l’ambiente della sinistra non parlamentare… Lo stile era spoglio, severo, rosselliniano. La costituzione d’oggetto seria, meticolosa, fattuale, mai ideologica. Gianni Serra non a caso veniva dall’alta scuola del giornalismo di inchiesta televisivo, da TG7. Oltre che dalla Domenica sportiva, Campanile sera. Aveva lavorato e apprezzato le qualità comunicative di Mike Bongiorno e di Enzo Tortora. Aveva portato nelle sue immagini gli isotopi della pittura e della moda moderna più segretamente conturbante (anche grazie alla costumista Stefania Benelli).  Da tanti film tv d’impegno : Primo trimestre (167), Un caso apparentemente facile (1968); La rete (1970), Progetto Norimberga (1971), Dedicato a un medico (1973), Diario di un no (1974), Il nero muove (1977). Fascismo, ospedali, divorzio, scuola, tragedie storiche. Fatti, ma trasformati in cinema, fatti immagine. Nessun orpello, nessuna pornografia espressiva, nessuna rappresentazione di un testo. Videotape e nagra avevano azzerato il dibattito sul realismo. Nei nuovi documentari non erano gli esperti a spiegare, come oggi in tv. Era la vita e le pulsioni dal basso molto ben articolate in un “corpo superiore”. Nulla restava - in quel film politicamente realizzato, e scritto con la compagna della vita e cineasta Gioia Benelli - del fascino ipnotico, spettacolare e coinvolgente (che allora consideravamo pericolosamente autoritario) di Costa Gavras, geniale nell’aizzare a forza di semplificazioni popolari alla dicotomia da stadio, al “noi contro loro”.  No. Serra-Benelli si rivolgevano invece a spettatori, non al “pubblico” delle curve. Come Bergson ci ha spiegato che lo spirito è prodotto dalla materia, così Serra, Benelli e Stavros (il regista indie greco esule in Italia che in quel film era attore e consulente) che lo schermo produce mutazione, spesso crudele, nell’incontro/scontro con l’immaginario dallo spettatore, mai piacere zuccherato iniettato a forza di format nell’occhio alienato. L’amico e sceneggiatore di Serra, l'ex architetto e assistente teatrale di Giorgio Manganelli  Tomaso Sherman, avrebbe applicato lo stesso rigoroso metodo in Ho visto uccidere Ben Barka  (1978), su un altro delitto di stato, ad avvertirci sull’estremismo fanatico dei moderati (in questo caso arabi). Straub-Huillet avevano estremizzato quel procedimento nell’analisi del riarmo tedesco d’epoca Adenauer.  Gioia Benelli (nipote di Sem Benelli, La cena delle beffe)  estremizzò quel procedimento nell’analisi delle stratificazioni esiziali famigliari. Cuore di mamma, 1987, è un gioiello sepolto del nostro cinema. Il primo Vintemberg non è andato molto oltre. 

Fortezze vuote (1975) 

Infatti Gianni Serra, morto ieri a Roma a 86 anni, è un cineasta importante, coltissimo, schivo, dimenticato, ma di bruciante attualità. Esordisce nella regia in un anno maledetto ma cruciale per il cinema italiano, il 1972. E non solo per il cinema. Mentre nel fuori campo internazionale Nixon sta bombardando la Cambogia clandestinamente, e senza che nessuno lo fermi (Trump non è un Lex Luthor inedito), facendo diventare pazzo Pol Pot, e il Cile di Allende è sotto stretta osservazione, che succede in Italia? Contestazione generale. Femminismo. Smantellamento del codice fascista Rocco. Divorzio. Aborto. Piazze furenti che terrorizzano i potenti. Perfino Il Corriere della Sera diventa (ma sarà miracolo effimero) quasi leggibile tanto che Indro se ne va. E l’odiato nemico di classe cosa fa? 

