giovedì 29 settembre 2016

Una sfilata di alta moda modernissima. The Assassin, racconto morale di Hou Hsiao Hsien




Mariuccia Ciotta



Alla vigilia di chiusura, a Cannes 2015, arrivò la bellezza in persona e ora è in Italia, non lascetevelo scappare. The Assassin di Hou Hsiao-Hsien (che era concorso), interprete e padre della nouvelle vague taiwanese (anche se il film sul catalogo risulta “cinese”, Pechino non gradisce), Leone d'oro '89 con La città dolente, invitato d'onore ai festival e già ospite di Cannes (Il maestro burattinaio, '93). Dinastie, regni, mitologie e storia sfogliati come un libro rilegato d'oro dalle immagini sottratte all'armamentario del genere. Decostruzione del genere wu xia pian, “film di cavalieri erranti”. Il regista spezza l'azione dei grandi affreschi epici e fonde la materia “arti marziali” nell'astrazione di quadri sospesi, non in cinemascope a linee orizzontali, come Ang Lee o Zhang Yimnou, ma a quadro quadrato, dipinti con la luce, controluce e fuori-fuoco, l'azione congelata dietro veli, tende ricamate, vapori. Eleganza contemporanea e ridisegno di un'epoca che rievoca, distanza di stile e secoli a parte, l'opera di Todd Haynes sugli anni '50 di Carol, e rispetto alla fluidità danzante del geometra Ang Lee qui ci sbigottisce la sperimentazione visiva degna del visionario vellutato e travestito Jack Smith.

Rumore di sciabole, sangue, lotta acrobatica si dissolvono nel contro-potere di una giustiziera, Nie Yinniang (Shu Qi), bellezza androgina dai tratti mongoli da far impallidire le carni bianche di principesse e concubine, un'apparizione conturbante al pari del samurai transgender di Oshima (Tabou). Sensuale e acrobatica, è incaricata di uccidere dall'”ordine degli assassini” i dissidenti del regno centrale, e in particolare suo cugino Tian Ji' an, governatore della provincia militare di Weibo, al quale era promessa sposa prima dell'esilio e dell'iniziazione alle arti marziali della nonna, icona bianca e maestra crudele. Yinniang combatte con gesti danzanti e non porta mai a termine la lotta, volteggia e disarma stuoli di aggressori ma poi s'incanta nell'assenza. La vera sconfitta dell'avversario sta nella negazione del suo rituale di morte. Qualcosa d'attuale che suggerisce la non corrispondenza tattico-filosofica con i “tiranni”. Hou Hsiao-Hsien non decora , scompagina gli avvenimenti delle due Cine con intarsi di preziosità “fuori posto”.

The Assassin segue l'esempio della killer imbattibile - inebriante la scena del combattimento con il possente cugino barbuto reso impotente da giochi di prestigio – si distrae dalla narrazione, va a cercare mantelli neri trapuntati di rosso, stole di seta, soprabiti damascati (una sfilata di alta moda modernissima) la liturgia cosmetica e la vestizione delle bambole cinesi... Su fondali fiabeschi si incidono le figure della leggenda, spostate dal loro luogo naturale dalla presenza fantasma di Yinniang, l'assassina “dalla tecnica perfetta e dal cuore ancora schiavo dei sentimenti”. Ad avere entrambe le doti si può essere Hou Hsiao-Hsien.
       

Café Society, gli spettri digitali di Woody Allen



Mariuccia Ciotta
Esordio nel mondo evanescente, Woody Allen si derealizza ancor di più nel suo primo film digitale, prodotto dal colosso del commercio on line Amazon, Café Society, ouverture fuori concorso del festival di Cannes 2016. Quasi uno sberleffo al tempo che corre e travolge quel certo tono di luce e quei certi abiti rosa antico, l’età del jazz e i racconti di Francis F. Fitzgerald.
La voce off del regista avverte che è inutile immedesimarsi nel film. “Mantenete le distanze”, sembra dire. Sono solo fantasmi. Apparizioni della sua epoca preferita, anni Venti, Trenta, Quaranta, non oltre. Dopo, il mondo è stato bruciato, e Woody srotola la pellicola del suo cinema e della sua vita, diserta i tempi moderni e lo fa però con un certo distacco, felice e malinconico di guardare ancora una volta le immagini perdersi in una dissolvenza senza ritorno. Tutto è vagamente posticcio… anche New York. Seguendo il filone Midnight in Paris, entrano in scena controfigure di gangster e orchestrine, di locali alla Marlowe con i divanetti imbottiti e feste fantasmagoriche alla golden age di Hollywood in una sfocatura luminosa, sovraesposizione di luce, aureola di pixel che incorona le figure.

L'incanto della nostalgia è violato da Kristen Stewart, Vonnie, corpo estraneo, spigoloso, contemporaneo che si muove a disagio tra chiffon e abat jour, trine e coppe di champagne, un segno di vita tra spettri. Effetto raddoppiato dal “nerd” Jesse Eisenberg, Bobby, alias Woody, il ragazzo di belle speranze, innamorato di Vonnie, incerta se sposare il maturo e accasato agente di successo Phil (Steve Carell). Lo stesso Phil incaricato di introdurre nella Café Society il timido e ingenuo nipote Bobby, ebreo di Brooklyn, piombato a Los Angeles per conoscere Irene Dunne, Ginger Rogers, Hedy Lamarr. E mentre il goffo Bobby, che fa decantare il vino bianco, va in tour sulle colline di Bel Air e cerca l’amore negli angoli di Hollywood, a Manhattan il fratello bandito, che si diletta a far sparire cadaveri nel cemento fuso, apre un locale di gran moda, così malfamato da attirare il gran mondo, politici compresi.
Woody Allen scorre cinema e memoria, e guarda l’azione da lontano. Prende in giro la moralità comunista, ma poi si chiede “se è giusto ammazzare un vicino di casa solo perché tiene la radio troppo alta”, o friggere qualcun altro sulla sedia elettrica per averlo fatto. Se è giusto lasciare una moglie perfetta dopo 25 anni di matrimonio per la segretaria giovane o sposarsi senza amore… Il senso della vita bergmaniano emerge qua e là, ma Woody non partecipa più, osserva i fotogrammi in bianco e nero di La signora in rosso del francese Robert Florey, 1935, interpretato da Barbara Stanwyck in contropiano con Kristen Stewart, la mezza vampira di Twilight, la “fluid gender” delle cronache rosa sull'amore lesbico, alla quale dedica una battuta maliziosa, “un giorno ti farò avere una lettera d’amore firmata da lei”, da Barbara, promette Bobby, lo spasimante, e non certo da Rodolfo Valentino. Ma ogni promessa si perderà nel vortice del passato, il cambio di stagione ha inaridito cuore e cervello.
Rimpiangere qualcosa che non si è mai vissuto, Café Society ha questo compito, quando “la musica e la moda erano geniali – dice il regista pensando a Rodgers and Hart – e soprattutto quando la cultura americana era al suo apogeo”. Ci sarà Netflix, ci sarà Amazon, ma cosa c’è di meglio di un Martini secco bevuto guardando Manhattan piena di luci, seduti sulla vecchia panchina di Woody Allen?


lunedì 26 settembre 2016

Specialità al sangue consigliate . E' morto ieri Hershell Gordon Lewis, e tempo fa è morto anche Al Adamson


Roberto Silvestri



In memoria di Hershell Gordon Lewis, morto oggi…..

