Lav Diaz, il vincitore, per ora moraled |
Roberto
Silvestri
VENEZIA
Il
ventisettesimo film diretto da Lav Diaz. Ma anche quelli di Wang Bing, Emir
Kusturica, Benoit Jacquot... La cosa più sorprendente della Mostra
73 è che sono stati stipati tutti negli ultimi due giorni (forse per
costringere gli ospiti a restare fino alla fine, come fa Cannes) i
film che, più direttamente infuriati politicamente alcuni, più
teorici e di autoriflessione sul mezzo gli altri (A jamais, da
Dom De Lillo di Benoit Jacquot è un'opera squisitamente
metacinematografica, strano che la Croisette l'abbia respinta), hanno
maggiore dimestichezza, rispetto alle operine alla moda di Tom Ford e
Chazelle, con il cinema e la sua secolare tradizione di lavoro duro
sulle immagini, sul tempo, sulla tavolozza cromatica e spaziale, sul
sonoro, sul movimento, sulla recitazione, sulla storia e sulla
battaglia delle idee, tra cielo e terra e delle armonie. Il cinema
filippino poi è oggi grande e bello almeno quanto il ciclo di
immigrazione delle sue donne che stanno rendendo tutto il mondo più
pulito e vivibile.
Lav Diaz poi è un erede di Lino Brocka. Non parla
di fumo ma artiglia i suoi drammi di vita vera ben dentro le lotte
politico-sociali del paese. E un polistrumentista dell'arte davvero
unico. Poeta e musicista oltre che total filmmaker, ha anticipato le
serie tv nordamericane realizzando, scrivendo e montando film
appassionanti e a bassissimo costo lunghi fino a nove, dieci, dodici
ore, ma come se fosse John Ford a tracciarne i sentieri morali (anche
se sembrano selvaggi) e non un esperto in sondaggi. E questa volta
merita un riconoscimento internazionale forte. Visto che finora ha
vinto solo a Locarno, e a Berlino e Venezia non l'Orso né il Leone.
Sarebbe scandaloso mandarlo via a mani vuote. Ma di Mendes & co.
non mi fido.
Charo Santos-Concho in La donna che partì |
Dunque
La donna che partì (Ang Babaeng Humayo), dramma in tagalog
della vendetta. Quasi quattro ore e in bianco e nero. E' ambientato
nell'isola di Mindanao (dove Diaz è nato), durante i famigerati anni
novanta dei sequestri di persona più efferati (e mentre moriva,
siamo esattamente nel 1997, Madre Teresa di Calcutta e veniva
assassinata lady Diana). Non che oggi non sia peggio visto che il
nuovo presidente minaccia ancora più squadroni della morte e chiama
Obama “un figlio di puttana”. The women who left è stata
la prima vera grande esperienza emozionale schermica (e fuori campo)
di questa edizione. Sala azzittita. Nessuno si alza, nonostante la
sfilata di lunghi piani sequenza, che generalmente aizzano alla
grande fuga, forse perché il gioco cromatico dei grigi, dei neri e
dei bianchi è da caleidoscopio manovrato da un prestidigitatore
sopraffino. Dunque. Leone d'oro alla regia, coppa per la migliore
recitazione femminile a Charo Santos-Concho per il ruolo di Horatia
Somorostro, i mille volti della donna filippina di oggi colti in
profondità e semplici tocchi sintetici: dura, pia, laboriosa,
canterina, danzerina, assassina, meditabonda, compassionevole,
poetica, incazzosa, sola...insomma una personalità poliedrica,
contraddittoria e non facile da riassumere in un solo aggettivo,
perché una vita, come ha scritto Tolstoj in Dio vede la verità
ma non la rivela subito che è
il racconto che ha ispirato il film, è frutto più della casualità
che della linearità di un tragitto esistenziale. Peccato che
si chiami ancora coppa Volpi (perché prendersela con i nostri tifosi
che salutano la nazionale come se fossimo ai tempi di Pozzo?
Prendiamocela prima con i vari Francheschini). Senza neppure
discutere darei anche un premio tecnico-artistico al direttore della
fotografia (sempre Lav Diaz, autore totale, solo Daniele Ciprì è
alla sua altezza) o allo scenografo (Popo Diaz, è un parente?) che
disegna carceri, interni di case, ristoranti e baracche destinate
alla demolizione gerontografica con il cuore oltre che con le matite.