Oltre ai licenziamenti nelle fabbriche indocili delle teste più calde. Oltre alle stragi à gogo pianificate dall’Innominata vestale del plumbeo e maccartista decennio precedente (1948-1958). Oltre alle denunce e ai processi a valanga per reati di opinione (che colpiscono già, non a caso, Potere Operaio e il direttore Tolin). Oltre all’uso della manovalanza nazifascista nei licei e nelle scuole,  come in Furore di Steinbeck e Ford, per picchiare, provocare, schedare, arrestare e intimidire la moltitudine ribelle o depotenziarla, deviandola verso il vicolo cieco BR. Oltre alla diffusione capillare di droga (prima leggera, poi pesante) per confondere le acque e barattare con qualche dose di lisergica distrazione, porno e coca una tregua sociale. Oltre alla ramificazione della Gladio di Kossiga in ogni prefettura e questura (che film politico sull’Italia è stato Magnum Force ovvero Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan, scritto nel 1973 da Milius e Cimino!), il periodo che va dal 1972 al 1978, fase finale della ‘dittatura del proletariato’ in Italia iniziata nel 1968, è stata la distruzione tattica del cinema italiano. Bruciare gli esordi con ogni mezzo necessario. L’art. 28 ne manderà al macello tanti. Bloccare la produzione di documentari e film sperimentali. Bloccare l’università popolare di scienza delle comunicazioni anarchiche e libertarie di Trastevere, dove tra Carmelo Bene, Grifi, il Filmstudio, Brocani, Braibanti, il teatro sperimentale e la musica concreta era tutto un fuoco d’artificio di creatività, era come vivere al Greenwich Village.  Bloccare per estinzione dei finanziamenti (solo 32 milioni il budget annuo!) gli Sperimentali Rai2 che Italo Moscati impone in prima serata tv e che provocheranno la messa al bando degli “indici di gradimento” perché se si scopre che si gradisce di più un no budget firmato Gianni Amelio tutto il sistema mangia soldi a tradimento che vivacchia ai confini di un colossal tv, che fine farà? L’invenzione di Berlusconi e di quella tv commerciale non sarà affatto un non sense.   Che film sono quelli Sperimentali? “Sono pellicole - scrive Moscati -  che parlano di ragazzi in istituti di correzione, di giovani operai nei quartieri dormitorio, di adolescenti nelle metropoli in sviluppo, di sognatori che aspirano a creare nuove condizioni di vita, di fanciulle che scoprono la realtà dei nuovi regni dei consumi, di persone che amano le armi…”. Fortezze vuote del 1975 girato in un ospedale psichiatrico (sempre assieme a Gioia Benelli) diventa una bomba spirituale di immensa potenza lanciata nell’immaginario perché la riforma Basaglia vada a buon fine. Sono film imposti dal contropotere sociale di quel decennio, ideati e diretti dalla generazione di artisti che vengono dal Csc, ma soprattutto dalla pittura o da altre arti, da scuole di cinema straniere o virtuali, come la scuola Trastevere-Campo de’Fiori (in Italia il cinema è pericoloso, considerato arte extraparlamentare, non si studia ancora all’Università o nei licei…). Romano Scavolini, fotografo di guerra in Vietnam,  Mario Schifano, Giosetta Fioroni e Sandro Franchina, ovvero, la scuola di piazza del Popolo, Peter Del Monte è californiano ma viene dal Csc rosselliniano come Franco Brocani, Tinto Brass invece direttamente da Langlois, Maurizio Ponzi dalla più sofisticata rivista di cinema italiana, Cinema&Film, Bertolucci ebbe come istitutore privato Godard e Pasolini… 

Gianni Serra che era nato a Montichiari (Brescia) il 14 dicembre 1933 aveva abbandonato gli studi universitari di giurisprudenza e di filosofia alla Statale per dedicarsi alla pittura. Nei primi anni 50 pittura vuol dire Parigi. A Parigi frequenta il pittore ed ecologista viennese, anzi “medico dell’architettura”  Friedensreich Hundertwasser (1928-2000) e il cineasta ed ex partigiano George Franju (1912-1987), cofondatore della Cinémathèque Française, che lo incoraggiano a imbracciare la macchina da presa per "filmare la terra dal cielo", tema di molti suoi dipinti, il primo, e a trattare il fantastico come i neorealisti facevano con la strada e le sue tragedie, per non lavarci le mani di fronte ai massacri inauditi e “fuori dal mondo” che avvengono nel mondo, il secondo, maestro di Leos Carax e Gaspar Noè, maestro del cinema come arte sovversiva. Ecco cosa i decenni successivi hanno cancellato. Film come Sang des betes, il documentario della crudeltà, insostenibile, sui mattatori di Parigi (1949). La violenza che c’è non è né finta né eccitante, ma reale, bunuelliana. Si veda il controverso Una lepre con la faccia da bambina (1988), con Franca Rame, Amanda Sandrelli e Lydia Alfonsi, dove Gianni Serra e il romanzo della scrittrice e poi senatrice Pci Laura Conti non vuole e non può dimenticare il (rimosso) disastro di Seveso, la nube tossica, gli orrori pianificati del capitalismo reale (si può vedere su You Tube) e si piazza come un intruso fertile in pieno decennio di edonismo reaganiano (si vedano le furibonde polemiche che ha suscitato sulla stampa reazionaria) . O, del 1984, l’ affascianante Progetto Atlantide, con Daniel Gelin, Paolo Bonacelli e Marpessa Dijan che utilizza il tono patafisico di Alaister Crowley per un’incursione profetica tra i Tuareg, i servizi segreti, il nord Africa turbolento e i fanatismi religiosi a venire. Insomma. Se il nostro cinema fosse stato in grado di coniugare Serra e Squitieri, forse saremmo stati competitivi con Lucas e Spielberg, che quanto a sostanza storico-scientifica forte dei loro film non hanno rivali. Un esempio personale. Un giorno Gianni Serra che veniva spesso a trovarci al manifesto mi confessò desolato che dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo e  Guerre stellari il cinema europeo non aveva futuro. Tutto è finito. Il matrimonio tra Enrico Fermi e Mario Bava qui non era avvenuto. In California sì. Era però ben consapevole della sostanza conoscitiva e culturale spessa dell’epopea lucasiana. Come Elias Canetti aveva spiegato in Massa e potere andava decostruito al cinema il mito dell’eroe, la metafora del capitalista che diventa sempre più forte sul sangue del lavoro vivo che il mercato cannibalizza. E George Lucas aveva ben spiegato che bisognava farla finita con quel tipo di eroe, che dietro il mito appare la maschera della morte nera. 


