Roberto Silvestri
VENEZIA
Jazz. Questa volta quello
vero. Non come La la land. O vogliamo chiamarla Great Black
Classic Music? Fuori concorso nella sezione documentari “I called
him Morgan”, diretto da un veterano del genere e fan svedese da
sempre, anche se ha solo 44 anni, Kasper Collin, che ci ricorda
l'arte sopraffina e la fine tragica di un famoso trombettista
african-american, ucciso nel febbraio del 1972, a 33 anni, dalla
moglie Helen. Ma che ci parla anche e soprattutto dell'assassina. Le
dà la parola. Era proprio lei a chiamarlo Morgan: “Odio il nome
Lee”. Veniva dal sud. Le ricordava il generale razzista della
guerra civile? Helen era diventata mamma a 13 anni. Moglie a 16.
Vedova poco dopo. Raggiunge Manhattan abbandonando i figli in
campagna dai nonni. Le piace la metropoli e la buona musica. Non
lascerà mai New York. Grande cuoca e abile comunicatrice, come si
dice oggi, diventa il punto di riferimento degli artisti e del
vicinato tutto. Una forza della natura. La sua casa è sempre aperta
a tutti. Anche ai figli che la raggiungono, ormai maggiorenni.
Conosce Morgan e il suo giro. Si risposa con lui. Lei troppo più vecchia. 50/30. Ma. Lo salverà
dall'eroina quando ormai il trombettista è all'ultimo stadio della
degradazione. Lui si rimette in carreggiata.
Riprende a suonare.
Incide dischi indimenticabili. Ma la tradisce con una più giovane e
bella anche se ormai, marchio indelebile delle droghe assuefanti,
sessualmente non c'è più molto. Lei lo raggiunge al club. Lui sta
per suonare una song in omaggio a Angela Davis, imprigionata dai
pigs. Lei litiga. Lui la sbatte fuori. Fuori c'è la neve e il gelo.
Torna dentro. Lo incrocia. Urla: “voglio il mio compenso”. Gli
spara con la pistola nella borsetta, l'arma che lui le aveva regalato
affinché si difendesse. L'ambulanza arriva con troppo ritardo. Lui muore. 5 anni di libertà vigilata. Omicidio di
secondo grado. Poco no? Strana sentenza. Forse Morgan, a parte le
attenuanti generiche, stava sulle palle all'establishment per le sue
idee e pratiche radicali e per la sua amicizia con Albert Ayler, che
verrà misteriosamente assassinato forse per motivi politici, e con i
panther (ma il film tace stranamente su questo aspetto. Eppure Collin
ha girato My nome is Albert Ayler...). Chi è nato nel 1972
forse questa materia non la sa proprio maneggiare o gli hanno
insegnato a trovarla “ideologica” coloro che di materialistico
hanno ben poco. *
Lee e Helen (a destra) |
Helen tornerà in Nord Carolina. Si dedicherà ad attività benefiche. Andrà all'università
per anziani. Conoscerà un professore esperto, oltre che di storia e
cultura africana, anche di jazz, che la intervisterà prima della
morte, nel 1996. Quei nastri sono la base su cui Collin ha costruito
il film. Adornandola con una intervista a Lee, ai suoi colleghi
musicisti, ad amici di quartiere, a parenti e all'amante fatale.
Oltre alle registrazioni televisive dell'artista superdandy che con
Miles Davis e Art Blakey, Thelonious Monk e Wayne Shorter simboleggiò
quella particolare atmosfera di cool jazz che fu catturata negli anni
50-60 dall'etichetta (bianca) Blue Note, prima della rivoluzione free
che lui contribuì a far nascere.
Erano artisti di tecnica
impareggiabile, charmant, meravigliosamente vestiti, sfacciatamente
seducenti e stracopiati dai loro omologhi bianchi che, come racconta
Leroy Jones, più li invidiavano e più si arricchivano. Moderno,
essenziale, straboccante idee, dal virtuosismo fantastico e
sorprendente, Lee Morgan era arrivato da da Filadelfia e aveva
conquistato subito Manhattan da sedicenne, entrando nell'orchestra di
Dizzie Gillespie che non aveva paura di confrontarsi con un ragazzino
capace perfino di sopraffarlo. “Vai Lee, racconta la tua storia”.
Il jazzista con maggiori capacità narrative ed emotive delle storia,
così diceva Art Blakey che lo avrà con sé nei Jazz Messangers e
così confermano i suoi colleghi di quartetto e di quintetto, come
Jymie Merritt e Wayne Shorter. Quello che manca al film, di
produzione svedese dunque la cosa è incomprensibile, però è lo
sfondo politico di quegli anni, la fuga dei musicisti radicali in
Europa, la repressione durissima del movimento, a cui Morgan
partecipò attivamente. Un inquietante vuoto.
* A proposito di
ideologia. Da qualche parte, cioé su Film Tv, leggo che il
documentario di Munzi sul sessantotto-settantasette sarebbe “sugli
anni di piombo”. E magari uno legge la frase e dice: eh già...
proprio così......
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