Roberto Silvestri
Per attirare l'attenzione
“totale” della mamma, diventata vedova troppo giovane, per fare in modo che lei
si occupi sempre e solo di lui, cose mai può escogitare un teenager gravemente
traumatizzato dalla perdita del padre e da una complessa patologia? E se mentre
canta al karaoke un'hit di Andrea Bocelli vede che un probabile fidanzato le
sta mettendo le mani addosso nel buio locale cosa potrà inventare per fermarlo?
Cosa accadrà?
Dopo avere realizzato
un'opera prima dal titolo J'ai tué ma mere ecco che lo stesso
regista vendica, rendendole un omaggio non estetizzante, non grafico, ma
esistenziale, carnoso, la figura e il ruolo di tutte le mamme del mondo.
Antonine Olivier Pilon, nel film Steve |
Quinto film in 5 anni,
diretto in formato 1:1 (cioé a quadrilatero, e non a rettangolo) dal prolifico
canadese del Quebec Xavier Dolan, 25 anni, ragazzo prodigio, beniamino delle
competizioni internazionali, Mommy (Mamma), è stato trionfalmente
accolto a Cannes (ed è stato premiato), sia per la trovata dell'immagine di tipo
i-phone verticale, sia per la tonalità calda e fiabesca della luce (di Andrè
Turpin), per i rosa e gli arancioni che adornano, come fosse una commedia
hollywoodiana, una storia di handicap e di “perdenti”, che in genere
costringono ai clichés del look miserabilista, che più è aspro più è artistico. La tregedia Elephant di Gus Van Sant, un film adorato da Dolan, ci fece
lo stesso effetto cromatico squilibrante grazie alle luci usate da Haris
Savides per dipingere una banlieu “tranquilla” bella e calda come questa...
la mamma di "Mommy" |
Ma la qualità speciale del
film di Dolan risiede anche nelle performance degli attori, prima di tutto di
Anne Dorval e Suzanne Clement, attrici di punta della factory Dolan, e qui in
particolare stato di grazia, quasi icone gay, per eccentricità imprevista ed
energia auto-rinnovabile. Sono loro le mamme del titolo. Infatti ce ne vogliono
almeno due, un po' latine nella gestualità, anarcoidi nella testa e un po'
frigide nel gioco di sguardi, per star dietro a una possente, indomabile
macchina narcisista senza freni come quella di Steve Despres (la bionda forza
della natura Antoine Olivier Pilon), anfetaminico adolescente malato di Adhd,
deficit di attenzione e disordine mentale causato da iperattività.
Il regista Xavier Dolan |
Un disturbo
comportamentale caratterizzato da inattenzione, impulsività e iperattività
motoria che impedisce un apprendimento ottimale anche perché in genere coesiste
con altri disturbi e causa depressioni, ossessioni, compulsioni, disturbi
bipolari. Non si riesce mai a star fermi, si giocherella continuamente con le
mani e con i piedi, non si sta facilmente seduti sulla sedia per troppo tempo,
si corre, ci si arrampica, ci si comporta come azionati da un motore interno,
non si ascolta chi ci parla, ma contemporaneamente si parla continuamente, non si
può aspettare il proprio turno, si risponde prima della domanda. Interrompere
la conversazione e interferire nelle comunicazioni è un dovere….Uscirà il 26
giugno nelle sale un documentario italiano diretto da Stella Savino proprio su
questo disturbo, dal titolo Adhd, rush
hour.
mamma e figlio |
Steve, tra momenti di
violenza improvvisa e di dolcezza imprevista, sempre iperattivo e logorroico,
vive nei suburbi di Montreal. Invece di essere affidato a un istituto
specializzato, come la legge canadese garantirebbe, viene tenuto in casa,
educato, coccolato, rimproverato, assistito in tutti i modi possibili e
immaginabili dalla mamma Die, addetta alle pulizie, e da una amica, Kyla,
l'enigmatica dirimpettatia, la tipica signora della porta accanto della
mitologia hollywoodiana, ex insegnante, poi emarginata per una grave forma di
balbuzie, che diventa la maestra di quel ragazzo difficile, forse per
sfuggire alla routine della carcerazione domestica. Ci sarà infatti da
divertirsi, non senza gravi momenti di
difficoltà, paura e imbarazzi, con quel ragazzo così impulsivo e violento. La
missione impossibile di Kyla sarà: farlo accettare nel glorioso Juillard
Institute, il tempio artistico di New York. Quella di Die è trovarsi un compagno
che la possa aiutare per quadrare il bilancio. Il che è ancora più complicato,
visto che il tempo a disposizione per le cenette romantiche è striminzito e Steve vigila...
Tutta la troupe a Cannes 2014 |
Il formato “stretto”
dell'immagine aggiunge inquietudine e pericolo alle performance, quasi
cassavetesiana, del trio, non controllando lo spazio circostante lo spettatore
è sempre in ansia e in stato d'allarme. Quel coltello che il ragazzo ha preso
che fine ha fatto? E il regista gioca sadicamente con lo spettatore, quasi
sbeffeggiandolo, quando allarga, succede un paio di volte, l'immagine sia a
destra che a sinistra, portandola fino al sontuoso Panavision a cui siamo tutti
abituati. Lo fa quando il desiderio di happy-end, nel pubblico, diventa
tossico, da dipendenza blockbuster. E' una bella tirata contro le cattive
abitudini dello spettatore, contro un brutto sentimento (anche secondo Mario
Monicelli), la speranza, e contro un certo tipo di fiaba che non
riconosce l'happy end se non per un
certo tipo di vincitori.
“La speranza di cui parlate è
una trappola, una brutta parola, non si deve usare - ricordava Monicelli prima
di morire, già prefigurandosi l’effetto
Renzi che sulla speranza gioca -
è una parola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti
dicono che Dio…state buoni, state zitti, pregate che avrete il vostro riscatto,
la vostra ricompensa nell’aldilà.
Intanto, perciò, adesso, state buoni: ci sarà un aldilà. Così dice questo:
state buoni, tornate a casa. Sì siete dei precari, ma tanto fra 2 o 3 mesi vi
riassumiamo ancora, vi daremo il posto. State buoni, andate a casa e…stanno
tutti buoni. Mai avere speranza ! la speranza è una trappola, una cosa infame
inventata da chi comanda”. Questi tre combattenti non smettono invece mai di
lottare. Perfino con la camicia di forza. E il regista gli rende onore, al di
là degli inconvenienti che derivano dalla loro classe sociale o dalle etichette
che si impongono ai più che normali, diversamente belli.
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