 


Gioia Benelli, cosceneggiatrice compagna di Gianni Serra 
     

domenica 31 maggio 2020

Clint, 90 anni, 70 film da attore, 41 da regista, l'uomo dai due volti



Non mi piace festeggiare gli anniversari, in genere. Ma i 90 anni di un artista così particolare ed estremamente strano come Clint Eastwood che ho avuto il piacere di conoscere a Roma durante la promozione stampa di Bird, che ancora non aveva vinto il Golden Globe come miglior film dell'anno, e soprattutto un bell’articolo di Samuel Douhaire (*) corredato da foto stupende, mi hanno dato la traccia e la  voglia di ricordare alle giovani generazioni perché non possiamo che essere, anche, eastwoodiani.   

Roberto Silvestri 

Clint il bimbo gigante e papà Clinton 
“Non essere mai là dove ti aspettano”. Sarà questo il suo motto per tutta la vita?
Quando nasce, nella clinica San Francesco di San Francisco, lo chiamano “Sansone”. E’ già un fenomeno. Pesa 5,1 kg. E’ talmente gigantesco che merita il primo articolo di un quotidiano, e non ha che 3 giorni di vita. Sarà meglio stargli alla larga...
E’ il primogenito di Margaret Ruth, 21 anni, sua sorella nascerà 4 anni più tardi, e di Clinton (già), travolto dal grande crak. Da agente di borsa cambia lavoro: operaio in una fabbrica di frigoriferi a Spokane e nei cantieri navali di Oakland, vende fac-simili di gioielli  a San Francisco e  fa il pompiere a Los Angeles. “Non era Furore – dirà più tardi in una intervista -  ma neppure il lusso, era un periodo di merda”.

Infanzia e giovinezza 

con la figlia Allison
Cambia 8 volte scuola tra i 6 e gli 11 anni prima di stabilirsi a Piedmont (Oakland),  ma allo studio mentale preferisce quello motorio, il basket e il jazz, e dall’età di 15 anni (tutto sua nonna) si esibisce nel jazz club. Guida prima dell’età legale e la passione per le automobili (la Mercedes di Papa Luciani sarà sua, dopo quella strana morte e poi le Ferrari, poi i pick up …) non lo abbandonerà mai. Sente Parker allo Shrine Auditorium di Los Angeles. Folgorazione, come sappiamo. Occhi azzurro oceano, auto, ragazze e musica. Si diploma. al liceo tecnico a 18 anni (nel frattempo vive a Los Feliz, Los Angeles). Il suo motto è sbrogliarsela da solo. I piccoli lavoretti, come gli ha insegnato papà: macellaio, operaio in una fabbrica di piatti di carta, maestro di nuoto, pompiere, operaio alla Boeing, siderurgico. Fa il servizio militare a Fort Ord, Monterrey. Addestra i soldati a nuotare, ma non parte in Corea per difendere il mondo occidentale dai comunisti. Prende anche una medaglia al merito come caporale ma rischia la vita in un incidente aereo. L’apparecchio cola a picco. Lui si salva, cade nell’oceano ma nuota fino a riva, per 6 km. Si trasferisce a Los Angeles anche se, in licenza militare aveva scoperto Carmel by the Sea e si era ripromesso di stabilirsi lì un giorno se le cose fossero andate bene. 

Clint teenager, suona ilpiano nei  jazz club

Primo matrimonio

Sposa Maggie Johnson, laureata a Berkeley, conosciuta durante la naja nel 1953. Mentre lavora partecipa a corsi serali di arte drammatica. Per caso si trova negli studi Universal perché un’attrice per la quale ha fatto lavoretti in nero deve pagarlo. Lo notano. Diventa figurante. Fa un corso per apprendista attore pagato 75 dollari, impara a cavalcare e a fare il cascatore. Segue scrupolosamente tutte le lezioni, timido e riservato non perde una parola quando attori di fama, come Tony Curtis, raccontano le loro esperienze. E comincia a curare il fisico, ginnastica, pesi. Fa sport. Divide un appartamento con altri attori. Maggie non è che sia proprio al settimo cielo… Continuerà a fare palestra per tutta la vita. Anche in questo momento, credo. Ottiene il suo primo ruolo, Jennings, non accreditato e non proprio indimenticabile, in un film horror, “La vendetta del mostro”, di Jack Arnold (con lui farà anche Tarantula). E’ l’ assistente di uno scienziato e le sue cinque battute lo fanno passare per un imbecille. Siccome anche le dieci partecipazioni successive non sono indimenticabili, per esempio in “Francis in the Navy” sulle avventure di un mulo parlante, a lui e a un altro attore emergente, Burt Reynolds, l’Universal (perspicace) non rinnova il contratto. E’ il momento degli attori torturati e nevrotici come Monty Clift o James Dean, e un minimalista come Cooper o Stewart è fuori gioco e fuori moda. La sua voce è considerata troppo dolce, il suo pomo d’Adamo troppo sporgente. Il produttore-regista Arthur Lubin aveva sentenziato dopo il suo Francis in the Navy e Lady Godiva: ”Non è capace di parlare, ma è bravissimo a stare lì e a non far niente”. Non è del tutto vero. Il sudista razzista e sadico Keith Williams  che adora sparare agli indiani lo sa fare con grinta perversa in “Urlo di guerra degli Apaches” di jodie Copeland (1958). Ma è la televisione che lo salva. E un corso di teatro che segue  serissimamente in quei mesi. La Cbs lo sceglie per la parte di Rowdy, cowboy idealista e servizievole, in “Rawhide”, un feulletton western che apre nel gennaio del 1959.  Impara molto dal regista Charles Marquis Warren  (la serie durerà durerà 7 anni) anche se definirà il suo personaggio “l’idiota della prateria”. 