Horacia
si è fatta 30 anni di carcere per un omicidio che non ha commesso
perché è caduta in una trappola escogitata dal boss mafioso locale,
furioso perché respinto da lei. Torna nel paese dopo la confessione
della vera colpevole. Acquista una pistola al mercato nero. Aspetta
il giorno e il luogo giusto per fare giustizia (una chiesa sarebbe il
massimo, ovviamente, vista la connivenza tra potere materiale
criminale e potere spirituale). Intanto Horacia ci fa scoprire con
esattezza il luogo in cui vive e trama: grande ricchezza per pochi e
immensa povertà per tutti gli altri. Lei sopravvive gestendo di
giorno un ristorante con cameriera zoppa e adorato cuoco e gironzola
la notte vestita da uomo, come fosse un Batman giustiziere filippino.
Fa del bene ai derelitti del posto. A un gobbetto che vende
street-food risolve il problema del ricovero in ospedale (troppo
costoso) per il figlio che si è avvelenato mangiando cibo avariato;
a una cameriera sfruttata a vita regala terre da vendere a buon
prezzo; a una straccivendola con mille figli, dà da mangiare, e
salva la vita a un travestito di nome Hollanda, massacrato di botte e
struprato da un nugolo di nullafacenti “nocturnal animals”. Lui
gliene sarà grato eternamente, fino a sdebitarsi in un modo tale da
far vergognare Tom Ford e la sua nostalgia perversa per il retrogusto
fascista di Il giustiziere della notte e
di chi si fa giustizia da sé. Lunghi dialoghi, mai
didascalici, permettono di incorporarci nella struttura di potere e
nella storia di classe della zona (adiacente a un centro di
guerriglia prima maoista e poi islamista decennale), nel tessuto
morale dei personaggi, ricchi di chiaroscuri. Perfino il boss mafioso
ha qualche scrupolo. Perfino la nostra eroina ha degli scatti di ira
violenti che segnalano come il carcere riformi davvero la psiche del
malcapitato innocente. E poi lo schermo. Ai quattro angoli del
rettangolo solo cielo e terra, quasi mai cemento. Non un piano
sbagliato, non una luce senza senso, non un secondo di troppo, non un
campo lungo sprecato, perché tutto serve a disegnare la mappa degli
eventi, le dinamiche prospettiche, profondità di campo e campo
piatto, le strade sbarrate, il gioco barocco degli spazi interni
aperti e di quelli esterni chiusi (come la minacciosa spiaggia
notturna mai così dark). Mai un errore di “background, medground,
foreground”...cioé quando si piazzano tre attori uno più
ravvicinato dell'altro e uno sullo sfondo, e proprio la loro
collocazione, lì e non altrove, fa avanzare il racconto e ti
spiattella il peso morale specifico delle loro azioni e delle loro
parole. E' strano Wang Bing e Lav Diaz sembrano usciti dalle scuole
di cinema dell'Usc o dell'Ucla californiano, tanto maneggiano bene i
fondamentali della azione visiva, ed ecco perché non annoiano mai i
loro lunghi film, e si scoprono avidi lettori delle lezioni di Bruce
Block (The Visual Story) il manuale che ha formato la
generazione più agguerrita di sforna-blockbuster, insegnando a
ottimizzare l'effetto emozionale voluto, lì fai piangere, qui fai
ridere, lì dinamizzi il climax, qui fai un vuoto emozionale, lì
tieni in pugno la platea con un suspense insostenibile, qui vivacizzi
il ritmo.... La loro lettura del manuale certo non è superficiale.
Impara l'arte e poi mettila da parte.
