domenica 29 giugno 2014

50 anni fa circa, quando il cinema italiano era amato in tutto il mondo. Per qualche dollaro in piu'.


Roberto Silvestri


Un buono contro due cattivi. Che poi diventa: due buoni contro un cattivo. Nel 1965 Sergio Leone cambia co-sceneggiatore e produttori per replicare e ampliare il successo e le ambizioni spettacolari e culturali di Per un pugno di dollari, primo titolo Il magnifico straniero, un distillato unico, che gia’ era nato dalla fortunata e bel calibrate fusione tra Yojimbo di Kurosava, Red Harvest di Hammett e Arlecchino, servo di due padroni di Goldoni oltre a Iliade, Odissea, Shane e un bel po’ di Shakespeare. Dopo una ventina di tentativi sfortunati a Cinecitta`, dalla contaminazione tra epica e mito nel mondo classico, in sostanza dal peplum, di cui Bob Robertson era maestro, e western Americano doc, era stato isolato un prototipo fertile che sorprese tutti. Originale e adorato a tal punto che il nomignolo dispregiativo (e anche un po’ razzista) che lo voleva esorcizzare, “western spaghetti”, sarebbe diventato a poco a poco un sopraffino marchio di qualita’. Non furono soltanto i giochi artificiali formalisti a incantare critici e pubblico di tutto il mondo, e per dieci anni. O il fatto che un film costato 120 milioni di lire riuscisse a incassare oltre 5 miliardi. Certo: ritmo, prosodia, metrica, costruzione narrative, organizzazione temporale e rapporto tra dettaglio dilatato e campo lungo necrofilo, tra soggetto e paesaggio, tutto veniva modificato e tutto veniva decostruito, capovolto e ricomposto. Per esempio. Il western classico, come un poema epico, ha un climax e un eroe. Nel nostro western, come nello spettacolo pirotecnico, la tensione e’ scaricata blocco dopo blocco,  in ciascuna unita’ narrativa, prima del gigantesco botto finale. E il super cinismo che permea tutto al massimo produce un “quasi eroe”.  A Hollywood, ma non ad Almeria, era proibito - apoteosi dell’ipocrisia compassionevole - che chi spara e chi viene ucciso venissero inclusi nella stessa inquadratura. La versione italiana del selvaggio southwest e’ totalmente fuori contesto, prescinde completamente dalla realta’ storico-politica, per esempio dal genocidio programmato dei nativi; isola il protagonista, che non ha piu’ alcun rapporto con lo spazio circostante. Il paesaggio non e’ affatto quello pieno di speranza del classicismo western. Sergio Leone, a proposito della sua differenza con John Ford, dichiarava: “Lui era ottimista, io sono pessimista. I suoi personaggi aprono la finestra e scrutano sempre, alla fine, un orizzonte pieno di speranze, I miei quando aprono la finestra hanno sempre paura di ricevere una palla in mezzo agli occhi”. Ma non bastava neanche spogliare il grande Mito del West e della Conquista dalla sua sacralita’ o psudomoralita’: quella tensione biblica verso la frontiera, da scavalcare progressivamente perche’ la libera iniziativa trionfasse, per gli unti dal Signore, quel viaggio collettivo verso la terra promessa, proprio in quel momento stava subendo una bella battuta d’arresto in Vietnam, Laos e Cambogia. L’iper-violenza, con quel pizzico di ironia in piu’, tanto per esagerarla, stava diventando la forma abituale di comunicazione. A Trastevere quanto nei ghetti insorti di Watts e Newark. E se godiamo dei blockbuster digitali di oggi non si puo’ dire che la lezione del western all’italiana non abbia lasciato, proprio mezzo secolo fa, tracce profondo nell’immaginario del XXI secolo. Al “muscle power” dell’eroe che vince elegantemente ai pugni nello scontro uomo a uomo, si e’ sostituito da tempo, come ricordava Gian Piero