Le piace trash? Se pensate che, al cinema, non si tratti solo di "sfruttare atti efferati per fare bei verdoni". Se vorreste immensamente leggere il saggio di Jonathan Ross (Ubu Libri). Se diffidate di chi si scandalizza con foga integralista di questa deformazione, irreversibile ma nauseabonda, delle "regole auree ed eterne del bello" - come un tempo per il camp o il kitsch - è il momento di accostarsi finalmente ai capolavori (proibiti) di due maestri Usa del "cinema gore e splatter spazzatura": Hershell Gordon Lewis, il professore d'inglese che con David Friedman coltivò, senza neanche espropiare, tutti i campi della fantasia lasciati incolti dai mega-studios e scoprì l'estasi della recitazione decostruita e della sceneggiatura tagliata con l'ascia. E Al Adamson, un superindipendente il cui assassinio efferato (fu poi sepolto nel cemento del pavimento di casa che stava facendo ristrutturare) avrebbe lasciato basito Dante Alighieri a proposito di contrappasso...Del primo non possiamo dimenticare almeno Blood feast, "Rito di sangue" ('63), ovvero sangue zampillante egizio, una satira dell'orientalismo tra Edward Said e Cronenberg; 2000 Maniacs, "2000 pazzi" ('64), ovvero (una ferita sempre aperta zoommata in primo piano): come friggere gli yankees e mangiarseli, in ricordo e in omaggio dei caduti grigi della guerra di Secessione. E del secondo: Blazing Stewardesses ('74), con Yvonne De Carlo; Blood for Ghastly Horror, work in progress dai cento titoli e rimontaggi, su una gang di rapinatori di gioielli reduci dal Vietnam e John Carradine che, in una delle versioni, fa una capatina ('72); I spit on your corpse ('74), su una gang di ragazze cattive, ma davvero. Pellicole "maledette" per antonomasia, diventate ormai capolavori dell'arte contemporanea, sensori di un diffusa e sfrontata sensibilità mutante, forme che danno i brividi ma possiedono anche "quel certo non so che...", fluido mortale dell'immaginario che presto si sarebbe incorporato nella body art necrofila delle scarnificate popolazioni punk...fino alla loro reincarnazione, Ana Lily Amirpour di The Bad Batch sulla dolcezza introvabile ma esistente del cannibalismo.

Questi magnifici 5 hanno forza "exploitation", perché sanno sfruttare magistralmente i più inconfessabili piaceri visivi e inconsci del pubblico. Ma sono anche opere insostenibili, estreme e radicali incursioni nel genere horror, nel filone splatter (lì dove i corpi si fanno orrendamente a pezzi, come in una sorta di visione apocalittica di un rimosso "mattatoio umano") e nella sensibilità gore (è il "sangue raggrumato" a diventare attore protagonista, mattatore). Opere "incredibilmente strane" anche perché sono riuscite, quando uscirono, tra movement, strage di Kent, hippies, reduci, batosta in Vietnam, Laos e Cambogia, Lumumba seviziato da Ciombé, Manson, Indonesia (mezzo milione di comunisti assassinati), a rappresentare un adeguato antidoto, un sarcastico doppione, una risposta adeguata alla normalizzazione della violenza, operata con costanza dai mass-media commerciali e non per devitalizzare le coscienze "da prima serata", altrimenti insorgenti e infuriate. Sono state sempre proibite (in Gb e Italia) o perseguitate da stampa perbene e festival perbenisti queste specialità al sangue.


sabato 24 settembre 2016

Venezia 73. L'ultimo, il film tunisino di Ala Eddine Slim che ha vinto il premio come migliore opera prima


Jawher Soudani in The Last of Us di Ala Eddine Slim, vincitore del premio per la migliore opera prima a Venezia 73


Roberto Silvestri

Nei luoghi macabri dove si aggira la morte… andiamo a cercare un controcampo: la vita
(Hassen Ferhani, documentarista algerino contemporaneo) 

In un vecchio film arabo, credo che fosse Stars in Broad Daylight (1988) di Oussama Mohammed, regista siriano oggi esule a Parigi, una casa di campagna è circondata nella notte dai lupi minacciosi. L’uomo baffuto e barbuto, a letto, non sa proprio che fare, la moglie invece si alza e urla, più agghiacciante di loro e li zittisce d’ un tratto, mettendoli in fuga.  
il regista tunisino Ala Eddine Slim
I lupi (e le lupe) come genius loci – che nella metafora non sono solo i capitalisti che portarono l’America alla Grande Depressione, o i neo-razzisti occidentali come Trump o semi-occidentali come Putin, o gli agenti sinistri di Assad lo sciita e dell’Isis wahabita, ma perfino i Wolfen della mitologia nativa d’America cari a Haidegger - vanno addomesticati o sconfitti, se si vuole fondare una umanità nova adeguata alla globalizzazione (dal basso), trasformando in occasione preziosa (per il “bene comune” delle moltitudini contro lo spirito  passatista della comunità) l’esodo biblico tragico di questi giorni, maneggiato con ben altre intenzioni rapaci (manodopera schiavizzata a costo zero) da multinazionali e banche mondiali.
Per questo è prezioso il contributo delle donne profughe o in fuga obbligata, doppiamente colpite, anche sessualmente, durante le traversate desertiche, marine e nelle kafkiane e non meno sadiche trafile burocratiche d’Europa (si legga il bell’intervento di Helen Pankhurst, discendente della suffragetta e nipote di un anarchico italiano sfuggito al fascismo, sul Guardian del 19 settembre scorso). Anche se, nel miglior cinema nordafricano sull’argomento, non viene sbandierato, ma va scoperto spesso nel fuori campo, nelle allusioni a ricche e antiche mitologie di lotta (non tutta la tradizione culturale è proprio oppressiva e da buttar via) poco chiare per l’occidentale.  Per esempio il mito di Mamy Wata, la madre acqua, a cui il nigerino Moustapha Diop,  nel 1989, dedicò un fondamentale film. Si tratta dell’elemento magico che interviene prima o poi e cambia il corso della storia. Insomma è piuttosto pericoloso, a giudicare da quel film profetico, lasciare morire nelle acque comuni tra Europa e Africa, centinaia di migliaia di esseri umani. Alla maledizione di Mamy Wata e alla moltitudine errante e umiliata è stato eretto nel 2010 un altro monumento filmico che andrebbe fatto vedere giornalmente nelle scuole italiane (dura solo 18'), The Leopard di Isaac Julien, filmaker anglocaraibico che per primo ha irpreso i morti del Mediterraneo come fantasmi che iniziano ad affollare i nostri incubi, spettri di Marx, direbbe Derrida.


