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domenica 31 maggio 2020

Clint, 90 anni, 70 film da attore, 41 da regista, l'uomo dai due volti



Non mi piace festeggiare gli anniversari, in genere. Ma i 90 anni di un artista così particolare ed estremamente strano come Clint Eastwood che ho avuto il piacere di conoscere a Roma durante la promozione stampa di Bird, che ancora non aveva vinto il Golden Globe come miglior film dell'anno, e soprattutto un bell’articolo di Samuel Douhaire (*) corredato da foto stupende, mi hanno dato la traccia e la  voglia di ricordare alle giovani generazioni perché non possiamo che essere, anche, eastwoodiani.   

Roberto Silvestri 

Clint il bimbo gigante e papà Clinton 
“Non essere mai là dove ti aspettano”. Sarà questo il suo motto per tutta la vita?
Quando nasce, nella clinica San Francesco di San Francisco, lo chiamano “Sansone”. E’ già un fenomeno. Pesa 5,1 kg. E’ talmente gigantesco che merita il primo articolo di un quotidiano, e non ha che 3 giorni di vita. Sarà meglio stargli alla larga...
E’ il primogenito di Margaret Ruth, 21 anni, sua sorella nascerà 4 anni più tardi, e di Clinton (già), travolto dal grande crak. Da agente di borsa cambia lavoro: operaio in una fabbrica di frigoriferi a Spokane e nei cantieri navali di Oakland, vende fac-simili di gioielli  a San Francisco e  fa il pompiere a Los Angeles. “Non era Furore – dirà più tardi in una intervista -  ma neppure il lusso, era un periodo di merda”.

Infanzia e giovinezza 

con la figlia Allison
Cambia 8 volte scuola tra i 6 e gli 11 anni prima di stabilirsi a Piedmont (Oakland),  ma allo studio mentale preferisce quello motorio, il basket e il jazz, e dall’età di 15 anni (tutto sua nonna) si esibisce nel jazz club. Guida prima dell’età legale e la passione per le automobili (la Mercedes di Papa Luciani sarà sua, dopo quella strana morte e poi le Ferrari, poi i pick up …) non lo abbandonerà mai. Sente Parker allo Shrine Auditorium di Los Angeles. Folgorazione, come sappiamo. Occhi azzurro oceano, auto, ragazze e musica. Si diploma. al liceo tecnico a 18 anni (nel frattempo vive a Los Feliz, Los Angeles). Il suo motto è sbrogliarsela da solo. I piccoli lavoretti, come gli ha insegnato papà: macellaio, operaio in una fabbrica di piatti di carta, maestro di nuoto, pompiere, operaio alla Boeing, siderurgico. Fa il servizio militare a Fort Ord, Monterrey. Addestra i soldati a nuotare, ma non parte in Corea per difendere il mondo occidentale dai comunisti. Prende anche una medaglia al merito come caporale ma rischia la vita in un incidente aereo. L’apparecchio cola a picco. Lui si salva, cade nell’oceano ma nuota fino a riva, per 6 km. Si trasferisce a Los Angeles anche se, in licenza militare aveva scoperto Carmel by the Sea e si era ripromesso di stabilirsi lì un giorno se le cose fossero andate bene. 

Clint teenager, suona ilpiano nei  jazz club

Primo matrimonio

Sposa Maggie Johnson, laureata a Berkeley, conosciuta durante la naja nel 1953. Mentre lavora partecipa a corsi serali di arte drammatica. Per caso si trova negli studi Universal perché un’attrice per la quale ha fatto lavoretti in nero deve pagarlo. Lo notano. Diventa figurante. Fa un corso per apprendista attore pagato 75 dollari, impara a cavalcare e a fare il cascatore. Segue scrupolosamente tutte le lezioni, timido e riservato non perde una parola quando attori di fama, come Tony Curtis, raccontano le loro esperienze. E comincia a curare il fisico, ginnastica, pesi. Fa sport. Divide un appartamento con altri attori. Maggie non è che sia proprio al settimo cielo… Continuerà a fare palestra per tutta la vita. Anche in questo momento, credo. Ottiene il suo primo ruolo, Jennings, non accreditato e non proprio indimenticabile, in un film horror, “La vendetta del mostro”, di Jack Arnold (con lui farà anche Tarantula). E’ l’ assistente di uno scienziato e le sue cinque battute lo fanno passare per un imbecille. Siccome anche le dieci partecipazioni successive non sono indimenticabili, per esempio in “Francis in the Navy” sulle avventure di un mulo parlante, a lui e a un altro attore emergente, Burt Reynolds, l’Universal (perspicace) non rinnova il contratto. E’ il momento degli attori torturati e nevrotici come Monty Clift o James Dean, e un minimalista come Cooper o Stewart è fuori gioco e fuori moda. La sua voce è considerata troppo dolce, il suo pomo d’Adamo troppo sporgente. Il produttore-regista Arthur Lubin aveva sentenziato dopo il suo Francis in the Navy e Lady Godiva: ”Non è capace di parlare, ma è bravissimo a stare lì e a non far niente”. Non è del tutto vero. Il sudista razzista e sadico Keith Williams  che adora sparare agli indiani lo sa fare con grinta perversa in “Urlo di guerra degli Apaches” di jodie Copeland (1958). Ma è la televisione che lo salva. E un corso di teatro che segue  serissimamente in quei mesi. La Cbs lo sceglie per la parte di Rowdy, cowboy idealista e servizievole, in “Rawhide”, un feulletton western che apre nel gennaio del 1959.  Impara molto dal regista Charles Marquis Warren  (la serie durerà durerà 7 anni) anche se definirà il suo personaggio “l’idiota della prateria”. 

