Roberto Silvestri
Un buono contro due cattivi. Che poi diventa: due buoni
contro un cattivo. Nel 1965 Sergio Leone cambia co-sceneggiatore e produttori per
replicare e ampliare il successo e le ambizioni spettacolari e culturali di Per un pugno di dollari, primo titolo Il magnifico straniero, un distillato
unico, che gia’ era nato dalla fortunata e bel calibrate fusione tra Yojimbo di Kurosava, Red Harvest di Hammett e Arlecchino, servo di due padroni di Goldoni oltre a Iliade, Odissea, Shane e un bel po’ di Shakespeare. Dopo una
ventina di tentativi sfortunati a Cinecitta`, dalla contaminazione tra epica e mito nel mondo classico,
in sostanza dal peplum, di cui Bob Robertson era maestro, e western Americano
doc, era stato isolato un prototipo fertile che sorprese tutti. Originale e
adorato a tal punto che il nomignolo dispregiativo (e anche un po’ razzista)
che lo voleva esorcizzare, “western spaghetti”, sarebbe diventato a poco a poco
un sopraffino marchio di qualita’. Non furono soltanto i giochi artificiali
formalisti a incantare critici e pubblico di tutto il mondo, e per dieci anni. O
il fatto che un film costato 120 milioni di lire riuscisse a incassare oltre 5
miliardi. Certo: ritmo, prosodia, metrica, costruzione narrative,
organizzazione temporale e rapporto tra dettaglio dilatato e campo lungo
necrofilo, tra soggetto e paesaggio, tutto veniva modificato e tutto veniva
decostruito, capovolto e ricomposto. Per esempio. Il western classico, come un
poema epico, ha un climax e un eroe. Nel nostro western, come nello spettacolo
pirotecnico, la tensione e’ scaricata blocco dopo blocco, in ciascuna unita’ narrativa, prima del gigantesco botto
finale. E il super cinismo che permea tutto al
massimo produce un “quasi eroe”. A Hollywood , ma non ad Almeria ,
era proibito - apoteosi dell’ipocrisia compassionevole - che chi spara e chi viene
ucciso venissero inclusi nella stessa inquadratura. La versione italiana del selvaggio southwest e’
totalmente fuori contesto, prescinde completamente dalla realta’ storico-politica,
per esempio dal genocidio programmato dei nativi; isola il protagonista, che
non ha piu’ alcun rapporto con lo spazio circostante. Il paesaggio non e’ affatto
quello pieno di speranza del
classicismo western. Sergio Leone, a proposito della sua differenza con John
Ford, dichiarava: “Lui era ottimista, io sono pessimista. I suoi personaggi
aprono la finestra e scrutano sempre, alla fine, un orizzonte pieno di
speranze, I miei quando aprono la finestra hanno sempre paura di ricevere una
palla in mezzo agli occhi”. Ma non bastava neanche spogliare il grande Mito del
West e della Conquista dalla sua sacralita’ o psudomoralita’: quella tensione
biblica verso la frontiera, da scavalcare progressivamente perche’ la libera
iniziativa trionfasse, per gli unti dal Signore, quel viaggio collettivo verso
la terra promessa, proprio in quel momento stava subendo una bella battuta
d’arresto in Vietnam , Laos e Cambogia.
L’iper-violenza, con quel pizzico di ironia in piu’, tanto per esagerarla, stava
diventando la forma abituale di comunicazione. A Trastevere quanto nei ghetti
insorti di Watts e Newark .