Ma ecco che un altro film proveniente dalla Tunisia riprende quel filo, The Last of Us di Ala Eddine Slim. Che non è il videogioco di sopravvivenza postapocalittico della Sony (semmai il suo perfezionamento, come La signora che partì perfeziona, capovolgendolo, il piacere delle infinite serie tv), ma un film poetico di sopravvivenza che non teme le ambiguità, anzi le moltiplica, che devia dalla “retta strada” del film fabbricato per i festival, fa un “detour” imprevisto perfino dentro la controcultura sessantottina più lisergica (il sogno hippie della natura incontaminata, la vitalità dello sporco, il ricominciare con il ciclo vitale base, il puntare alla rigenerazione spirituale totale, e non solo alla rivoluzione sociale, “verso la follia e oltre”) e dunque richiede una breve contestualizzazione.

Il premio a Venezia 73
Aveva 26 anni l’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi che, cristallizzando la rabbia e la disperazione della sua generazione, genererà con il suo suicido i moti e le rivoluzioni mediterranee del 2011. Aveva 28 anni il dosoccupato Ridha Yayaoui, che si è suicidato bruciandosi con i fili dell'alta tensione, il 19 gennaio 2016, 5 anni dopo la Rivoluzione, a Kasserine, nella regione centro occidentale della Tunisia, manifestando contro le modifiche ministeriali alle liste di assunzione del ministero dell'istruzione. Un professore che volevano spedire chissà dove o che avevano depennato dall'assunzione. 

Fame nera, disoccupazione o sottosalario salari, mancanza di tutele e zero welfare (che poi non è altro che speranza di felicità), elezioni truffa (lo sono ancora, in Marocco) maneggiate dai governi che preferivano controllare le liste e far “votare” i milioni di morti iscritti, piuttosto che i milioni di giovani mai iscritti….  


I proletari stagionali di El Gort  (2013), film del tunisino Hamza Ouni, ambientato durante gli anni di piombo del governo Ben Alì, membro dell’Internazionale Socialista, eppure dittatore, formulavano la stessa alternativa fatale: o immigrazione clandestina o suicidio, finendo per mettere in pratica quella dicotomia, non sempre antitetica. Scrive su Trafic (n.98, estate 2016) Marie-Pierre Bouthier che, già molto tempo prima della Rivoluzione per la libertà e la democrazia (gettate nel cesso l’espressione colonialista rivoluzione dei gelsomini), “i giovani maghrebini  si considerano zombie, morti viventi, motivo ricorrente dei graffiti che la giovane cineasta Intissar Belaid ha svelato al mondo in una serie di fotografie indimenticabili”.
Ecco perché al Cairo, ma anche a Ouagadougou quando hanno detronizzato l’altro dittatore coccolato dall’Europa, Compaoré, andavano tranquillamente incontro ai carri armati (e ai cammelli di Mubarak). Non c’era, non c’è, proprio più niente da perdere.
Il documentarismo maghrebino contemporaneo, e in particolare quello tunisino (pensiamo anche a Ismael, Youssef Chebbi che con Ala Eddine Slim hanno firmato Babylon, nel 2012) punta alla co-creazione, al rapporto completo. Full frontal, si potrebbe dire utilizzando il gergo del porno, tra personaggio e filmmaker. Miscelando gioco dell’immaginario con nude testimonianze, non si finirà forse finalmente per “inventare un popolo” invece di “saperla già lunga su quel che vogliono i cittadini”, secondo la gioconda presunzione dei partiti reazionari alla moda?     
Questo film di finzione si colloca in questa scia. Ma non è facile da consigliare con entusiasmo perché, un po’ come ha fatto Pippo Delbono in Vangelo, non è un film apparentemente partecipativo o liberatorio, e non sembra che il registi lasci al suo unico protagonista (che oltretutto è un nero che viene dall’Africa equatoriale) la possibilità di riappropriarsi non dico del suo destino ma neppure della sua immagine. Anzi, sembra proprio il contrario. Si respirava un certo disagio in sala…
E’ quasi un mese, dunque, che ci penso, perché  non è facile scrivere su The Last of Us, un film panafricano “tutto maschile”, ma alla maniera di Robert Aldrich della Sporca dozzina, senza farsi prendere dagli automatismi orientalisti, arroganti e paternalisti. Si parla spesso di rapporto difficile tra maghreb e sub-Sahara, di un certo tipo di razzismo che permea anche le società arabo-musulmano del nord rispetto alle popolazioni nere del sud (che nei secoli si collaborò, in combutta con i bianchi, a schiavizzare). Un esempio di questo rapporto ostile viene sviscerato in Le siestes grenadine (1999) di Mahmoud Ben Mahmoud.  Il film, o forse i due film di cui è composto The last of us (il primo e il secondo tempo non si parlano) è infatti tutto tunisino, di cast e troupe, Jawer Soudani, il protagonista, a parte. Il soggetto non è inconsueto. Si tratta del destino fatale di un migrante che viene dall’Africa subsahariana. E che però ci conduce, improvvisamente, fuori dai binari abituali di un’opera realistica, di un film che spezza lance in favore di, del pamphlet sovversivo, della fiaba compassionevole… Niente di tutto questo. Piuttosto il film diventa minaccioso, misterioso, buffo perfino e dalla mille possibilità interpretative. E forse è questo groviglio emozionale che ha avvinto la giuria internazionale di Venezia che lo ha premiato come migliore opera prima. A meno che non si vogliano condividere le lamentele eurocentriche dei reazionari che vedono nei premi, eternamente extraoccidentali della Biennale, non il segno di un primato e di una originalità artistica extraeuroamericana, ma la prova della psicopatia infantile della Mostra che preferisce, snob, opere per “happy few” che nessuno vedrà. Sciocchezze. Se si eliminasse il 90% della televisione che si fa qui e la si sostituisse con il 90% di televisione che si dovrebbe fare, pubblica e commerciale, tutti avrebbero la conoscenza, l’interesse e le tecniche per decifrare con passione ogni racconto, da qualunque parte del mondo provenga e a qualunque scuola stilistica appartenga. Ci sarebbe più educazione, rispetto e piacere schermico, qui attorno. 
Non c’è stato a Venezia, per esempio, film più avvincente, a suspense e fordiano (nel senso di John) del filippino La donna che partì di Lav Diaz.   E di suspense anche qui ce n’è in abbondanza, sempre. Passo dopo passo.
The last of us, L’ultimo, è più o meno autoprodotto dal giovane regista trentaquattrenne, che è anche sceneggiatore e montatore, ed è interpretato sostanzialmente da due personaggi, N e M (Jawher Soudani e Fathi Akkari). Ma se non ricordo male i titoli di coda, qualche soldo è arrivato anche da fondazioni festivaliere, Doha compresa. E quando sento wahabiti mi irrigidisco sempre. Non mi piacciono gli stati confessionali. Cristiani, ebraici, musulmani e pure atei. Impongono assurdità teologico-ideologiche prima di emettere gli assegni per la cultura. Ma se un cineasta indipendente rifiuta i soldi pubblici del proprio stato, e in certi casi il gesto è già di per sé rivoluzionario, non ha molte altre scelte, soprattutto se, altro gesto eccentrico, qui Parigi (e i suoi standard imposti) non c’entra più per niente. Si tratta di limitare i compromessi. Come ha cercato di fare per tutta la vita Arthur Penn anche se, a fine carriera, ha dovuto ammettere di avere perso sempre contro Hollywood.
Tutto il mondo è paese.
Si potrebbe anche dire che il film segna un ritorno di interesse benigno per il cinema muto , insomma gioca tutte le sue carte sull’aspetto visivo, accentuato da una immagine sonora molto raffinata e materica, alla Edgar Varése, alla quale contribuiscono  due maghi dell’orecchio, i fonici Moncef Taleb e Yazid Chabbi e l’autore della partitura musicale Tarek Louati. Un po’ come nel Che di Soderbergh la natura è coprotagonista viva. Prima parte, il deserto e la città, a narrativa orizzontale. Seconda parte (la foresta) a immaginario più verticale, a suggestioni più circolari, alla Brakahage. 