Sergio Leone e l'esplosione

Un idiota che attira l’attenzione di Sergio Leone in cerca di un ”tipico eroe mitologico americano”, alto, poco caro e con un atteggiamento disinvolto e convincente. La sua prima scelta è Charles Bronson. Ma gli ha detto di no (anche lui molto perspicace). Clint si sbarazza della sua piccola gloria televisiva e gioca d’azzardo. Lancia i dadi. Vince o perde? Vince. Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono il brutto e il cattivo diventano immediatamente dei successi internazionali e dopo un po’ di “sbarramento da panico”, Hollywood come si sa è micragnosamente protezionistica, conquistano perfino i mercati nordamericani.  Leone mostra il vero volto dell’eroe western, sporco, rozzo, mal rasato, violento e subdolo proprio come i suoi nemici cattivi (gli assassini, gli indiani, i messicani, i californios…) . “L’uomo senza nome” è vero che difende gli oppressi, le donne, gli orfani e le vedove. Ma lo fa per denaro.  Con i soldi italiani meritati per chi ha inventato, con Leone, un nuovo genere, il western spaghetti (che per qualche anno salverà l’industria del cinema nazionale in perenne crisi e senza strutture adeguate), contribuendo anche al suo stile quasi “muto”, a una dizione quasi soffiata tra i denti e al sincretismo iconico (il poncho messicano, i jeans Levi slavati, il vecchio cappello da cowboy, il sigaro toscano  e gli stivali da telefilm), Clint compra il ranch dei suoi sogni a Carmel, con una dozzina di ettari di terre coltivate. Viene chiamato da tutte le majors. E nasce il figlio Kyle mentre lui è a Londra per girare un kolossal di guerra, Dove osano le aquile di Brian Hutton (1968) nel ruolo di Shaffer. Fa a gara con Warren Beatty come collezionista di belle donne o meglio diventa una preda maschile appetibile per Inger Stevens (Impiccatelo più in alto), Jo Ann Harris (La notte brava del soldato Jonathan), Jean Seberg (La ballata della città senza nome)… 

Nascita di un regista

grazie Don Siegel!
Rientrato negli Stati Uniti ritraduce l’uomo senza nome per il paesaggio storico non solo geografico americano dell’epoca Vietnam, assieme a Ted Post e soprattutto al suo vero maestro in “formulazione d’immagine dinamica”, Don Siegel. L’eroe è sempre chi, accusato a torto di un crimine, si fa giustizia, senza pietà. Ma non c’è nessun culto per la violenza, come nelle parallele apologie dei giustizieri della notte. C’è una consapevolezza così trasparente dei meccanismi profondi che proteggono il mito americano dalla sua così mostruosa verità (genocidio originale dei nativi, imperialismo, razzismo, schiavismo…) che i combattimenti di Clint contro i prepotenti di turno, in genere organizzati in gang o in squadroni della morte, diventano pure astrazioni logiche, come è il teorema Callaham. “La cosa più difficile al mondo è di non fare niente e di farlo meravigliosamente”. 
L’attore decide di restare proprietario della sua carriera, non come è successo a Elvis Presley, non come successe a Buster Keaton, piuttosto imitando Robert Aldrich (che si è comprato addirittura i suoi studi) o Jerry Lewis. Fonda la sua casa di produzione, la Malpaso, il ‘sentiero sbagliato, cattivo’. Passa dietro alla macchina da presa e sviluppa i suoi progetti. Ama soprattutto le storie molto dark, dove i confini del bene e del male si confondono ma lui e il suo pubblico riescono a seguire sempre un filo morale, e a dare alle immagini un senso potente di ciò che è bene e di ciò che è male. Insomma approdano al giudizio (direbbe Kant) pratico”.

Sesta regia, Il terranno dagli occhi di ghiaccio, 1976
“Ne sapevo abbastanza per sviluppare progetti miei e ottenere quello che voglio dagli attori”, dichiarerà al Los Angeles Times. Ha imparato sul set di Rawhide a girare velocemente, a non sprecare un dollaro, a ottimizzare il tempo. La sua opera prima piuttosto autobiografica (il jazz, le donne, la California) Play Mitsty for me (in Italia “Brivido nella notte”) costato pochissimo, meno di un milione di dollari, incasserà 5 volte quella cifra e finisce le riprese con due giorni di anticipo. Come molti altri cineasti indipendenti della sua generazione, il newyorkese Martin Scorsese o Francis Ford Coppola, Clint dividerà i suoi progetti futuri tra piccoli film a rischio e lavori commerciali a budget più alto che faranno felice la WB. Anche il suo personaggio di duro puro viene messo in discussione, sconfina per psicopatologia con il cattivo che affronta, e diventa quasi un suo doppio, muore di tisi, è prepotente a volte, gli amputano la gamba, viene perfino quasi “violentato” da una donna (Sonia Braga in La recluta). 