Brunetta nella sua Storia del cinema italiano, il “gun power” o meglio il “machine gun power”. Un numero indefinite di croci sara’ il paesaggio naturale del dopo-western spaghetti, e non solo di Il buono, il brutto e il cattivo… Dunque non interessa la realta’ della cronaca americana, ma il realismo si’. Se in L’uomo che uccise Liberty Valance si spiega che va pubblicato il mito, e non la verita’, Leone butta via il mito e stampa la verita’. Per esempio che e’ meglio sparare alle spalle, perche’ cosi’ si uccideva, per lo piu’, nel West. E per avidita’, piu’ che per fondare la Legge. Sono Vera Cruz e The Bravados i film a cui Vincenzoni questa volta si ispira. Western sui bounty killer, sui bounty hunter. L’analisi tra crescita dei profitti nell’industria militare italiana e della ditta Beretta in particolare, e spaghetti-western, che io chiamerei in modo filologicamente piu’ corretto, i Beretta Western, non e’ poi ancora stato fatto. Ma le armi dei film di Leone proprio dalla provincial di Brescia arrivano. Sono i nostri artigiani che producono i facsimile delle colt 45 e dei Winchester ‘94 che tanto adorano i fan dei western spaghetti come i collezionisti statunitensi di armi alla John Milius. Ma torniamo a Per qualche dollaro in piu’. Proprio in quei mesi Dino De Laurentiis aveva scritturato Burt Reynolds per Navajo Joe, chiedendo a Sergio Corbucci che si uccidessero nel film almeno 245 persone. Doveva essere un’ossessione, negli anni del boom, la crescita demografica….Sergio leone invece chiama il dottor Luciano Vincenzoni (La grande Guerra, Sacco e Vanzetti…) alla macchina da scrivere, al posto di Duccio Tessari e l’avvocato napoletano Alberto Grimaldi, neofita ma dal fiuto eccellente, sostituisce, al fianco dello spagnolo Arturo Gonzales, il duetto Papi/Colombo a cui Leone rimprovera di averlo fatto fuori dai profitti del primo film. Grimaldi invece offre a Leone 50% per uno sugli incassi. Che supereranno quelli di Per un pugno di dollari anche se il budget sara’ del 200% superiore. Clint si fida di Leone, e accetta subito di firmare per la parte del Monco, una volta letto il copione. Studiando poi il doppiaggio di Enrico Maria Salerno, narra la leggenda, comincera’ a imitarlo e a diventare, nel ritmo lento dell’eloqui “Clint Eatswood” come lo conosciamo tutti. Per tenere testa all` “uomo senza nome” viene ripescato negli Stasti Uniti, Lee Marvin non e’ disponibile, un attore gia’ in pensione dopo un incidente d’auto, e che viene strappato ai suoi pennelli, Lee Van Clift, scelto per il ruolo del Colonnello Mortimer. Due cacciatori di taglie, stilisticamente e caratterialmente inconciliabili, fanno squadra controvoglia per catturare un bandito sadico e piuttosto vizioso, El Indio, grande fumatore di erba. Gian Maria Volonte’ fa cose ai limiti della censura (anzi la pistola benedetta nell’acqua santa prima di assassinare vecchi e bambini la vedono solo all’estero) e del ridicolo (quando si fa le canne Leone alza i filtri scarlatti, come se si trattasse di Lds o di Reefer Madness). Ma la trama e’ molto meno interessante del fiammeggiante sfoggio di invenzioni visuali – per esempio I primissimi piani sul calico delle pistole, il dettaglio del grilletto… -  e di controtempi diversamente spettacolari come le lunghe pause, a cui e’ affidato il compito di allungare uno script semplificato e di permettere alle musiche di Ennio Morricone di dispiegare tutta la sua potenza visionaria. Il duello finale, per esempio, che coinvolge tutti e tre i protagonisti, e’ filmato come se facesse parte di una liturgia religiosa.      

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