Roberto Silvestri
VENEZIA
I film italiani, fuori
dalla competizione ufficiale, presentati in questi giorni, e firmati
Cristiano Bortone (Caffé), Irene Dionisio (Le ultime
cose), Michele Vannucci (Il più grande sogno), Edorado De
Angelis (Indivisibili) e dall'italoamericano Matteo Borgardt
(You never had it: an evening with Charles Bukowski) sono più
sorprendenti e densi del solito e dotati di un design più
internazionale, incidono personaggi non evanescenti e modulano la
rabbia etica del fuori campo con un efficace gioco degli spazi e
della narrativa visuale, sia codificata nel genere che fuori schema.
Sembra che i giovani cineasti allevati nelle scuole di cinema non
solo italiane stiano tornando indietro nel tempo o deambulando al di
là dei confini europei, a (ri)pescare immagini e stili dimenticati
del passato ma ancora efficaci. Si può girare un Blasetti alla
maniera di Lav Diaz o viceversa? O Emmer che fa Calligari?
Calligrafismo più gatto selvaggio a rompere il bel giocattolo? Si
possono purificare e rendere più taglienti e meno esibizionisti e
plateali Sorrentino e Garrone? Dunque sono film di originale
personalità e di feconda tensione formale. Edoardo De Angelis in
Indivisibili (che sembra il vero successo della Mostra visto
che dalle Giornate del cinema volerà presto a Toronto e a Londra)
riplasma la retorica della napoletanità marginale, che è difficile
da maneggiare dopo Gomorra, Capuano
o Di Costanzo, senza far della cattiva maniera e attraverso un lavoro
certosino sui dettagli e sulla recitazione uguale/diversa delle due
stupende protagoniste, le gemelle siamesi che non sanno bene se
masochisticamente continuare a vivere insieme o se affrontare la vita
sole solette, si lascia attrarre dalla ricetta cormaniana (azione,
yacht, violenza sotto le righe, detriti del rock, donne forti e
determinate, movimento, sacrilegio, musica, scene al limite
dell'horror, esplosioni emozioni...) ma non dal magnetismo
imperante in tv del “cattivismo” e delinea una strategia di
liberazione femminista, anzi doppiamente femminista, appassionante.
Cristiano Bortone, che del
gruppo è il più esperto, anche per merito dell'anagrafe, maneggia
una tastiera internazionale ambiziosa e il suo design è cosmopolita
arrivando a sfiorare il gusto sinfonico dei paesaggisti cinesi della
quinta generazione (il “sorgo rosso” questa volta è una
insuperabile qualità di caffé, sofisticata, ma grazie a madre
natura) mixato all'immagine scabra del disastro postindustriale, alla
Wang Bing, in un film in tre episodi che sembra leggero ma è
insostenibile, schiacciato da tutto il peso del mondo. La “no
future generation” italiana, il razzismo e il risentimento etnico
producono sadismo contaggioso e stupidità di massa che non sfuggono
all'occhio clinico di Bortone, dai crimini dei nuovi ricchi cinesi
alla “brutalità oscena” dei fiamminghi proletari e degli
immigrati arabi-iracheni, altrettanto emarginati (descritti con la
grazia nevrotica di Nouri Bouzid) alle coreografie criminali nelle
torrefazioni prestigiose di Trieste. Tutto questo fa di Caffé
(evento speciale delle Giornate degli autori), un film non qualunque,
e non solo perché indica una linea di tendenza coproduttiva con
Pechino ghiotta e necessaria, ma anche perché è un oggetto
pericoloso di tipo mitteleuropeo, anche senza complicare le cose come
fa Jarmush con le sigarette. Non a caso il fraseggio è privo di
orpelli, loosiano, omaggio al panorama giuliano, uno dei poli
geografici che accendono questo gioco visivo triadico sul tema della
droga caffé e delle sue fasi di assaporamento (amara, aspra e alla
fine profumata, nonostante le multinazionali che lo gestiscono,
omologano e sfruttano).
MirkoFrezza (a sinistra) in "Il più grande sogno" |
Il girovagare interno e
intorno alla tradizione nazionale, quella più esportabile e recente
ma anche quella più antica e dimenticata ci porta a Michele Vannucci
che si confronta con l'ultimo Claudio Calligari, e se ne distacca
anche, in Il più grande sogno (sezione Orizzonti). Periferia
romana, epoca (ma non legami con) Mafia capitale. Mirko Frezza,
“bandito” massiccio e dai lunghi capelli, racconta e sa mettere
in scena con disinvoltura la sua vita “in stato d'allarme”, tra
ambiente e redenzione, e ci dice che le sue opere, sia di bene che di
male, possono trovare una sintesi se ci si dedica all'attività
politica di base, presso un comitato di quartiere che lui gestisce
agevolmente, grazie al radicamento nel territorio, che più profondo
non si può, perché non è mai stato un infame. La sua
riabilitazione voluta da una amica che si dà da fare a Corviale, e
bisogna essere davvero ostinate, coinvolge un amico di furti e
rapine, sulle prime perplesso, Boccione, che poi si affezione al
progetto stile Michelle Obama di dotare la zona di un orto comune per
piantare i pomodori ma poi viene inquinato e messo in discussione sia
dai burocrati del comune (epoca Alemanno, immagino) sia da più
profondi legami di sangue. La famiglia naturale è una brutta bestia,
ci dice il film. Bandito, figlio di bandito, trova proprio nel padre,
coatto drastico e irriducibile, sempre nei guai, e finalmente al di
là della retorica, il suo peggiore nemico.