Prima parte. L’attraversamento del deserto di due migranti. Si sopravvive a stento, si incontrano brutti ceffi arabi, uno di loro sparisce, forse viene ucciso  da una banda di balordi, l’altro, N, fugge. Arrivo in Tunisia, che tra l’altro non  è, a differenza della Libia, sulla strada dell’emigrazione organizzata dall’Africa Nera. Tunisi dunque, città tentacolare e gelida. N ruba barca e motore. E' un individualista drastico. Non sopporta le gite turistiche. Il mare aperto, la fine della benzina, il mare mosso, la barca si rovescia… E, seconda parte, l’approdo quasi miracoloso, quasi onirico, in un posto geograficamente misterioso, non l'Italia, non la Grecia, non la Spagna, ma una foresta, anche pericolosa non fosse per M, un uomo molto anziano, forse il passato del mondo, forse il futuro di N, che resiste allo strapotere dei minacciosi lupi, cacciando per mangiare e per vestirsi, come se si tornasse all’epoca preistorica. E insegna tutti i suoi segreti a N, e, quando muore, N, ne eredita le tecniche e, come un bodisatthva, come un santone beat, ecco che va incontro alla cascata della purificazione (fino a quel momento la voglia di lavarsi era estranea a N) e al nirvana, all’assoluto, alla vita eterna, alla comunione con la sostanza primordiale, all’estasi. Siamo nel dopo morte? Siamo nel Limbo? 


Piuttosto che una scomparsa  sembrerebbe finalmente un ingresso, dopo purificazione,  nel mondo dei vivi. Forse un ingresso meno accondiscendente, questa volta, più concreto e battagliero (l'Africa ha fatto troppe guerre fratricide, finora...). 
Era prima invisibile, N, ora che è scomparso forse sarà più “concreto”. Avrà un nome finalmente. Vero. Ricordate Peter Weir? Le ragazzine che spariscono dopo il Pic Nic ad Hanging Rock?… Sparendo le studentesse finalmente conteranno qualcosa.  
Fino al momento dello svanire di N la linea dell’orizzonte e il cielo quasi non lo avevamo visto. O perché tutto era nero e dark o perché la telecamera digitale, tra mezzi primi piani e piani americani, non aveva in campo che tronchi e foglie e dirupi da inquadrare.    
Dodeskaden o Bambi, per la centralità della foresta dark o della località sperduta? Tre centimetri al giorno, per il coté panteista e la frantumazione atomica del corpo umano? La guerra del fuoco, perché anche qui è il linguaggio non verbale che conta? Attila con Abatantuono per i vestiti di pelli animali più ridicoli che selvaggi, segnaletica dello stato di natura? Continental Divide con Belushi, per un cast così minimalista e l’inno gioioso all’ecologia? O piuttosto Kubick e Malick, per la metafora filosofica ambiziosa (chi siamo e dove andiamo lo sappiamo, ma: perché non possiamo andare ovunque e perché non siamo rispettati per quello che siamo? Questo è il problema)? O soprattutto rinnovare quel filone di cinema tunisino che si ricollega a Taieb Louichi, Mahamoud Ben Mahomoud e Nacer Khemir, al primato dell’immagine sul segno/parola d’ordine, della poesia sulla prosa, della metafora sulla metominia?  
Così il requiem sulla semplice e tragica fuga di un clandestino, l’ invisibile per eccellenza, dall’Africa verso il nord dell'Europa, giocata sui non colori, i neri della notte e il bianco-grigio del deserto,  diventa, grazie al tono surreale e alla delocalizzazione fantastica, un marcia trionfale sul ritorno, cromaticamente perfetto, alle tonalità verdi-beige scuro della giungla e della montagna, quelle dell’habitat nativo. Ma non c’è niente di reazionario in questo back to the future. Appena N recupera il suo corpo (e per la prima volta lo lava) ecco che scompare.  La soluzione non  è il ritorno al sud di profughi e clandestini istigati ad esserlo, come spera la destra Ue. Ma una geografia economica che cancelli per sempre nord e sud, sviluppo e sottosviluppo, corpi neri e corpi bianchi. 

Dopo la Mostra di Venezia, The last of Us  è stato presentato a Milano e a Roma in questi giorni e continua a suscitare un dibattito critico interessante.
E’ un’opera scoperta dalla Settimana della critica.  
Al Lido vince (quasi) sempre la Settimana. E anche quest’anno il premio assegnato dalla Mostra di Venezia alla migliore opera prima di tutte le sezioni è andato a questo cineasta che viene dalla videoarte e ha diretto e prodotto finora corti e doc prima di questo (titolo originale) Akher Wahed Fina,  presentato, nel catalogo della Settimana, da uno dei nostri giovani critici più radicali, Luigi Abiusi (la dinamo del web magazine Uzak), membro della band coordinata da Giona Nazzaro. I selezionatori della settimana sono diventati ormai i migliori segugi degli esordi speciali, sia introversi e cool (come in questo caso) che estroversi e hot, secondo le indicazione (più popolari?) del gruppo precedente di critici Sncci, coordinato da Francesco Di Pace e che privilegiavano la commedia fatta un po’ strana. Ma qui di commedia non c’è nulla. Meno che mai di commedia egiziana, quella freneticamente gesticolata e chiacchierata, insomma tutta radiofonia. No qui il potere è dell’immagine (le luci sono di Amine Messadi e scovano perfino cose che non si vedono), altro che icoloclastia araba, e l’unico dialogo è tra il protagonista e il mondo, il deserto prima, poi la città, il mare, la foresta e l’atmosfera.  L’umorismo è segreto.   Ma come nei Tre porcellini anche qui i lupi cattivi verranno sconfitti. Mamy Wata, lo spirito animista, a lungo andare sconfigge sempre le divinità maligne, le entità jinn. Quegli spiritacci che, benedetti dal Papa cattolico nei secoli, hanno imposto le monoculture, costretto i contadini a pagare i brevetti ogm, distrutto ogni possibilità di crescita economica autonoma, rubato le acque e i preziosi minerali africani da 4 secoli, pagato governi asserviti, organizzato colpi di stati (la Francia da sola si vanta di averne finanziati e diretti 64 nel dopo “indipendenza” per togliere di mezzo qualunque presidente ostile ai suoi interessi), assassinato i leader nazionalisti più ostinati e pericolosi, si sono crogiolati a lungo e beati del governo razzista di Pretoria, mandato alla fame un intero continente e oggi si chiedono come mai quel continente gli stia intasando le strade, le piazze e i cervelli. E’ Mama Wata all’opera. Ci racconta Ala Eddine Slim.        