Wang Bing |
Specialista,
dal 2002, in immagine statiche che vibrano, Wang Bing, il fotografo e
poi documentarista di profondità che si potrebbe definire quasi un
“oculista del reale”, è arrivato a 14 ore di immagini corrosive,
e non sempre confortevoli, a proposito dei fondisti cinematografici,
in Crude Oil, un'istallazione del 2008. Ed è stato appena
consacrato nel numero estivo di Film Comment con
un articolo intitolato “Il peso del mondo” che lo colloca tra i
critici spietati del gusto melodrammatico e apologetico della “quinta
generazione” e tra i fondatori del New Documentary Movement che si
propone di catturare la nuda esistenza dei dannati della terra di
oggi, di chi è più invisibile o d'intralcio (come le minoranze
etniche di cui parla in Ta'ang,
2016) assieme ai colleghi Jia Zangke, Zhao Liang, Huang Weikai, Wang
Chao, Lixin Fan e Du Haibin. E
anche ad alcuni cineasti occidentali che per trovare bellezza e
ricchezza spirituale devono fare i conti con la miseria più
miserabile e guardarsi dall'incurabile perversione del populismo
(Pedro Costa, o i fotografi Jacob Riis e Lewis Hine). Wang
Bing prosegue, qui con
finanziamenti e creativi anche francesi, la sua spietata indagine
sulla Cina di oggi (rurale, marginale, postindustriale) arrivando con
sottile ironia all'inchiesta operaia nel suo Bitter Mony,
soldi amari, a colori, in
concorso nella sezione Orizzonti. Non si tratta però dell'
“inchiesta operaia” di tradizione maoista drastica, anche perché
qui uno dei tre pilastri dialettici sembra proprio andato in vacanza.
L'antitesi. Niente lotte. Niente organizzazione. Nessuna
cospirazione. Pare che sia svanita perfino la “rabbia” (ma siamo
sicuri di intravederla nel fuoricampo e nello sguardo di chi filma)
che negli Usa, dalla fine dell'800 ha sostituito, come antidoto
dell'immaginario (i beat, i freejazzmen...) il partito di classe, che
invece in Cina si è auto fatto fuori con astuzia, mettendosi al
potere per non intralciare gli affari. La tesi è che la
globalizzzione sta distruggendo (provvisoriamente?) la classe operaia
cinese del settore tessile, in particolare, ma si parla anche di
immensi problemi nei settori minerario, metallurgico e
petrolchimico... E, sia nelle piccole che nelle grandi fabbrica lo
sfuttamento intensivo è lo stesso. Paga bassa, anzi subumana, 12 ore
di lavoro senza contare gli straordinari, nessuna tutela
pensionistica o sanitaria perché il precariato ovunque impera,
particolarmente penalizzate le donne, bersaglio prediletto delle
frustrazioni domestiche. Dunque emigrazione interna frenetica. Si
vaga come in Zombi di
Romero.
Wang Bing cerca di scoprire un barlume di opposizione a
questo ubbidire imposto. Il contrattare con il padrone il prezzo dei
piumini, non si può scendere, per il subappaltatore, sotto gli 11-12
yuan. Ma il padrone preferisce non produrli più. Oppure.
L'ostinatezza di una moglie picchiata e cacciata dal marito senza un
soldo, per esempio. E che non può chiedere aiuto alle istituzioni.
Assenti. Ma solo contrattare, con un amico comune, una buona uscita
non troppo umiliante. Il tutto avviene, ed è immaginabile, con
devastanti ripercussioni sulla psicologia di massa di un paese nel
quali i soldi, per decenni, non hanno contato nulla (nel 2013 'Til
Madness DoUs Part analizzava
l'universo concentrazionario
manicomiale in Yunnan). Si lascia questa volta in treno veloce, ma
scomodo, lo Yunnan per arrivare nelle metropoli della costa orientale
dove brulica il precariato. Seguiamo tre o quattro di questi
lavoratori part-time che vanno al mattatoio. I rapporti privati si
fanno sempre più violenti e oppressivi. Sopratutto nelle briciole di
tempo strappati al lavoro.
Anche Wang Bing utilizza cambi di focale
per stringere e allargare il campo visivo con perizia, accarezzare i
buoni e strangolare i cattivi. E' la tecnica dell' “immersione
distaccata” del cinema diretto, alla Wiseman. Così distaccata che
a un tratto, anche se vediamo solo cinesi in campo, sembra di
guardare quel che avviene in tutto il mondo, là dove non c'è
neppure uno straccio di partito comunista, né al potere né
all'opposizione.