Sergio Leone e l'esplosione

Un idiota che attira l’attenzione di Sergio Leone in cerca di un ”tipico eroe mitologico americano”, alto, poco caro e con un atteggiamento disinvolto e convincente. La sua prima scelta è Charles Bronson. Ma gli ha detto di no (anche lui molto perspicace). Clint si sbarazza della sua piccola gloria televisiva e gioca d’azzardo. Lancia i dadi. Vince o perde? Vince. Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono il brutto e il cattivo diventano immediatamente dei successi internazionali e dopo un po’ di “sbarramento da panico”, Hollywood come si sa è micragnosamente protezionistica, conquistano perfino i mercati nordamericani.  Leone mostra il vero volto dell’eroe western, sporco, rozzo, mal rasato, violento e subdolo proprio come i suoi nemici cattivi (gli assassini, gli indiani, i messicani, i californios…) . “L’uomo senza nome” è vero che difende gli oppressi, le donne, gli orfani e le vedove. Ma lo fa per denaro.  Con i soldi italiani meritati per chi ha inventato, con Leone, un nuovo genere, il western spaghetti (che per qualche anno salverà l’industria del cinema nazionale in perenne crisi e senza strutture adeguate), contribuendo anche al suo stile quasi “muto”, a una dizione quasi soffiata tra i denti e al sincretismo iconico (il poncho messicano, i jeans Levi slavati, il vecchio cappello da cowboy, il sigaro toscano  e gli stivali da telefilm), Clint compra il ranch dei suoi sogni a Carmel, con una dozzina di ettari di terre coltivate. Viene chiamato da tutte le majors. E nasce il figlio Kyle mentre lui è a Londra per girare un kolossal di guerra, Dove osano le aquile di Brian Hutton (1968) nel ruolo di Shaffer. Fa a gara con Warren Beatty come collezionista di belle donne o meglio diventa una preda maschile appetibile per Inger Stevens (Impiccatelo più in alto), Jo Ann Harris (La notte brava del soldato Jonathan), Jean Seberg (La ballata della città senza nome)… 

Nascita di un regista

grazie Don Siegel!
Rientrato negli Stati Uniti ritraduce l’uomo senza nome per il paesaggio storico non solo geografico americano dell’epoca Vietnam, assieme a Ted Post e soprattutto al suo vero maestro in “formulazione d’immagine dinamica”, Don Siegel. L’eroe è sempre chi, accusato a torto di un crimine, si fa giustizia, senza pietà. Ma non c’è nessun culto per la violenza, come nelle parallele apologie dei giustizieri della notte. C’è una consapevolezza così trasparente dei meccanismi profondi che proteggono il mito americano dalla sua così mostruosa verità (genocidio originale dei nativi, imperialismo, razzismo, schiavismo…) che i combattimenti di Clint contro i prepotenti di turno, in genere organizzati in gang o in squadroni della morte, diventano pure astrazioni logiche, come è il teorema Callaham. “La cosa più difficile al mondo è di non fare niente e di farlo meravigliosamente”. 
L’attore decide di restare proprietario della sua carriera, non come è successo a Elvis Presley, non come successe a Buster Keaton, piuttosto imitando Robert Aldrich (che si è comprato addirittura i suoi studi) o Jerry Lewis. Fonda la sua casa di produzione, la Malpaso, il ‘sentiero sbagliato, cattivo’. Passa dietro alla macchina da presa e sviluppa i suoi progetti. Ama soprattutto le storie molto dark, dove i confini del bene e del male si confondono ma lui e il suo pubblico riescono a seguire sempre un filo morale, e a dare alle immagini un senso potente di ciò che è bene e di ciò che è male. Insomma approdano al giudizio (direbbe Kant) pratico”.