Libri. Billy Wilder, il ballerino a pagamento, demolisce il Principe di Galles

Billy Wilder


Mariuccia Ciotta  *

Vietato scrivere in un copione hollywoodiano “Figlio di un cane”? Billy Wilder non si arrende e aggira così la censura: “Se tu avessi un padre, abbaierebbe”. Con umorismo caustico il regista viennese di A qualcuno piace caldo incanta, ipnotizza e coniuga la più sfrenata frivolezza, che qualcuno riterrà volgare, con la spietata autopsia dell'umanità, scambiata per cinismo, come in L'asso nella manica, il film che indignò pubblico e critica. Troppo implacabile nel disegnare la geografia della crudeltà fatta di media e spettatori sanguinari.
Nella memoria del re della commedia (6 Oscar) non c'erano solo i filari di palme a Beverly Hills, dove morì nel 2002 all'età di 95 anni, ma i ricordi di madre, nonna e patrigno bruciati nei forni di Auschwitz, e la fuga prima a Parigi e poi in America. Billie, che adottò la “y” per sbarcare a Hollywood nel 1933, a chi gli chiedeva se era stata una sua scelta abbandonare l'Europa rispondeva “No, è stata di Hitler”.
C'è un interregno, però, che spiega tutto di Billie e Billy, il dolce e l'amaro, la sua vita a Berlino quando tra il '27 e il 30 esercitò il mestiere di giornalista per diversi quotidiani popolari, e si allenò ad osservare caratteri e fisionomie e a spiare le conversazioni per le strade della Repubblica di Weimar.
Il regista di Quando la moglie è in vacanza, Stalag 17, Irma la dolce, La fiamma del peccato, prese appunti per i suoi capolavori nelle vesti di “city editor”, un flaneur molto speciale, autore di articoli di “vita autentica”, antesignani del neorealismo, raccolti in un volumetto imprescindibile Il principe di Galles va in vacanza (edizioni Lindau, pag. 220, 18 euro, 2016). Nel racconto che dà il titolo al libro, Wilder scortica vivo il principe pavone, viveur d'alto rango sempre in prima pagina per gli scandali di letto, l'Edoardo VIII che abdicherà sia per amore di Wallis Simpson, l'americana pluridivorziata, sia per quello del Fuhrer.
Il principe annoiato dalla vita di corte non sa più dove andare, conosce India e Indocina, Giamaica e Guyana, Ceylon e le isole Fiji, l'Australia poi gli dà su i nervi, in quanto all'Egitto, “i coccodrilli stanno già fischiettando il suo nome dalle piramidi”, e quindi decide per un “simple” ranch in Canada, fornito di “sei bagni, due sale da biliardo, una da bridge, una da ballo, tre bar e così via”. Meglio di una pagina di storia sul futuro “re per una notte” indeciso se indossare il frac rosso, l'abito da cow-boy o un completo lilla per la cavalcata mattutina.
Gli scritti del giornalista Billie scorrazzano soprattutto per le vie berlinesi, protagoniste della sua prima sceneggiatura, Gente di domenica (Menschen am Sonntag, 1930), diretto da futuri icone del cinema, Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer, Fred Zinnemann. Un film dove Wilder mette a frutto le cronache cittadine per trascendere la realtà e renderla superlativa. Articoli che vanno dall'uomo-portafortuna, “grasso, calvo e con dei bei denti”, assunto da un imprenditore perché sorrida sempre seduto davanti alla sua scrivania (Perfetto ottimista cercasi), alla donna ingaggiata da pigri ricconi perché desideri, per conto loro, ammazzare gli avversari in affari (Intervista con una strega).
Sul set di A qualcuno piace caldo Wilder fa Marilyn
Sembra di stare tra le pagine di Tre uomini a zonzo (1900), diario turistico di Jerome K. Jerome, esilarante e cupo nel descrivere il tedesco che ubbidisce agli ordini più aberranti, un racconto premonitore del nazismo. Anche Billy Wilder immagina negli anni Venti, dopo la catastrofe della Grande guerra, le macerie di Berlino. La svendita dell'anima tedesca sarà esposta in Scandalo internazionale ('48), altro folgorante esempio di Billy il “doppio”, che sa cucire insieme lo strazio di Black Market, cantato da Marlene Dietrich, ammaliante spia tedesca, con la risata provocata da Jean Arthur, deputata in missione venuta dall'Iowa, goffa e puritana.
I reportage berlinesi, intrisi di spirito yiddish, sono fulminanti sonetti che dicono molto del lessico cinematografico di Wilder, non solo per le battute celebri, “Nessuno è perfetto”, inciso sulla sua lapide nel cimitero di Westwood (I'm a writer. But then nobody's perfect), Los Angeles, accanto all'amata e temuta Marilyn Monroe (“ottanta ciak per dire Dov'è il mio bourbon?”). Ma soprattutto per il lavoro linguistico, le ellissi e le iperboli, l'incoerenza sintattica che gli fa scrivere “il viso del signor Isin sorride, giallo e lontano” oppure “un signore in raglan e con una gamba rigida”. Come nota la traduttrice (ottima) di Il principe di Galles va in vacanza, Silvia Verdiani, il ritmo delle parole lo ritroveremo nei copioni e le regie, da Viale del tramonto a Sabrina, giochi di parole in versi, che ci fanno scoprire, sotterrato sotto una coltre di gelido distacco, Billy il poeta. E Billy il “ballerino a pagamento”. Lo fece davvero quando aveva i buchi nella giacca e il colletto liso. Fu un gran successo, il racconto autobiografico, Cameriere, un ballerino per favore!, storia di un ventenne disoccupato, improvvisato danzatore per anziane signore in un locale di Berlino. Usava così, e lui ballava “con le più snelle e con quelle che bevono tisane dimagranti”. 