Cristina Rosamilia in "Le ultimne cose" |
Chi si collega in qualche
modo alla lezione civile che va da Francesco Rosi ad Antonio Morabito
(Il venditore di medicine), cioé al cinema di denuncia,
mettendo al microscopio questa volta il microcosmo “banco dei
pegni”, per aggredire il macrocosmo bancario così pervasivo nella
nostra vita di tutti i giorni e devastante, non può non complicarne
l'andamento neorealista, visto che il mondo cambia freneticamente
anche nella nostra percezione della cronaca vera catturata nei suoi
picchi emozionali. Dunque si può ricorrere alla lezione
necrorealista di Matteo Garrone, raffreddandone magari le punte più
espressionistiche ed esibizioniste, come fa il film scelto dalla
Settimana della critica, di Irene Dionisio (Le ultime cose),
allieva di Daniele Segre e dunque incapace di commettere peccati di
lussuria visiva o di cinismo etico. Insomma Bresson. Anche perché le
sue collaboratrici sono di idioma francese, Aline Hervé (montaggio)
e Caroline Champetier (fotografia). Credo che sia inoltre il primo
film, da molti anni, che riesca cogliere tutta la potenza recitativa
del più introverso tra i mattatori del nostro teatro, Roberto De Francesco, una vera forza della natura subliminare, che qui è il
cattivissimo Sergio, mefistofelico quanto più la sua recitazione è
a levare e non ad aggiungere e soprattutto è finalmente prismatica.
Chi deve truffare le anime perdute del banco dei pegni, dentro e
fuori l'edificio, dove si aggirano i malandrini del prestito, deve
essere infatti capace di indossare uno spettro di personalità. La
maestria di Irene Dionisio anche come sceneggiatrice si esprime bene
perché riesce a dotare i suoi personaggi di doppia e tripla
personalità, dal trans Sandra,c ripudiata dalla famiglia, al giovane
Sefano combattuto tra ossessione d'amore e culto del posto sicuro a
Michele, ex facchino disperato che accetta di essere quel che non ha
mai voluto diventare.
Charles Bukowski |
Un altro evento, davvero
speciale, delle Giornate degli Autori è l'incontro ripreso nel 1981
dalla giovane corrispondente a Los Angeles di Repubblica
Silvia Bizio, spedita una bella notte in casa di Charles Bukowski per
una intervista. Un incontro finito alle ore piccole e accompagnato da
buon vino rosso, alla presenza di operatore video, fonico, e amici
dello scrittore. Quei nastri videomagnetici, utilizzati in minima
parte per il pezzo, erano poi stati riposti in scatole introvabili
nel garage e che, ritrovati trent'anni dopo e rivisti e studiati,
sono diventati il materiale di partenza per un film di 50 minuti,
ripensato dal figlio di Silvia Bizio, e montato con la collaborazione
di Cristina Sammartano, aggiungendo quadretti odierni di Los Angeles,
ripresi in super8, e poesie lette fuori campo. L'idea di fondo di
Matteo Borgardt, dando un'altra forma al materiale di repertorio
“grezzo”, è stato quello di piazzarci, come la mamma Silvia,
dentro il salotto di Bukowski e di Linda Lee Beighle, e farci girare
per la sua casa di San Pedro, California, terrazzo incluso a sentire
aneddoti e “perle di saggezze” alcoolicamente scorrette, ridendo
con i suoi amici e scoprendo cimeli, come la famosa fotografia in
bianco e nero di Hemingway che dorme, sbronzo come una cucuzza, su un
divano. Foto che nessuno “avrebbe mai e poi mai dovuto vedere”.
No, non è Hemingway lo scrittore prediletto da Bukowski. Quando
diventi più grande lo abbandoni subito. Il suo quartetto d'affezione
è invece composto da chi ha altri ritmi di vita. Céline, John Fante
(“ha raccontato il mio quartiere, i locali che frequentavo, la
gente che amavo e con cui litigavo... mitizzavo la finestra della
stanza nella quale io credevo scriveva i suoi capolavori),
Dostojevski e D.H.Lawrence. E poi gli scrittori non gli piacciono.
Non li frequenta. “Parlano solo di sé stessi e citano le frasi
delle loro poesie e dei loro libri a venire. Insopportabili”. Il
sesso, invece? “Lo mettevo di qua e di là, perché se no non li
vendevo i miei romanzi”. E ride sornione, dopo aver premesso: “Ma
non credere troppo a quello che dico”.
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