E se godiamo dei blockbuster digitali di oggi non si puo’ dire che la lezione del western all’italiana
non abbia lasciato, proprio mezzo secolo fa, tracce profondo nell’immaginario
del XXI secolo. Al “muscle power” dell’eroe che vince elegantemente ai pugni
nello scontro uomo a uomo, si e’ sostituito da tempo, come ricordava Gian Piero
Brunetta nella sua Storia del cinema
italiano, il “gun power” o meglio il “machine gun power”. Un numero
indefinite di croci sara’ il paesaggio naturale del dopo-western spaghetti, e non solo di Il buono, il brutto e il cattivo… Dunque
non interessa la realta’ della cronaca americana ,
ma il realismo si’. Se in L’uomo che
uccise Liberty Valance si spiega che va
pubblicato il mito , e non la verita’, Leone
butta via il mito
e stampa la verita’. Per esempio che e’ meglio sparare alle spalle, perche’
cosi’ si uccideva, per lo piu’, nel West. E per avidita’, piu’ che per fondare
la Legge. Sono Vera Cruz e The Bravados i film a cui Vincenzoni
questa volta si ispira. Western sui bounty
killer, sui bounty hunter. L’analisi tra crescita dei profitti nell’industria
militare italiana e della ditta Beretta in particolare, e spaghetti-western, che
io chiamerei in modo filologicamente piu’ corretto, i Beretta Western, non e’ poi
ancora stato fatto. Ma le armi dei film di Leone proprio dalla provincial di
Brescia arrivano. Sono i nostri artigiani che producono i facsimile delle colt 45
e dei Winchester ‘94 che tanto adorano i fan dei western spaghetti come i
collezionisti statunitensi di armi alla John Milius. Ma torniamo a Per qualche dollaro in piu’. Proprio in
quei mesi Dino De Laurentiis aveva scritturato Burt Reynolds per Navajo Joe,
chiedendo a Sergio Corbucci che si uccidessero nel film almeno 245 persone.
Doveva essere un’ossessione, negli anni del boom, la crescita
demografica….Sergio leone invece chiama il dottor Luciano Vincenzoni (La grande Guerra, Sacco e Vanzetti…) alla
macchina da scrivere, al posto di Duccio Tessari e l’avvocato napoletano Alberto
Grimaldi, neofita ma dal fiuto eccellente, sostituisce, al fianco dello
spagnolo Arturo Gonzales, il duetto Papi/Colombo a cui Leone rimprovera di
averlo fatto fuori dai profitti del primo film. Grimaldi invece offre a Leone
50% per uno sugli incassi. Che supereranno quelli di Per un pugno di dollari anche se il budget sara’ del 200% superiore. Clint si fida di Leone,
e accetta subito di firmare per la parte del Monco, una volta
letto il copione. Studiando poi il doppiaggio di Enrico Maria Salerno , narra la leggenda, comincera’ a
imitarlo e a diventare, nel ritmo lento dell’eloqui “Clint Eatswood” come lo
conosciamo tutti. Per tenere testa all` “uomo senza nome” viene ripescato negli
Stasti Uniti, Lee Marvin non e’ disponibile, un attore gia’ in pensione dopo un
incidente d’auto, e che viene strappato ai suoi pennelli, Lee Van Clift, scelto
per il ruolo del
Colonnello Mortimer. Due cacciatori di taglie, stilisticamente e
caratterialmente inconciliabili, fanno squadra controvoglia per catturare un
bandito sadico e piuttosto vizioso, El Indio, grande fumatore di erba. Gian
Maria Volonte’ fa cose ai limiti della censura (anzi la pistola benedetta
nell’acqua santa prima di assassinare vecchi e bambini la vedono solo
all’estero) e del
ridicolo (quando si fa le canne Leone alza i filtri scarlatti, come se si
trattasse di Lds o di Reefer Madness).
Ma la trama e’ molto meno interessante del fiammeggiante sfoggio di invenzioni
visuali – per esempio I primissimi piani sul calico delle pistole, il dettaglio
del grilletto… - e di controtempi
diversamente spettacolari come le lunghe pause, a cui e’ affidato il compito di
allungare uno script semplificato e di permettere alle musiche di Ennio
Morricone di dispiegare tutta la sua potenza visionaria. Il duello finale, per
esempio, che coinvolge tutti e tre i protagonisti, e’ filmato come se facesse
parte di una liturgia religiosa.
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