* pubblicato su Alfabeta 2

venerdì 23 settembre 2016

"La vita possibile", e anche il cinema, italiano



Mariuccia Ciotta

Ai confini geografici ed emozionali, La vita possibile di Ivano De Matteo ha quel profumo assente in molto cinema italiano, qualcosa che mette in circolo pensieri e immagini transnazionali, senza frufru gergali, tutto nella storia di Anna (Margherita Buy) colpita al cuore, non metaforico, di un marito visto solo di spalle, anonima presenza da cronaca nera.
A Torino con vista sulla Francia (produzione italo-francese, distribuzione Teodora) il regista di Gli equilibristi e I nostri ragazzi (invitato alle Giornate degli autori di Venezia 2014) tesse una trama sospesa nel tempo di un tredicenne, Valerio (Andrea Pittorino), perduto sotto i portici della città fredda - i due fuggitivi vengono da Roma – in cerca di un rifugio per un alieno, un ragazzo invisibile che neppure la squadretta di quartiere invita a giocare. Valerio, bello e biondo, se ne va in bicicletta come Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne in cerca di un padre che potrebbe assomigliare al ristoratore francese Matthieu (Bruno Tedeschi) un tipo fascinoso e dal passato oscuro, ex campione di calcio nel Toro.
A consolarlo della perdita c'è poi Valeria Golino, Carla, attrice di teatro, sprizzante gioia di vivere, battute allegre e perforanti, permissiva con il tredicenne quanto la madre è angosciata a ogni suo ritardo. Carla ha accolto l'amica nella casetta torinese dove non c'è la televisione (“scusate, ma la odio”), si sa, è un'artista... così non si possono vedere le partite. Allora Valerio scende al bar del francese barbuto per il derby e mangia trash-food, beve CoCola e un po' si confida.

Il suo vagare per le strade di Torino, lungo il parco del Valentino segna il ripetersi dell'allucinazione, la scena di uno shock, suo padre è un mostro e sua madre una vittima colpevole che gli nasconde la lettera di pentimento del genitore recidivo.
Margherita Buy è una nebulosa nel “pieno” del razionale, presenza angelica e confusa di fronte ai sentimenti distorti degli umani, i suoi occhioni celesti attireranno sempre molestatori violenti. Per vivere, andrà a lucidare le vetrate postindustriali di uffici enormi e sontuosi, Cenerentola notturna che, finito il lavoro all'alba, porterà un croissant caldo al figlio prima della scuola, come la protagonista di Anche per te di Lucio Battisti, “per te che è ancora notte e già prepari il tuo caffè... per te che metti i soldi accanto a lui che dorme e aggiungi un po' d'amore a chi non sa che farne”. Valerio non sa che farne né della madre né del suo dolce preferito, è pieno di rabbia, odia la calma apparente di quei giorni torinesi. I neuroni-specchio si attivano e riflettono il lutto inconsolabile del ragazzino sulla bicicletta che De Matteo guida verso un nulla carico di misteri, dentro la città magica. Ma, succede nelle favole, Valerio incontra la faccia affusolata e ringhiosa di Caterina Shulha (magnifica), la piccola bielorussa che si prostituisce nelle ombre del parco. Ogni volta che la ragazza bruscamente lo caccia - non è posto quello per un bambino -Valerio si consola. Si sente uguale a lei, con un buco dentro. E finiranno per innamorarsi, per andare al Luna park e a fare shopping, una maglia della Juventus per il figlio lontano di Caterina, una del Toro per Valerio. Passeggiate quasi parigine nei boulevard degli anni sessanta. L'uscita dai canoni sentimentali, lo scandalo di una relazione inconcepibile, il rovesciamento dell'aberrazione pedofila. Il tredicenne e la signora.

La vita possibile è un film raro per l'Italia della commedia e dello stereotipo, un “miracolo possibile” che alla fine convince anche i supponenti monelli torinesi, finalmente pronti a chiamarlo in squadra. E sgela perfino i principi dell'attrice off-off, comprerà la tv.

L'imprevisto motore del cambiamento, fuori campo, fuori famiglia, nello sguardo della sconosciuta dove si intravvedono prospettive altre.

giovedì 22 settembre 2016

Muore a 95 anni Gian Luigi Rondi, dalla critica del potere al Potere del Critico



Gian Luigi Rondi a destra con Ingmar Bergman sul set di un programma televisivo Rai