Sesta regia, Il terranno dagli occhi di ghiaccio, 1976
“Ne sapevo abbastanza per sviluppare progetti miei e ottenere quello che voglio dagli attori”, dichiarerà al Los Angeles Times. Ha imparato sul set di Rawhide a girare velocemente, a non sprecare un dollaro, a ottimizzare il tempo. La sua opera prima piuttosto autobiografica (il jazz, le donne, la California) Play Mitsty for me (in Italia “Brivido nella notte”) costato pochissimo, meno di un milione di dollari, incasserà 5 volte quella cifra e finisce le riprese con due giorni di anticipo. Come molti altri cineasti indipendenti della sua generazione, il newyorkese Martin Scorsese o Francis Ford Coppola, Clint dividerà i suoi progetti futuri tra piccoli film a rischio e lavori commerciali a budget più alto che faranno felice la WB. Anche il suo personaggio di duro puro viene messo in discussione, sconfina per psicopatologia con il cattivo che affronta, e diventa quasi un suo doppio, muore di tisi, è prepotente a volte, gli amputano la gamba, viene perfino quasi “violentato” da una donna (Sonia Braga in La recluta). 

Perché Callahan non è un fascista

con la prima moglie 
Sconvolge la sua nemica, la critica tipicamente new yorker Pauline Kael, che emette la sentenza:  “Clint non è un attore, quindi è difficile dire che è un cattivo attore”. Si scatenerà contro Eastwood quando Don Siegel lo porta al trionfo con il primo Callagham. “Fascismo. Si glorifica chi si sbarazza della legge per eliminare un criminale seriale... Un film immorale”. Ma Clint risponde. No. E’ moralissimo. Abbiamo vinto la seconda guerra mondiale contro il nazismo. E impiccato i gerarchi di Hitler. Siamo sicuri che sia stato un processo “giusto”? Non è stato un po’ illegale? Ma non abbiamo forse fatto bene? Io mi sono ispirato al principio di Norimberga. Eseguire un ordine immorale, anche se legale, non è mai consentito. Come poliziotto di quel film, se avessi seguito la legge, sarei stato del tutto immorale. Che Callaghan non fosse “lo strumento  perfetto per fare la propaganda in favore di una polizia parallela” lo spiegherà molto bene negli episodi successivi. Intanto il Nouvel Observateur  lo chiama già “nazi” e la rivista Positif nata nel 1952 per difendere il cinema americano impegnato definisce “Impiccalo più in alto” il “Mein Kampf del West”. Persino la rivista “Life”, costretta a registrarne il grande successo al botteghino titola: “La vedette più amata al mondo è – non ridete – Clint Eastwood”. In Magnum Force di Ted Post in faccia ai suoi detrattori, qui descritti come uno squadrone della morte parallelo alla polizia di San Francisco, Callagham dice: “Credo che vi siate sbagliati sul mio conto…”. 16 anni dopo a Cannes Pale rider convincerà anche i più tardi di comprendonio. Individualismo radicale e fascismo sono un ossimoro. 

Ma quando vota sbaglia sempre 

Chi vota democratico può essere più che razzista (ricordate Lincoln?). Clint difficilmente voterebbe democratico, ma quando vota Eisenhower il neoeletto presidente chiude con la guerra in Corea, Nixon apre alla Cina, Reagan “apre” l’Urss…. Voti di scenario. Certo, c’è Trump. Qui emerge tutto l’odio di un americano fisiologicamente “anti monarchico” per lo stato provvidenza, per Roosevelt il “traditore socialisteggiante” e il suo new deal. Eppure per quanto riguarda i temi sociali Clint è per i diritti della donna, per l’aborto e per l’eutanasia e per il controllo nella vendita di armi, combatte il razzismo nei suoi film e in tutte le sue dichiarazioni pubbliche e la sua vita privata ha di che scandalizzare qualunque bigotto conservatore di destra per le sue relazioni extraconiugali mai nascoste (Sondra Locke e Maggie Eastwood, Frances Fisher e Sondra Locke…). Nel 1997 l’attrice Sondra Locke, con la quale avrà una relazione anche artistica dal 1972 al 1984, scriverà un libro sulla sua burrascosa relazione con Eastwood accusandolo di essere un super macho e soprattutto un bel tirchio. Non pagava mai il conto al ristorante per tutti e due. Nel 1986 diventa sindaco per 2 anni di Carmel con il 72,5% dei voti (Norman Mailer, che se ne intendeva, non ha forse scritto che Clint ha un “viso da Presidente”?) per fermare una speculazione edilizia a Carmel by.the-sea, e ottenere una licenza edilizia che impedisca la costruzione sul mare di una serie di tremende villette a schiera che avrebbero deturpato il paesaggio sul mare presso la Missione spagnola del ‘500. Chi adesso si reca sul posto e alloggia al (suo) Mission Ranch si renderà conto di quello che il nostro autore, ecologista, ha salvato. Oltretutto non è un hotel di lusso, i suoi costi sono abbordabili. Ma Clint ha dichiarato (e ormai a 90 anni non si può certo smentire) che “il suo interesse per la politica è iniziato ed è finito a Carmel anche perché per restare un uomo politico si è obbligati a mentire, a perdere l’anima, e io voglio poter dire quel che voglio”. Compreso il fatto “che Obama aveva promesso la chiusura della prigione di Guantanamo e non l’ha fatto”, come ha ricordato in un famoso summit repubblicano, tra l’imbarazzo dei presenti. 