Perché Callahan non è un fascista

con la prima moglie 
Sconvolge la sua nemica, la critica tipicamente new yorker Pauline Kael, che emette la sentenza:  “Clint non è un attore, quindi è difficile dire che è un cattivo attore”. Si scatenerà contro Eastwood quando Don Siegel lo porta al trionfo con il primo Callagham. “Fascismo. Si glorifica chi si sbarazza della legge per eliminare un criminale seriale... Un film immorale”. Ma Clint risponde. No. E’ moralissimo. Abbiamo vinto la seconda guerra mondiale contro il nazismo. E impiccato i gerarchi di Hitler. Siamo sicuri che sia stato un processo “giusto”? Non è stato un po’ illegale? Ma non abbiamo forse fatto bene? Io mi sono ispirato al principio di Norimberga. Eseguire un ordine immorale, anche se legale, non è mai consentito. Come poliziotto di quel film, se avessi seguito la legge, sarei stato del tutto immorale. Che Callaghan non fosse “lo strumento  perfetto per fare la propaganda in favore di una polizia parallela” lo spiegherà molto bene negli episodi successivi. Intanto il Nouvel Observateur  lo chiama già “nazi” e la rivista Positif nata nel 1952 per difendere il cinema americano impegnato definisce “Impiccalo più in alto” il “Mein Kampf del West”. Persino la rivista “Life”, costretta a registrarne il grande successo al botteghino titola: “La vedette più amata al mondo è – non ridete – Clint Eastwood”. In Magnum Force di Ted Post in faccia ai suoi detrattori, qui descritti come uno squadrone della morte parallelo alla polizia di San Francisco, Callagham dice: “Credo che vi siate sbagliati sul mio conto…”. 16 anni dopo a Cannes Pale rider convincerà anche i più tardi di comprendonio. Individualismo radicale e fascismo sono un ossimoro. 

Ma quando vota sbaglia sempre 

Chi vota democratico può essere più che razzista (ricordate Lincoln?). Clint difficilmente voterebbe democratico, ma quando vota Eisenhower il neoeletto presidente chiude con la guerra in Corea, Nixon apre alla Cina, Reagan “apre” l’Urss…. Voti di scenario. Certo, c’è Trump. Qui emerge tutto l’odio di un americano fisiologicamente “anti monarchico” per lo stato provvidenza, per Roosevelt il “traditore socialisteggiante” e il suo new deal. Eppure per quanto riguarda i temi sociali Clint è per i diritti della donna, per l’aborto e per l’eutanasia e per il controllo nella vendita di armi, combatte il razzismo nei suoi film e in tutte le sue dichiarazioni pubbliche e la sua vita privata ha di che scandalizzare qualunque bigotto conservatore di destra per le sue relazioni extraconiugali mai nascoste (Sondra Locke e Maggie Eastwood, Frances Fisher e Sondra Locke…). Nel 1997 l’attrice Sondra Locke, con la quale avrà una relazione anche artistica dal 1972 al 1984, scriverà un libro sulla sua burrascosa relazione con Eastwood accusandolo di essere un super macho e soprattutto un bel tirchio. Non pagava mai il conto al ristorante per tutti e due. Nel 1986 diventa sindaco per 2 anni di Carmel con il 72,5% dei voti (Norman Mailer, che se ne intendeva, non ha forse scritto che Clint ha un “viso da Presidente”?) per fermare una speculazione edilizia a Carmel by.the-sea, e ottenere una licenza edilizia che impedisca la costruzione sul mare di una serie di tremende villette a schiera che avrebbero deturpato il paesaggio sul mare presso la Missione spagnola del ‘500. Chi adesso si reca sul posto e alloggia al (suo) Mission Ranch si renderà conto di quello che il nostro autore, ecologista, ha salvato. Oltretutto non è un hotel di lusso, i suoi costi sono abbordabili. Ma Clint ha dichiarato (e ormai a 90 anni non si può certo smentire) che “il suo interesse per la politica è iniziato ed è finito a Carmel anche perché per restare un uomo politico si è obbligati a mentire, a perdere l’anima, e io voglio poter dire quel che voglio”. Compreso il fatto “che Obama aveva promesso la chiusura della prigione di Guantanamo e non l’ha fatto”, come ha ricordato in un famoso summit repubblicano, tra l’imbarazzo dei presenti. 