Roberto Silvestri

A 95 anni è morto oggi, 22 settembre, dopo una vita stracolma di onori e potere, Gian Luigi Rondi, l’ex comunista-cattolico poi costretto dal Papa a scegliere e a diventare “cattolico e basta”.
Rondi è stato per oltre mezzo secolo il decano dei critici italiani, cavaliere della Legion d’onore francese a soli 30 anni, un membro influente del Sncci, il responsabile cinema della Dc (e quello ombra del C.C.C. e del Vaticano), il direttore della Biennale cinema e il presidente della Biennale, il presidente della Fondazione Cinema per Roma e della Festa del cinema, il direttore dell’Enciclopedia dello Spettacolo, il fondatore e il presidente dell’Accademia del cinema italiano-Premi David di Donatello, il presidente della Siae (nomina di Berlusconi) e un membro coccolato, fin da quando aveva 28 anni, delle più importanti giurie festivaliere…Ha collaborato a periodici specializzati francesi come Cinémonde e Le Film Français, e con il belga Cinérevue. Critico cinematografico de La Fiera Letteraria, ha tenuto corsi di storia ed estetica del cinema all'Università Internazionale Pro Deo (oggi Luiss), a Perugia e a Milano.
Gian Luigi Rondi in una foto degli anni 80
Ed era un critico che sapeva bene di cosa parlava. Infatti negli anni 50 è stato sceneggiatore per Georg Wilhelm Pabst, Joseph L. Mankiewicz, René Clair, Jean Delannoy e Ladislao Vajda e ha partecipato, anche come regista, alla realizzazione di documentari di carattere storico e biografico (mentre il fratello più giovane, Brunello, allievo di Chiarini, Fellini, Blasetti e Pasolini, ha scelto decisamente la regia, di documentari e film a soggetto, oltre che la didattica, al Centro Sperimentale).
Ma Gian Luigi Rondi è stato soprattutto l’ultimo rappresentante della vecchia guardia della critica, quella anagraficamente forgiata (nel bene e nel male) dal realismo francese e dal neorealismo, di colta (e anche accecante) formazione teatrale e letteraria e di spregiudicata abilità politica, degna di un professionista della Curia Romana o del Soviet Supremo.
Rondi con Alberto Sordi
Ammirava davvero molto anche gli artisti della politica. Non solo De Gasperi e Ignazio di Loyola,  ma perfino il Pcus di Breznev, capace “di gestire con ordine realtà complesse”. E fu molto omaggiato anche nell’ex mondo comunista. Così come nell’ambiente post fascista di Alemanno. Un giorno nella sua casa di via Bertolone a Roma, zeppa di libri magnifici, mi regalò un libro (autografato) di Miguel Littin, che tra i registi comunisti di Allende era quello che mi piaceva di meno (già, sapeva colpire con perfida gentilezza).
Rondi a Venezia con Charlie Chaplin
Peccato. Si è perso l’ultima Mostra di Venezia. Ci mancava la sua immancabile sciarpa di seta bianca sul completo scuro, in sala Grande. E anche i suoi furori critici. Come quando rifiutò di invitare al Lido Blue Velvet di David Lynch (“questo pasticcio è un’offesa alla memoria di Ingrid Bergman!”) o trovava aberrante moralmente e graficamente l’estroversione omosessuale di Pedro Almodovar. Ma avrebbe sicuramente adorato il film di Lav Diaz, perché il cinema lo conosceva a fondo, e La la land (che avrebbe preferito vedere a Roma, dove c’è lo spettacolo e non l’arte sul piedistallo) ma soprattutto Paradiso di Andrej Konchalovsky. Perché parlava un po’ di lui, di una partigiana cristiano che salva la vita di una prigioniera a Auschwitz prendendone il posto nella camera a gas…. Scrisse infatti Dante Matelli su La Repubblica che quando Rondi era combattente nel Movimento armato dei Cattolici Comunisti, si travestì, alla Lubitsch, da ufficiale della Wehrmacht e fattosi consegnare un italiano destinato alla fucilazione, lo liberò: “discretissimo, di questa cosa non si vanterà mai”.
Rondi è stato sicuramente il critico cinematografico più decorato “al valor culturale” del mondo (dell’Est e dell’ovest, del nord e del sud).
Rondi con Federico Fellini
Ha diretto di tutto, ha fondato una Accademia che assegna annualmente i David, ma decidendo lui quali ne fossero i membri (dilatando, da inguaribile bolscevico, il concetto di “personalità culturale” al di là dei limiti consentiti), eppure passa per un premio prestigioso, ma ha partecipato a mille giurie internazionali (quando i critici erano stimati più delle star) e ha lottato perché vincesse a Venezia Rashomon dell’allora sconosciuto Akira Kurosawa, riaprendo la nostra cultura a Oriente. Fu un vero capolavoro diplomatico, poi, la sua giuria tutta composta da esponenti delle nouvelle vagues (da Bertolucci a Oshima a Sembene Ousmane) che assegnò il Leone d’oro a Jean Luc Godard nel 1983, facendo inviperire i critici seduti alla sua destra (Giovanni Grazzini, e il Corriere della sera, in particolare). Eppure collaborava a Le Figaro,
il cui critico ufficiale si diverte, in stile Foglio, a ridicolizzare tutti i cineasti non conformisti del globo. Fu Rondi a presentarmi invece Abdelsalam, e a farmi scoprire all’Accademia d’Egitto La mummia, un capolavoro del cinema cairota che Rossellini aiutò a produrre e che avendo poco a che fare con il ricettario del film divertente spremi emozioni viene bandito dalla critica demagogica tanto alla moda oggi.
Rondi da Marzullo
Dal 1950, quando sostituì Elsa Morante come responsabile radiofonico della rubrica cinema, il valtellinese Rondi (nato nel dicembre del 1921 a Tirano, provincia di Sondrio, figlio di un ufficiale dei carabinieri, ma si trasferisce presto a Genova e finisce gli studi a Roma, dove si laurea in giurisprudenza nel 1945 dopo aver frequentato il Giulio Cesare) è stato la voce ufficiale del cinema secondo la Rai, e per quasi mezzo secolo, fino al 1998. I suoi tanti libri, come Prima delle “prima” (sul cinema italiano) e  7 domande a 49 registi (il 50°, Citto Maselli, unico comunista davvero irriducibile, gli disse no)  testimoniano la finezza delle sue intuizioni artistiche e il coraggio del suo schierarsi. Ma per il suo lavorare nell’ombra del potere Gramsci lo avrebbe definito “un perfetto rappresentante della classe dominante”. A chi si lamentava delle fatiche e degli oneri della direzione, rispondeva sempre: “Ma no. Il potere è bellissimo, ringiovanisce, mai farne a meno”. E dal 2012 aveva perduto tutte le sue cariche …..
Rondi con il produttore Goffredo Lombardo
Però la cacciata di Elsa Morante fu più che un atto immorale, un vero episodio di maccartismo, con Rondi connivente o docilmente usato, perché la scrittrice si era giustamente rifiutata di recensire, per ordini superiori, un documentario prodotto da Luigi Freddi, ex responsabile della cinematografia fascista, appena riabilitato…Il fatto è che Rondi era ben stretto al fianco di Andreotti quando nel 1947 il giovane sottosegretario annunciò che presto sarebbe rinata Cinecittà (il gioiello di Freddi) e basta coi panni sporchi... Andreotti non poté che ringraziare, per quella dichiarazione, gli Stati Uniti, perché fosse dipeso da Londra il cinema italiano sarebbe morto per sempre. E da allora Rondi sarebbe stato anche il consulente cinematografico, ad alto livello, di un altro stato sovrano, la città del Vaticano (da Pio XII a papa Giovanni XXIII a Paolo VI “che ne capiva poco di cinema”….), aprendo un gioco promiscuo che dura tuttora (si veda la Festa di Roma e la scelta “di sinistra” della direzione Monda), e collaborando strettamente anche con il padre gesuita Lombardi, il “microfono di dio”.  Da cui la famosa sferzante e geniale battuta poetica di Pier Paolo Pasolini “Sei così ipocrita che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso / sarai all’inferno e ti crederai in paradiso” (epitaffio che Rondi, naturalmente, adorava, anche perché la tecnica per addomesticare perfino Belzebù, e non solo Francesco Rosi, la conosce perfettamente). 
Con Laura Betti e  Pier Paolo Pasolini