Gli spietati bocciato dalla Mostra di Venezia

Nel 1993 vorrebbe dedicare all’Italia il suo miglior progetto western, “Gli Spietati”, ma la commissione di Gillo Pontecorvo, Irene Bignardi inclusa, boccia il film per la Mostra di Venezia. Noioso, violento …. Clint ci resta molto male, ma si riprende perché per la prima volta vince l’Oscar per il miglior film e la migliore regia dell’anno. L’influenza di Pauline Kael sui nostri critici della sinistra moderata resta fortissima. E sfugge nell’analizzare il film il crepuscolare omaggio a John Ford e l’orrore di una epopea selvaggia dominata dalla violenza e dall’avidità che è all’origine della Nascita di quella nazione. I giovani turchi della new Hollywood, da Spielberg a Lucas, da Scorsese a De Palma, da Coppola a Milius, invece, non lo trattano più da intruso, ma da “diversamente pari” (lui non viene dalle scuole di cinema e dall’illuminazione Godard). Il Los Angeles Times è drasticoi: “si tratta del miglior western dal 1956”. Intanto dopo Kyke e Allison nasce la terza figlia  Francesca, omaggio alla nuova moglie Frances Fisher. Piovono premi e onorificenze da tutto il mondo (prima di tutti la Francia, per merito di Jack Lang) e le cineteche si contendono le sue retrospettive, dove brillano i film seri, come i post western musicali “Bronco Billy” e “Honkytonk Man (Clint aveva già pubblicato un suo long playing country, dal titolo Cowboy Favorite” e ha fatto un incandevole duetto alcoolico con Ray Charles, “Beer to you”), il bio-pic su Charlie Parker “Bird” del 1988  o l’anti razzista e colonialista “Cacciatore bianco cuore nero”, dedicato a John Huston, ma vivono di nuova luce anche i suoi film di genere antico, i polizieschi puri (l’Uomo nel mirino), i western (Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio), i sentimentali (Breezy), gli avventurosi vettisti (Assassinio sull’Eiger), i militari (La recluta, Gunny). Anche la critica cambia atteggiamento e appoggia perfino i suoi film meno facili e più ostili per ritmo, ambiguità e complessità tematica ai format hollywoodiani, da Mezzanotte nel giardino del bene e del male, per esempio, 1997, a Mystic River, 2003, a Million dollar baby, 2004, che non glielo volevano far fare e che invece ha vinto altri due Oscar pesante, miglior film e migliore regia, e il Golden Globe; fino a Gran Torino, 2008, Invictus (su Mandela, 2009)  e J. Edgar (su Hoover e la Cia, 2011, degno del precedente biopic di Larry Cohen).  Il suo corpo, muscolarmente sempre tenuto al massimo, non ha pudore nel mostrare il segno dei tempi. I Cahiers du Cinema che, godardiani da sempre, non hanno mai smesso di tenergli gli occhi addosso, scrivono: “Quel che si vede soprattutto del viso di Eastwood è la vena sporgente sulla destra della fronte. Lui fa il possibile perché si noti e non si osservi che lei”.  Persino il melodramma tra le sue mani ha un che di inquietante e perverso (ma Sirk a inizio carriera lo aveva diretto nel pirandelliano “Come prima… meglio di prima”, 1956). E al giornalista malizioso che si meraviglia di vederlo senza P38 in mano risponde “Mi è già accaduto di montare in macchina e attraversare tutto il paese e poi capita a chiunque di innamorarsi una volta nella vita… e forse anche più di una volta”. Così nel 1993 ha una nuova storia d’amore con la giornalista Dina Ruiz, 35 anni più giovane di lui. Farà con lei il settimo figlio da 5 donne differenti. Continua a dirigere un film all’anno, in genere un thriller e un film “impegnato”… ad oggi sono 41 (50 le produzioni, spesso documentari sul jazz, come quelli su Monk, Dave Brubeck, Johnny Mercer o sui grandi dimenticati colleghi come Budd Boetticher).   Quando, a proposito di Million Dollar Baby un editorialista lo boccia in quanto “pamphlet gauchiste” lui ricorda, da buddista esperto, di “non detestare niente di più degli opposti estremismi” . 