Gli spietati bocciato dalla Mostra di Venezia

Nel 1993 vorrebbe dedicare all’Italia il suo miglior progetto western, “Gli Spietati”, ma la commissione di Gillo Pontecorvo, Irene Bignardi inclusa, boccia il film per la Mostra di Venezia. Noioso, violento …. Clint ci resta molto male, ma si riprende perché per la prima volta vince l’Oscar per il miglior film e la migliore regia dell’anno. L’influenza di Pauline Kael sui nostri critici della sinistra moderata resta fortissima. E sfugge nell’analizzare il film il crepuscolare omaggio a John Ford e l’orrore di una epopea selvaggia dominata dalla violenza e dall’avidità che è all’origine della Nascita di quella nazione. I giovani turchi della new Hollywood, da Spielberg a Lucas, da Scorsese a De Palma, da Coppola a Milius, invece, non lo trattano più da intruso, ma da “diversamente pari” (lui non viene dalle scuole di cinema e dall’illuminazione Godard). Il Los Angeles Times è drasticoi: “si tratta del miglior western dal 1956”. Intanto dopo Kyke e Allison nasce la terza figlia  Francesca, omaggio alla nuova moglie Frances Fisher. Piovono premi e onorificenze da tutto il mondo (prima di tutti la Francia, per merito di Jack Lang) e le cineteche si contendono le sue retrospettive, dove brillano i film seri, come i post western musicali “Bronco Billy” e “Honkytonk Man (Clint aveva già pubblicato un suo long playing country, dal titolo Cowboy Favorite” e ha fatto un incandevole duetto alcoolico con Ray Charles, “Beer to you”), il bio-pic su Charlie Parker “Bird” del 1988  o l’anti razzista e colonialista “Cacciatore bianco cuore nero”, dedicato a John Huston, ma vivono di nuova luce anche i suoi film di genere antico, i polizieschi puri (l’Uomo nel mirino), i western (Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio), i sentimentali (Breezy), gli avventurosi vettisti (Assassinio sull’Eiger), i militari (La recluta, Gunny). Anche la critica cambia atteggiamento e appoggia perfino i suoi film meno facili e più ostili per ritmo, ambiguità e complessità tematica ai format hollywoodiani, da Mezzanotte nel giardino del bene e del male, per esempio, 1997, a Mystic River, 2003, a Million dollar baby, 2004, che non glielo volevano far fare e che invece ha vinto altri due Oscar pesante, miglior film e migliore regia, e il Golden Globe; fino a Gran Torino, 2008, Invictus (su Mandela, 2009)  e J. Edgar (su Hoover e la Cia, 2011, degno del precedente biopic di Larry Cohen).  Il suo corpo, muscolarmente sempre tenuto al massimo, non ha pudore nel mostrare il segno dei tempi. I Cahiers du Cinema che, godardiani da sempre, non hanno mai smesso di tenergli gli occhi addosso, scrivono: “Quel che si vede soprattutto del viso di Eastwood è la vena sporgente sulla destra della fronte. Lui fa il possibile perché si noti e non si osservi che lei”.  Persino il melodramma tra le sue mani ha un che di inquietante e perverso (ma Sirk a inizio carriera lo aveva diretto nel pirandelliano “Come prima… meglio di prima”, 1956). E al giornalista malizioso che si meraviglia di vederlo senza P38 in mano risponde “Mi è già accaduto di montare in macchina e attraversare tutto il paese e poi capita a chiunque di innamorarsi una volta nella vita… e forse anche più di una volta”. Così nel 1993 ha una nuova storia d’amore con la giornalista Dina Ruiz, 35 anni più giovane di lui. Farà con lei il settimo figlio da 5 donne differenti. Continua a dirigere un film all’anno, in genere un thriller e un film “impegnato”… ad oggi sono 41 (50 le produzioni, spesso documentari sul jazz, come quelli su Monk, Dave Brubeck, Johnny Mercer o sui grandi dimenticati colleghi come Budd Boetticher).   Quando, a proposito di Million Dollar Baby un editorialista lo boccia in quanto “pamphlet gauchiste” lui ricorda, da buddista esperto, di “non detestare niente di più degli opposti estremismi” . 

I film del nuovo millennio

con i due oscar per Million Dollar baby 
Così critica esplicitamente  l’aggressione americana in Iraq del 2003 e in America Sniper quasi glorifica il cecchino siriano che è il protagonista-ombra del film e rende omaggio ai soldati giapponesi morti nella seconda guerra mondiale in Lettere da Iwo Jima e alla Corea, regalando una Ford da collezione a un giovane immigrato asiatico (Gran Torino). Negli ultimi anni gira con ancora più foga instant movie ispirati a piccoli grandi eroi della vita quotidiana, da Sully a Ore 15.17 dal Corriere a Richard Jewell e sembra che come John Huston o Manouel de Oliveira finirà i suoi giorni sul set, fa l’endorsement a Bloomberg pur di non votare Trump, affianca David Lynch (un altro conservatore lucido e dissacrante dell’America di oggi) nella sua "fondazione per la pace mondiale e una educazione fondata sulla coscienza"… insomma sembra perfino comprendere qualcosa di quella cultura hippie che meditava trascendentalmente negli anni in cui non aveva proprio il tempo per comprenderla e per sostenerla. Insomma. "Andare sempre avanti, se no si affonda…" seguendo il motto di papà. E "sorprendere a ogni inquadratura, se no il pubblico di distrae e si annoia". Il motto del figlio servizievole. Di Clint figlio di Clinton.


(*) l'articolo saccheggiato e le foto sono tratte dal
volumone "6 mais Le XXI siecle en images" del 2012 

giovedì 21 maggio 2020

Quante stellette a Michel Piccoli?



di Michel Piccoli (*) 

Elogio funebre di Luis Bunuel 







Michel Piccoli in La Via lattea, nel ruolo di De Sade 



Mi dispiace di non essere con voi al fianco di Serge Silberman e di Juan Bunuel. Mi dispiace di essere sollecitato, troppo spesso o forse non abbastanza, a onorare la memoria. di Luis Bunuel.
Odio la morte degli amici.
Quella di Bunuel è strana.
Da parte sua questo è normale. Non morirà mai. 
Siamo dunque condannati a celebrarlo fino alla fine dei tempi. 
Ma che cos'è la fine dei tempi? La morte di Bunuel segna la fine di un tempo? Di un'epoca? No. Egli sarà per sempre un fulmine e un lampo. 
Attraverso la sua vita, attraverso suo incomparabile humour, la sua incomparabile luce, attraverso i suoi film incomparabili, ci illuminerà tutti, i suoi collaboratori, i suoi produttori, i suoi amici e i suoi figli e i suoi spettatori strabiliati e quelli timorosi che non hanno mai osato esserlo. Malgrado tutto questo non gli devo nessun rispetto. Perché? Perché lo sapeva.
Dopo questa mancanza di rispetto ragionata me ne sto zitto ed ecco la conclusione del mio discorso.
Un giorno uno dei nostri amici comuni, il poeta André de Richard, che ammirava, muore. E' d'altronde grazie a lui che diventai amico di Bunuel, questo meticcio grande e superbo (mi tradisco ecco che faccio ancora l'elogio di Luis Bunuel). Dunque questo amico muore. A Bunuel vivo chiedo che parli alla radio del nostro amico morto. E lui mi risponde: "Non parlo mai degli amici morti. Dò loro delle stelle come per i ristoranti: cinque stelle a Sadoul, tre stelle a de Richard".
Rido felice delle parole di Bunuel. E le rispetto. Certo senza rispetto. Quante stelle per don Luis? Si direbbe il titolo di un gioco di società. La società di don Luis è un firmamento.