Ho lavorato qualche anno con lui alla mostra di Venezia, assieme a Enrico Ghezzi, Claudio Trionfera e Bruno Restuccia, perché probabilmente Rondi aveva anche bisogno, in quel frangente, di una “copertura” dell’estrema sinistra (allora lavoravo al manifesto), dato che il nuovo statuto della Biennale, grazie alle Giornate barricadiere, aveva decapitato le parti più aristocratiche e fasciste del vecchio (e non ha ancora ghigliottinato le coppe Volpi). Ma non fu facile per me accettare quell’incarico, se non fosse stato per Alberto Abruzzese che insisteva…. Trovavo infatti scandaloso - nonostante la calligrafia critica di Rondi, e l’essersi battuto contro le zone più fanatiche e bigotte della Dc per difendere La dolce vita e il Ken Russell dei Diavoli, e poi il Salò di Pasolini - il suo decennale rapporto di lavoro con un quotidiano, Il Tempo, e con il da lui più che stimato direttore Gianni Letta, che si era particolarmente distinto per aver coordinato bugie e nefandezze giornalistiche, durante tutto il ciclo di lotte 68-77.  Indimenticabile.
Rondi e Ingrid Bergman
Però poi non me ne sono pentito perché ho lavorato senza alcuna pressione con una persona gentile e autorevole, circondato da una squadra di fedelissimi attivi, precisi e generosi (gli straordinari fratelli Longardi, Mario Natale, che sembrava il braccio destro di George Raft, Franco Mariotti... capaci di tenere a bada perfino i mastini della Biennale, quel tesoriere, quel responsabile dell'ospitalità...), ho potuto scoprire film e valorizzare cineasti di grande talento, e poi mi ha insegnato un sacco di cose. Che bisogna lasciare libertà (quasi) assoluta a chi si occupa di sezioni parallele. A resistere (apparentemente) alle telefonate-raccomandazioni di Craxi e Martelli. A organizzare scientificamente un palinsesto da grande festival. A espellere i documentari e i cortometraggi perché in quel momento lo stato italiano non li finanziava e la mostra di Venezia è sostenuta da soldi pubblici. A costruire una giuria in modo tale che si valorizzino le scelte fatte e si premi chi si vuole premiare. Alla diplomazia, quando si tratta di rifiutare un film senza offendere il regista o il produttore, impedendogli odio eterno (tecnica che troppi direttori ignorano). Ma il suo capolavoro politico era un altro. Riusciva a convincere i registi che amava a tagliare il finale, modificare il montaggio, togliere mezz'ora di pellicola. Era più di un regista, di un produttore, di un critico. Era l'angelo custode dei film che prolungava la pratica dello sterminio di emozioni tossiche brevettato in via della Ferratella. Li riplasmava a volontà, quei film, anticipando la legge Mammì (in cambio, poi, li prendeva in concorso). La cosa di Rondi che mi piaceva di più era che pur lasciando molta libertà ma rifiutando alcune mie proposte (perché non mettere un Landis o un Dante o un Edwars o un Bartel in concorso? Forse che la commedia è di serie b?) anni dopo, memoria di elefante, era pronto a pentirsi, o a fingere di pentirsi, e a confessare: “ah, avevi ragione sulla commedia, in fondo il mio maestro era René Clair…”. L’unica vera litigata fu nel 1985 su Donna Deitch e sul suo bellissimo poema lesbico Desert Hearts. Anni dopo mi disse: “Sì, avevi ragione. Bisognava prendere in concorso quel film canadese…”. Ma la politica culturale ha i suoi tempi. La sua ora, il suo mese e il suo anno precisi. Leninista, da sempre, Rondi.
Rondi e Antonioni
La sua carriera è stata infatti un capolavoro di mediazione ecumenica tra i suoi Autori prediletti (da Tati a Bondarciuk, da Wilder a Bresson, da Bunuel a Rossellini) e il pubblico. Penetrare spregiudicatamente nel sistema nervoso e cerebrale di un film e isolarne i punti vitali e quelli malati. Questo il metodo, quasi chirurgico, con il quale ha restituito i processi alchemici delle opere adorate di Bergman e Antonioni, Jodorowsky e Fellini (difendendolo dai suoi denigratori bigotti), Tarkovski e Renoir, Clair e Truffaut, Lizzani e Rosi (a parte Mani sulla città, lì era il partito in gioco). Mai iconoclasti i cattolici. Una scienza dell’immagine maneggiata da secoli li ha resi così sicuri nella valutazione critica che colgono l’eresia nascosta addirittura con il tatto e con l’olfatto. Ma. Non distaccata, non impressionista, non oggettiva, la sua analisi della narrazione e delle psicologie in campo. Piuttosto la sua era una critica che sarebbe piaciuta a Georges Poulet, che si esaltava quando c’era la possibilità di incorporarsi nella scrittura di un’opera, meglio se ascetica, tragica, mai contaminata da tentazioni di mercato o di comunicazione facile e demagogica, di happy end posticcio. Il suo limite, forse generazionale, fu quello di non abbassare mai, come ci invitavano a fare Allen Ginsberg e i poeti beat, il baricentro critico, più giù del cervello, nelle parti basse e non alte del corpo. Gli anni 50 italiani, dal punto di vista della sessualità, furono infatti i veri anni di piombo di quel secolo, delle corazze muscolari imposte, delle ipocrisie fanatiche e bigotte (che Pasolini smascherò acutamente in quell’epitaffio perché conosceva bene chi resisteva al coming out) foriere di tragedie, nevrosi e psicosi (non solo individuali) ma anche di errori, fraintendimenti e incomprensioni critiche, a non finire.  
Rondi e Gina Lollobrigida
Diversamente “rigidi” anche molti altri colleghi critici della sua generazione, che non compresero la rivoluzione delle segnaletiche estreme, il camp, il trash, la sensibilità gay e l’insorgenza di un genere (l’horror spinto) che stava diventando metafora di quegli orrori planetari studiati e profetizzati da Rossellini analizzatore del rapporto Mit. E cioè Grazzini, Aristarco, Biraghi, Kezich, Micciché, Bianchi, Casiraghi e Savioli. A differenza del più raffinato e meno istituzionale e per nulla sessuofobico Giuseppe Turroni, conoscitore profondo della pittura, della fotografia, della musica, della narrativa visuale e soprattutto vitale di quegli anni. Di Cosulich che osava scrivere su Abc e recensire Mekas e dei giovani turchi formalisti e post strutturalisti di Cinema & Film e di Filmcritica, Macini, Cappabianca, Ungari, Aprà, Menon, Donda... 
Con Sylva Koscina e Nino Manfredi
Però per chi della mia generazione si è innamorato negli anni 50 del cinema la presenza ingombrante di Rondi, prima ancora di quella di Edoardo Bruno o Adriano Aprà, era inevitabile, come quella di Sadoul in Francia, che ostruiva l’incontro con Bazin e Daney. Da piccolo, in vacanza, durante la Mostra del cinema di Venezia, quando si invitavano i doc di Pretoria nazista perché chi la dirigeva erano ancora fascisti riciclati, leggevo le belle critiche cinematografiche di Gian Luigi Rondi, belle perché mi facevano sentire proprio come se fossi al Lido, e invece prendevo le granite di limone del caffè Cin Cin di piazza Sant’Oronzo, a Lecce, perché mio nonno, ex operaio delle ferrovie ma fascista, perché i rossi lo schernivano in quanto invalido di guerra (la prima), comprava sempre e solo Il Tempo di cui Rondi era titolare di rubrica. Rondi era anche una faccia conosciuta, una sorta di Marzullo preistorico, il monopolista Rai della critica (radio e televisiva). L’incontro tra i due, sul set del programma cinema di Raiuno, è stato come un passaggio di consegne ufficiale e un bel modo di confrontare le epoche. E di verificare, forse, la morte di quel cinema. Dal mondo di Tino Ranieri si è passati al salotto di Anselma Dell’Olio. Che Rondi ha un po’ anticipato imitando i grandi sofisti: un po’ stalinista, un po’ troppo bacia pile e perfino un pizzico democratico-liberal, supercinico tranne nel sottomettersi all’Impero del Mercato. Negli ultimi anni infatti il berlusconismo non lo ha solo subito ma anche fiancheggiato. Per esempio quando ha voluto rendere omaggio a Gualtiero Jacopetti e al suo cinema così banale così mainstream così ovvio, ma così seducente per chiunque faccia della centralità occidentale un feticcio, per chiunque non si accorga neppure di essere naturalmente, spontaneamente “razzista alla Churchill”. O alla Lorenzin.  Per Rondi questa tecnica del piacere a tutti era frutto di una lunga pratica egemonica e a tutto campo. Non a caso chiese ad artisti eterogenei come De Chirico, Vespignani, Clerici, Caruso e Maccari di fare il ritratto della amatissima madre, morta nel 1979, e che ha considerato sempre la sua unica grande maestra di gusto.
Per me questo deambulare ovunque era un po’ l’annichilimento di tutto il suo percorso critico. Ma c’è chi non può permettersi il lusso di “perdere”. Costi quel che costi. Se no si muore.