I film del nuovo millennio

con i due oscar per Million Dollar baby 
Così critica esplicitamente  l’aggressione americana in Iraq del 2003 e in America Sniper quasi glorifica il cecchino siriano che è il protagonista-ombra del film e rende omaggio ai soldati giapponesi morti nella seconda guerra mondiale in Lettere da Iwo Jima e alla Corea, regalando una Ford da collezione a un giovane immigrato asiatico (Gran Torino). Negli ultimi anni gira con ancora più foga instant movie ispirati a piccoli grandi eroi della vita quotidiana, da Sully a Ore 15.17 dal Corriere a Richard Jewell e sembra che come John Huston o Manouel de Oliveira finirà i suoi giorni sul set, fa l’endorsement a Bloomberg pur di non votare Trump, affianca David Lynch (un altro conservatore lucido e dissacrante dell’America di oggi) nella sua "fondazione per la pace mondiale e una educazione fondata sulla coscienza"… insomma sembra perfino comprendere qualcosa di quella cultura hippie che meditava trascendentalmente negli anni in cui non aveva proprio il tempo per comprenderla e per sostenerla. Insomma. "Andare sempre avanti, se no si affonda…" seguendo il motto di papà. E "sorprendere a ogni inquadratura, se no il pubblico di distrae e si annoia". Il motto del figlio servizievole. Di Clint figlio di Clinton.


(*) l'articolo saccheggiato e le foto sono tratte dal
volumone "6 mais Le XXI siecle en images" del 2012 