Da:  L'occhiu anarchico  del cinema. Luis Bunuel (a cura di Valentina Cordelli e Luciano De Giusti) Editrice il Castoro 2001. Pagina 240.

mercoledì 13 maggio 2020

Savelli, la "nostra" casa editrice








di Roberto Silvestri 


Per Giulio Savelli (27 settembre 1941- 12 maggio 2020)

E’ stato il mio primo editore, Savelli. O meglio. E' stato l’editore che per primo ha interpretato la novità culturale anti-establishment dell’Estate Romana di Renato Nicolini.
E ha chiesto alla Cooperativa Massenzio che l’organizzava (prima alla Basilica di Massenzio, poi al Colosseo, poi a Caracalla…) di trasformare in libri effimeri, in libri-gioco, in libri-quiz, sul cinema, sulla cronaca nera, sulla cronaca rosa, sulla televisione, quel doppio gioco dell’immaginario che i megaschermi all’aperto avevano scatenato in termini di desiderio collettivo. Desiderare una città differente attraente e dinamica, dove fosse garantita la libertà di movimento, non solo intellettuale ma ludico o semplicemente fisico (anche prima del Covid 19, come ben sappiamo, non ci si muoveva a Roma) e dove interno ed esterno non fossero separati dalla “linea della povertà”, ma reciprocamente si mischiassero e amalgamassero, proprio come gli spazi “semoventi” di una chiesa barocca, di una facciata borrominiana come di un interno berniniano.
Ma facciamo un salto indietro di 60 anni. Back to the future. 1963…..     


Se Einaudi era l’istituzione culturale centrale e rispettabile, l’equivalente editoriale di Olivetti e di un capitalismo rooseveltiano possibile e consapevole (certo fu un illusione…), Samonà e Savelli, casa editrice romana nata nel 1963 con il boom e le sue disfunzioni tragiche, fu il primo punto di riferimento extraparlamentare della sinistra critica e della controcultura tutta.
Per capirsi in modo cinefilo: se la mega storia del cinema di Georges Sadoul in tanti costosissimi volumi era necessariamente griffata Einaudi, i primi libretti sulfurei sul cinema africano o i fumetti porno che facevano la satira della Hollywood più puritana o i densi saggioni di Pio Baldelli contro il cinema di papà, contro Fellini, Antonioni e Visconti, non potevano che essere “Savelli”.


Molto vicina nello spirito (anche se Savelli era iscritto al Pci) fu la casa editrice romana al neonato Psiup (Partito socialista di unità proletaria) di Basso, Foa, Lussu, Libertini e Ferraris. Il Psiup era la costola di sinistra, ma più che libertaria pluristratificata, a più teste, come l’idra di Lerna, staccatasi dal Psi di Pietro Nenni quando si arrivò al primo governo con la Dc, dunque al riuscito compromesso storico tra componente laica e religiosa dell’arco costituzionale riformista. Era più a sinistra del Pci, il che non era facile da digerire alle Botteghe Oscure.

Samonà e Savelli avrebbe scodellato parallelamente, in piccoli libretti rossi molto vistosi, a basso costo e maneggevoli (facilissimi ci dissero, ad essere presi in prestito) i testi del comunismo eretico e terzomondista, di Trotszy, Castro, Che Guevara, di Socialisme ou Barbarie e dei teorici della IV Internazionale, da Livio Maitan, direttore della rivista “Bandiera Rossa”, a Ernest Mandel, Pierre Frank, Viktor Serge.
Dal punto di vista culturale fu molto importante e scandalosa nel 1964 la pubblicazione di ‘Scrittori e popolo’ dello storico e critico della letteratura anti zdanoviano Alberto Asor Rosa, il professore della Sapienza che svelava il ruolo reazionario di molti romanzieri “impegnati” (a sfruttare le sofferenze dei poveri) e ci metteva definitivamente in guardia dal verismo, dal naturalismo, dal ‘realismo socialista’ e dal populismo, travestimenti del paternalismo cristiano o laico, indifferente all’analisi, interpretazione e soluzione dei nostri più secolari e complessi problemi.