Fuori
concorso Benoit Jacquot è in cerca del tono giusto, e non sempre lo
acchiappa, per dare la vista e la vita a un racconto di Dom De Lillo,
The Body Artist, in A
Jamais, prodotto
da Paulo Branco e girato in Portogallo. Vi si racconta la storia
d'amor fou tra un cineasta, Rey (Mathieu Amalric) e una performer,
Laura (Julia Roy) che il regista incontra in un museo d'arte
contemporanea mentre si esibisce in tuta nera e movimenti di danza
minimalista, parallelamente alla proiezione di un suo film. Scatta la
passione e lui, piantata la sua musa di sempre (Jeanne Balibar), la
porta con se', sulla sua moto veloce, in una villa ultra chic sul
mare, dai colori grigio-marroni come le cucine Scavolini più care,
dove vive e lavora Rey, senza che strani rumori provenienti dal
soffitto (l'inconscio?) lo turbino più di tanto. Morto in un
incidente di moto (o suicida?) il regista riappare (i rumori erano
dunque una anticipazione profetica) alla donna come sogno ostinato,
spettro delicato, ologramma di realistica perfezione. Con i suoi
gesti, le sue parole, la sua presenza e una ossessiva passione on
line per una inquadratura fissa autostradale (di cui si capirà il
senso nel proseguo). La donna prende appunti e se ne avvarrà per una
performance di immenso successo, e sfondo autostradale, una volta
elaborato il lutto, smaltito lo shock e pagato l'affitto (salato)
all'antipatico padrone di casa.
Ci
sono ancora due film del concorso di cui vorrei parlare prima che i
giochi siano fatti e i premi annunciati e discussi. Ha avuto molto
successo di critica e di pubblico Il
cittadino illustre, diretto
con entusiasmo dalla coppia argentina Mariano Cohn e Gaston Duprat.
Il copione che mi ricorda un film di Fabio Capri, è tutto gettato
sulle spalle dell'attore protagonista Oscar Martinez, attento a non
trascinare tutto nel grottesco più facile, e a rendere verosimile,
quasi realista, e zeppo di spunti comici, il ritorno a casa, dopo 40
anni, del suo personaggio.
Uno scrittore, un po' orso di carattere,
che ha vinto il Nobel (non come Borges) ma – nessuno è profeta in
patria - lo ha fatto a spese del paesello di origine, Salas,
descritta come un inferno piccolo borghese ipocrita nella fede e
sciovinista, pronto ad ogni orrore per denaro e a buttarsi tra le
braccia di qualunque sanguinario dittatore.Cosa che ha fatto. Ovvio
che il ritorno a casa, per Daniel Mantovani, si rivelerà meno
glorioso del previsto ed è soprattutto collegato a un suo grande
amore mai dimenticato. E, tra una lezione di scrittura e l'altra, una
conferenza contestata, un premio di pittura truccato e
l'inaugurazione della sua stessa,orribile statua, Mantovani ha modo
di riallacciare antichi legami e aggiungerne di nuovi e freschi. Gli
sarà fatale quello con la figlia, molto intraprendente, della sua
antica fiamma. Il gioco riesce e la commedia sfiora punte quasi degne
delle migliori commedie serve o ceche (Menzel, Sijan). Daniel
Mantovani riesce a diventare in pochi giorni l'oggetto dell'odio di
tutti. Fino a rischiare la pelle accettando di partecipare a una
battuta di caccia al cinghiale notturno senza rendersi conto che il
cinghiale è lui è chi spara il marito della sua ex amante e il
padre della sua nuova amante. Ma ne trarrà un libro con il quale
potrà continuare a vincere premi, offenderndo tutti coloro che, dai
compaesani agli accademici di Svezia, non si rendono conto che l'arte
è ilcoraggio di dire la verità, nient'altro che la verità. Per
quanto spiacevole sia.
la fascista antifascista |
Non
è d'accordo Andrei Konchalovsky che riesce a diluire con il tono
della barzelletta perfino la più grandi tragedia del Novecento. In
uno dei peggiori film, se ben lo si scruta dentro, tra quelli visti
in concorso (poiché la maestria del cineasta è risaputa). Ci sono
quattro personaggi. Olga, una gran dama, russa bianca e bionda,
scappata in Francia al comunismo, frequentatrice di raffinati festini
nazifascisti in Italia durante gli anni trenta, che finisce nel
lager per aver cercato di salvare (chissà perché) dei bambini
ebrei. Forse per un carattere stravagante e una certa elegante
superiorità superba che avrà modo di manifestare a fine film, per
colpa del copione.
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