mercoledì 6 luglio 2016

Eli Wallach, il cardinale di Hollywood, a due anni dalla morte

di Roberto Silvestri


E' morto a 98 anni il cattivo piu' affasciante del cinema moderno. Ma forse neppure il ruolo di villain perfetto lo caratterizza. Era molto di piu'. Infatti.
C'e' il buono, c'e' il cattivo e c'era Eli Wallach. L'attore
nordamericano, morto ieri a 98 anni nella sua casa di Manhattan,
dopo oltre 70 anni di intensa carriera teatrale, cinematografica e
televisiva - che molto deve anche alla formidabile scena italiana
degli anni 60 e 70 - possedeva infatti un dono speciale, davvero
originale, ingigantito, sul grande schermo, da una sublime tecnica
microgestuale.
E non era certo la “bruttezza” a definirne il tipo, per
quanto interiore, come nel classico di Sergio Leone. Se ne resero
conto tanti registi di qualita', che lo veneravano, da John Huston a
Richard Brooks, da Don Siegel a William Wyler, da Skolimowski a
Polanski, fino a Clint Eastwood che lo ha voluto di nuovo complice,
come ai vecchi tempi del western spaghetti, in Mystic River.
Wallach rendeva complessi, sconcertanti e pieni di sfumature destabilizzanti
personaggi di insuperabile immoralita' e disumanita'. Per quanto
fosse mafioso, bandito, ladro, assassino, pedofilo, trafficante di
droga, e perfino “The Freeze”, uno degli acerrimi nemici di un
Batman del 1966, il mega-caratterista Wallach era un professionista
del crimine 'charmant', non solo vivo, reale e umano, ma seducente,
e in maniera scandalosa. Certo, il Metodo aiutava. Da allievo di
Stanislavsky e Lee Strasberg sapeva come rappresentare,
esteriormente, i traumi piu' nascosti, i piaceri colpevoli eimisteri
dell'inconscio. A John Sturges strappo' il permesso di indossare una
sciarpa di seta, di cavalcare un bel destriero e di sbandierare due
denti d'oro per caratterizzare, indelebilmente, il suo bandito Calvera.
Mai uno stereotipo o una caricatura venivano scarabocchiati da
quegli occhi intensi e penetranti, radianti ambiguita', astuzia,
sarcasmo, sadismo e giocondita' infantile, istintiva e pre-morale...
Per questo c'era anche piu' gusto nell'annientarlo. E non era facile. 
“Eli era una combinazione adorabile di furia e scaltrezza”, come ha
scritto il critico e storico del cinema statunitense Richard Schickel.
In un western-spaghetti cercarono invano di impiccarlo ben 4
volte...Bisognava inventare altre generazioni di 'buoni' per abbattere
le sue creature maligne, di nuova concezione - non piu' come i cattivi
maneggevoli della tradizione classica di una volta, da Fernando
Sancho a Jack Palance, da Richard Boone a Henry Silva - ricorrendo
magari a Clint Eastwood, il giustiziere spettrale venuto dall'oltre
spazio. E per tutte queste qualita' L'Academy nel 2010 conferi' un
Oscar onorario a Eli Wallach. Anche perche' quello vero e proprio lui
l'aveva buttato via nel 1953, quando preferito da Fred Zinneman a
Frank Sinatra per il ruolo di Maggio in Da qui all'eternita', disse:
“no, grazie” e invece sali' sul palcoscenico, senza peraltro mai
pentirsene, per un allestimento di “Camino real” diretto da Elia
Kazan.
Presenza fissa della tv americana, tra tv movies, show e serie (in Our Family Honor interpretava un boss mafioso), vinse un Tony
per The Poppy Is Always a Flower, fu adorato soprattutto sulla
scena di Broadway, che lo premio' nel 1951 con un Tony Award per La rosa tatuata di Tennessee Williams, e di off-Broadway, dove
trionfo' nel 1946 con This property is condamned dello stesso
drammaturgo gay e decadente, Williams, con al fianco una giovane
attrice irlandese dai capelli rossi di nome Anne Jackson, che divenne
sua moglie dal 1948 in poi. Un coppia fedele anche sulla scena,
particolarmente affiatata nell'allestimento dei classici di Ionesco (Il
rinoceronte
), Murray Schisgal, come Luv o The Typist and The
Tiger,
Jean Anouilh (era il generale francese di Waltz of Toreadors) e
del teatro yiddish (Cafe' Crown di Hy Kraft). A teatro prediligeva
ruoli di piccoli uomini qualunque, irritati e incompresi.
Ma sono i ruoli cinematografici, piu' incisi e fiammeggianti, che lo
hanno reso celebre nel mondo. E anche pericoloso per la censura. In
particolare quando Elia Kazan, fresco di delazione contro i comunisti, e dunque intoccabile, irrito' tutti i reazionari d'America, la
chiesa cattolica e anche il critico del New York Times Bosley
Crowthers, realizzando, da un dramma ad alta suggestione carnale di
Tennessee Williams, “il piu' controverso film degli anni 50”, o come
lo defini' Time Magazine “il film piu' sporcaccione e moralmente
repellente mai distribuito nel normale circuito di sale degli Stati
Uniti”. Kazan volle Wallach (dopo il rifiuto di Marlon Brando) per
impersonare il personaggio piu' conturbante e dionisiaco,