Pasolini (che nel libro non era ignorato) in quegli anni chiamava leader, militanti, simpatizzanti e votanti del Psiup (compreso Asor Rosa:  tutto il 68 italiano, non anarchico, votò Psiup) “stalinisti beat”,  perché pretendevano che gli artisti fossero altrettanto “rivoluzionari” dei politici, incapaci di liberare (come auspicava in quegli anni il Pci di Togliatti) la cultura da ogni legame con la politica. E, conseguentemente, Pasolini criticava le forme più rivoluzionarie dell’epoca: l’astrattismo in pittura, i postdodecafonici in musica e i ‘novissimi’ in letteratura, considerando il Gruppo ’63 di Balestrini e Sanguineti, Luigi Nono e perfino Afro funzionali ai disegni della nuova borghesia neocapitalistica e del proletariato imborghesito, e incapaci di comunicare con i ‘dannati della terra’. Quel che lui cercava era un altro “impegno”. Non avrebbe cambiato idea nemmeno quando divenne direttore responsabile di Lotta Continua.         
Il punto di riferimento romano della cultura antagonista alla metà degli anni 60 (celebri gli happening che vi si svolgevano e coinvolgevano artisti di tutto il mondo in una Capitale allora particolarmente attraente, Grifi e Curran ne aizzarono uno, un altro fu: “Dipingi il tuo poliziotto di giallo”) era la libreria Feltrinelli di via del Babuino, che nella sua vetrina principale scodellava proprio questi libelli rossi esplosivi Samonà e Savelli anche perché nella capitale la componente anti stalinista ed entrista del Pci era stata molto forte, a testimonianza di una egemonia postbellica trotskista, poi epurata nei quadri e nelle idee da Togliatti, dopo il XX congresso kruscioviano del Pcus. Nelle università e nei licei i leader trotskisti erano molto seguiti, come Franco Russo a Lettere e, al Mamiani, o Stefano Poscia (morto molto giovane, a 57 anni nel 2010, dopo assere stato anche molto perseguitato)….

Nel sessantotto, assieme alla milanese Mazzotta, alla veronese Bertani alla barese De Donato e all’emiliana Guaraldi, Samonà e Savelli rappresentò la quinta punta della stella editoriale anti-istituzionale, che assieme alla Feltrinelli di Gian Giacomo tradusse e socializzò i testi più importanti del movimento comunista internazionale non ortodosso, a lungo osteggiati e ‘censurati’. Nel 1969 di  Jacek Kuroń e Karol Modzelewski, uscì Il marxismo polacco all'opposizione, e molto prima di Solidarnosc. Dal 1972 l’Agenda Rossa che scodellò date fondamentali e rimosse dell’insorgenza anti capitalistica mondiale. E nel 1975 Proletari senza rivoluzione in due volumi, contro storia d’Italia di Renzo Del Carria che spero sia presto adottata nelle scuole medie come libro di testo. Giuliana Muscio scrive un saggio sugli sceneggiatori americani e il futuro regista Claver Salizzato sul musical hollywoodiano perché anche se i film delle majors dominano sul mercato mondiale a nessuno è ancora venuto in mente in Italia di studiarli attentamente. Le biblioteche dei militanti e simpatizzanti di Potere Operaio, Il Manifesto, Lotta Continua, Avanguardia Operai e Servire il Popolo (un po’ meno) sono ancora piene di tutti questi preziosi volumi.
Ma intento proprio nel 1968 era uscito dalla società editrice Giuseppe Paolo Samonà ed era entrato Dino Audino (oggi editore specializzato in testi professionali di cinema e teatro, una persona esageratamente parsimoniosa) che avrebbe allineato il cuore della casa editrice piuttosto verso l’area giovanile meno “aristocratica” e elitaria, cioè verso Lotta Continua, la triade controculturale “sesso droga e rock’n’roll”, il primo femminismo, il fronte di liberazione omosessuale, la giovane critica e i narratori “selvaggi”..

La casa editrice cambiò nome, Savelli-La Nuova Sinistra, e iniziò a debordare dalla libellistica politica dogmatico-trotskista verso territori culturali più vasti e politici ancor più radicali. Il fumetto, la canzone popolare, il cinema, Porci con le ali che poi diventa film e trasforma il cantautore Paolo Pietrangeli in regista come suo padre Antonio, e i giovani scrittori della collana “Il pane e le rose”, con le copertine color pastello disegnate dall’artista Pablo Echaurren.  Ecco anche Ombre rosse, rivista nata nel 1967 e diretta da Goffredo Fofi, dove scrivono Rondolino, Tinazzi, Baldelli, Arlorio, Volpi, Gobetti, piuttosto terzomondista e “positifista” che assieme a Filmcritica e Cinema e Film (più spostati verso i Cahiers du cinema) trattano l’aristarchiana Cinema Nuovo come faceva Mario Tronti con Secchia e Scoccimarro. 
  

Sulla rivista mensile che Savelli editava, ‘La Sinistra’, il professore di filosofia Lucio Colletti spiegò come era semplice per tutti fabbricare le bottiglie molotov (molto dopo sarebbe diventato un berlusconiano, dunque rimase coerentemente “devastante”). Savelli così viene espulso finalmente dal PCI. Ma nel 1970 arrivò il suo più grande successo politico-editoriale della sua (e nostra) storia, La strage è di stato (che chiarì definitivamente cosa successe a Milano in piazza Fantana, che Valpreda era innocente e Restivo-Rumor-Andreotti no). Il libro ebbe uno straordinario successo. Nonostante quella Rai e quei mass-media. Ancora non riesco a capire come ha fatto Pietro Valpreda a non essere eletto al parlamento. Prima o poi dal Viminale qualcosa uscirà di certo. In punta di morte, forse qualche usciere …