l'immigrato siciliano Silva Vaccarro che seduce una minorenne
bionda del sud, lolita sposata a un ricco proprietario terriero,
frustrato sessualmente, ma ancora vergine e ritardata mentale (Carrol
Baker) in Baby Doll (1956), che resta il film preferito in assoluto da
Wallach (e che gli valse un Globo d'oro). Quella devastante bomba
d'immaginario, metafora dell'incestuoso e esangue razzismo sudista,
contribui' allo smantellamento dell'ormai inservibile e bigotto codice
Hays. L'interpretazione di Wallace che resta invece la piu' alta,
sovversiva e sottovalutata a livello critico e' quella del sicario
Dancer in The line up (1958) del liberal-radical Don Siegel (a
seconda dell'umore giornaliero), un giallo in bianco e nero che in Italia usci' con
il titolo Crimine silenzioso. Traffico di droga a San Francisco.
L'organizzazione nasconde la cocaina nei bagagli di inconsapevoli
turisti, che poi vengono derubati e assassinati uno a uno. Ci pensa
Dancer alla parte sporca del mercato. Con un sadismo talmente
estremo e consapevole da svelare via via come sia mostruosa l'intera
logica capitalistica basata sull'ottimizzazione del profitto con ogni
mezzo necessario. Non a caso perfino il piu' perverso e sadico dei
killer, come Dancer, alla fine non puo' che ritrovare un briciolo di
umanita' e ribellarsi a un meccanismo cinico e astrattamente
criminale, assassinando il 'grande capo', anzi scaraventandolo giu' da
una balaustra con tutta la sua sedia a rotelle, dopo che gli ha ordinato
la condanna a morte di una ragazzina colpevole di aver scambiato la
cocaina trovata nei suoi bagagli con dell'ottima, paradisiaca, cipria da trucco.
Tanto perfetta da averla usata proprio tutta tutta.... Questa volta la
metafora e' ancora piu' radicale. E sara' la censura critica e il
"politicamente corretto" a nascondere questo capolavoro noir nel
dimenticatoio. Piu' ricordate invece le sue interpretazioni western: il
bandito messicano Calvera dei “Magnifici sette” (1960) e soprattutto lo sdrucito Tuco, the ugly, quasi un giocattolo malvagio sprizzante
energia insana di Il buono, il brutto e il cattivo (1966) che fu
certamente della trilogia dei “dollari” di Sergio Leone quella che
incasso' di piu' in tutto il mondo, fu utilizzata da Bob Kennedy nella
campagna presidenziale per definire e inacidire i suoi avversari
politici, e' entrata nelle antologie per il duello a tre finale e ispiro'
anche il titolo dell'autobiografia di Wallach The Good, the Bad and
Me: In My Anecdotage
scritta nel 2005. In questi quattro lavori
Wallach allargava la fenomenologia del Male, ne facevano danzare i
chiaroscuri contagiando i personaggi, anche piu' 'immacolati', con
potenza virale. E forzava i confini di cio' che consideriamo 'umano' o
degno comunque di compassione cristiana. Sara' che la fede ebraica
di famiglia lo obbligava a fare i conti con una griglia di
comandamenti etici molto piu' analitica delle altre religioni, anche
laiche, con quegli oltre 600 divieti, e dunque anche con un culto
del dettaglio peccaminoso piu' perverso. In molti film indipendenti
Wallach fa non a caso il rabbino. Indimenticabile, per esempio, in
una commedia femminista troppo dimenticata, Girlfriends, di
Claudia Weil (1978).
Wallach, che era nato a Red Hook, il quartiere sul mare di Brooklyn,
tutto italiano, almeno allora, nel 1915, tranne la sua famiglia ebrea
polacca, e che si e' laureato in storia e arte a Austin, Texas, dove era
amico e compagno di corsi di Ann Sheridan e Walter Cronkite, e ha
studiato alla Neighborhood Playhouse School of Theatre di New
York, e' stato capace di cancellare, tra drammi teatrali molto adulti,
Baby Doll e i western spaghetti - girati con Tessari, Colizzi e Sergio
Corbucci dopo il litigio con Leone e alcuni incidenti di set estremamente pericolosi - la dicotomia bene/male perfino nel cinema
hollywoodiano, cosi' permaloso dei suoi standard e del suo canone
scientificamente commerciale. Basti ricordare Gli spostati di Huston,
con la collega di Actors Studio Marilyn Monroe (1961); Lord Jim di
Richard Brooks; Come rubare un milione di dollari e vivere felici di
William Wyler (1966) e il suo Don Altobello, il boss mafioso
avvelenato col dessert in Padrino parte III di Coppola (1990). Lo
stereotipo manicheo che illumina l'eroe e sprofonda nelle tenebre il
maligno antagonista, lui l'ha reso non solo meno banale, ma proprio
inefficace. “Voi forse non avete mai ucciso una mosca in vita vostra?
Ebbene e' un omicidio, no?”. Verrebbe proprio da intonare in suo
onore quell'antica e blasfema canzoncina romanesca che sbeffeggia
gli ipocriti e che in fondo era, del western di Leone, la morale
profonda: “E' morto un Cardinale che ha fatto bene e male. Il mal
l'ha fatto bene, e il ben l'ha fatto male”.


domenica 29 giugno 2014

50 anni fa circa, quando il cinema italiano era amato in tutto il mondo. Per qualche dollaro in piu'.


Roberto Silvestri


Un buono contro due cattivi. Che poi diventa: due buoni contro un cattivo. Nel 1965 Sergio Leone cambia co-sceneggiatore e produttori per replicare e ampliare il successo e le ambizioni spettacolari e culturali di Per un pugno di dollari, primo titolo Il magnifico straniero, un distillato unico, che gia’ era nato dalla fortunata e bel calibrate fusione tra Yojimbo di Kurosava, Red Harvest di Hammett e Arlecchino, servo di due padroni di Goldoni oltre a Iliade, Odissea, Shane e un bel po’ di Shakespeare. Dopo una ventina di tentativi sfortunati a Cinecitta`, dalla contaminazione tra epica e mito nel mondo classico, in sostanza dal peplum, di cui Bob Robertson era maestro, e western Americano doc, era stato isolato un prototipo fertile che sorprese tutti. Originale e adorato a tal punto che il nomignolo dispregiativo (e anche un po’ razzista) che lo voleva esorcizzare, “western spaghetti”, sarebbe diventato a poco a poco un sopraffino marchio di qualita’. Non furono soltanto i giochi artificiali formalisti a incantare critici e pubblico di tutto il mondo, e per dieci anni. O il fatto che un film costato 120 milioni di lire riuscisse a incassare oltre 5 miliardi. Certo: ritmo, prosodia, metrica, costruzione narrative, organizzazione temporale e rapporto tra dettaglio dilatato e campo lungo necrofilo, tra soggetto e paesaggio, tutto veniva modificato e tutto veniva decostruito, capovolto e ricomposto. Per esempio. Il western classico, come un poema epico, ha un climax e un eroe. Nel nostro western, come nello spettacolo pirotecnico, la tensione e’ scaricata blocco dopo blocco,  in ciascuna unita’ narrativa, prima del gigantesco botto finale. E il super cinismo che permea tutto al massimo produce un “quasi eroe”.  A Hollywood, ma non ad Almeria, era proibito - apoteosi dell’ipocrisia compassionevole - che chi spara e chi viene ucciso venissero inclusi nella stessa inquadratura. La versione italiana del selvaggio southwest e’ totalmente fuori contesto, prescinde completamente dalla realta’ storico-politica, per esempio dal genocidio programmato dei nativi; isola il protagonista, che non ha piu’ alcun rapporto con lo spazio circostante. Il paesaggio non e’ affatto quello pieno di speranza del classicismo western. Sergio Leone, a proposito della sua differenza con John Ford, dichiarava: “Lui era ottimista, io sono pessimista. I suoi personaggi aprono la finestra e scrutano sempre, alla fine, un orizzonte pieno di speranze, I miei quando aprono la finestra hanno sempre paura di ricevere una palla in mezzo agli occhi”. Ma non bastava neanche spogliare il grande Mito del West e della Conquista dalla sua sacralita’ o psudomoralita’: quella tensione biblica verso la frontiera, da scavalcare progressivamente perche’ la libera iniziativa trionfasse, per gli unti dal Signore, quel viaggio collettivo verso la terra promessa, proprio in quel momento stava subendo una bella battuta d’arresto in Vietnam, Laos e Cambogia. L’iper-violenza, con quel pizzico di ironia in piu’, tanto per esagerarla, stava diventando la forma abituale di comunicazione. A Trastevere quanto nei ghetti insorti di Watts e Newark. E se godiamo dei blockbuster digitali di oggi non si puo’ dire che la lezione del western all’italiana non abbia lasciato, proprio mezzo secolo fa, tracce profondo nell’immaginario del XXI secolo. Al “muscle power” dell’eroe che vince elegantemente ai pugni nello scontro uomo a uomo, si e’ sostituito da tempo, come ricordava Gian Piero Brunetta nella sua Storia del cinema italiano, il “gun power” o meglio il “machine gun power”. Un numero indefinite di croci sara’ il paesaggio naturale del dopo-western spaghetti, e non solo di Il buono, il brutto e il cattivo… Dunque non interessa la realta’ della cronaca americana, ma il realismo si’. Se in L’uomo che uccise Liberty Valance si spiega che va pubblicato il mito, e non la verita’, Leone butta via il mito e stampa la verita’. Per esempio che e’ meglio sparare alle spalle, perche’ cosi’ si uccideva, per lo piu’, nel West. E per avidita’, piu’ che per fondare la Legge. Sono Vera Cruz e The Bravados i film a cui Vincenzoni questa volta si ispira. Western sui bounty killer, sui bounty hunter. L’analisi tra crescita dei profitti nell’industria militare italiana e della ditta Beretta in particolare, e spaghetti-western, che io chiamerei in modo filologicamente piu’ corretto, i Beretta Western, non e’ poi ancora stato fatto. Ma le armi dei film di Leone proprio dalla provincial di Brescia arrivano. Sono i nostri artigiani che producono i facsimile delle colt 45 e dei Winchester ‘94 che tanto adorano i fan dei western spaghetti come i collezionisti statunitensi di armi alla John Milius. Ma torniamo a Per qualche dollaro in piu’. Proprio in quei mesi Dino De Laurentiis aveva scritturato Burt Reynolds per Navajo Joe, chiedendo a Sergio Corbucci che si uccidessero nel film almeno 245 persone. Doveva essere un’ossessione, negli anni del boom, la crescita demografica….Sergio leone invece chiama il dottor Luciano Vincenzoni (La grande Guerra, Sacco e Vanzetti…) alla macchina da scrivere, al posto di Duccio Tessari e l’avvocato napoletano Alberto Grimaldi, neofita ma dal fiuto eccellente, sostituisce, al fianco dello spagnolo Arturo Gonzales, il duetto Papi/Colombo a cui Leone rimprovera di averlo fatto fuori dai profitti del primo film. Grimaldi invece offre a Leone 50% per uno sugli incassi. Che supereranno quelli di Per un pugno di dollari anche se il budget sara’ del 200% superiore. Clint si fida di Leone, e accetta subito di firmare per la parte del Monco, una volta letto il copione. Studiando poi il doppiaggio di Enrico Maria Salerno, narra la leggenda, comincera’ a imitarlo e a diventare, nel ritmo lento dell’eloqui “Clint Eatswood” come lo conosciamo tutti. Per tenere testa all` “uomo senza nome” viene ripescato negli Stasti Uniti, Lee Marvin non e’ disponibile, un attore gia’ in pensione dopo un incidente d’auto, e che viene strappato ai suoi pennelli, Lee Van Clift, scelto per il ruolo del Colonnello Mortimer. Due cacciatori di taglie, stilisticamente e caratterialmente inconciliabili, fanno squadra controvoglia per catturare un bandito sadico e piuttosto vizioso, El Indio, grande fumatore di erba. Gian Maria Volonte’ fa cose ai limiti della censura (anzi la pistola benedetta nell’acqua santa prima di assassinare vecchi e bambini la vedono solo all’estero) e del ridicolo (quando si fa le canne Leone alza i filtri scarlatti, come se si trattasse di Lds o di Reefer Madness). Ma la trama e’ molto meno interessante del fiammeggiante sfoggio di invenzioni visuali – per esempio I primissimi piani sul calico delle pistole, il dettaglio del grilletto… -  e di controtempi diversamente spettacolari come le lunghe pause, a cui e’ affidato il compito di allungare uno script semplificato e di permettere alle musiche di Ennio Morricone di dispiegare tutta la sua potenza visionaria. Il duello finale, per esempio, che coinvolge tutti e tre i protagonisti, e’ filmato come se facesse parte di una liturgia religiosa.