Laurie Simmons |
Roberto Silvestri
VENEZIA
Il grande cinema
hollywoodiano classico, anni trenta-anni cinquanta, quello dello
studio system, dei generi codificati, del codice Hays e dello star
system, è diventato oggi, a livelo di business, soprattutto la
materia aurea per canali televisivi a pagamento, digitali o
satellitari sparsi per il mondo. Ma il fascino di quel cinema in
bianco e nero o a colori, perfetto in ogni dettaglio fotografico e
scenografico, e la nostalgia delle sale affollate della società di
massa affamata di divi, vestiti perfetti e regole etiche certe, sono
stati un serbatoio iconografico e concettuale irresistibile per gli
artisti, dalla pop art fino a The clock, 24
ore di materiali di
repertorio per lo più hollywoodiano, montati
seguendo lo spostamento delle lancette, secondo dopo secondo (un film
che vinse anni fa la Biennale Arte). Nonostante regole censorie
ferree a controllare sostanze conoscitive sulfuree, quel che
affascina oggi è la libertà impertinente e deformante che pulsa
sopra e sotto quelle immagini, obbligate a far profitto e non a
cementare ideologie (come nel parallelo cinema europeo), il
conflitto, nel simbolico, mai rimosso, sul terreno sociale, politico
e sessuale, e la cavalcata verso l'happy end, che scodellava con
umorismo tutte le carte in gioco, non nascondeva la possibilità di
altri happy end possibili e coinvolgeva la ricezione al desiderio di
trasformazione della propria vita, di osare mutazioni. Pensiamo al
miglior finale della storia del cinema, a quel “nessuno è
perfetto” di A qualcuno piace caldo che coincide con
l'inizio della battaglia cruenta per imporre, come accadde al
Village, l'orgoglio omosessuale, travestismo compreso.
Laurie Simmons |
Perché non
riprodurlo oggi? Non rifare esattamente un'opera d'arte come si
faceva nel rinascimento e nel barocco? Gus Van Sant no ha forse osato
il sacrilegio con Psycho? Anche se Joe E. Brown e Jack Lemmon
non ci sono più e qualunque tentativo di imitarli produrrebbe
differenze e frustrazioni, sancirebbe l'impossibilità di realizzare
una copia perfetta di Morocco, Strega in paradiso, Picnic, Via col
vento, Jules et Jim, Un tram che si chiama desiderio, Il selvaggio,
Gli spostati...Ma può un'artista sessantacinquenne, anche se
magra e ben messa rifare Marilyn Monroe? Basta una parrucca bionda?
E' quel che cercherà di fare, scena dopo scena, Ellie Shine,
insegnante d'arte e artista che non ha ancora sfondato, e che con il
suo cane malandato Bing passa un'estate nell' upperstate, nella
fantastica villa, presso Woodstock, di una collega insigne in giro
per il mondo.
Posey Parker in My Art |
Dotata di Bolex digitale di alta affidabilità e di un
set di luci apparentemente inadeguato riuscirà a ricreare, tramite
trasparenti e “magie”, il clima perfetto di uno Studio da major,
per i suoi esperimenti cinematografici “en travesti” di
clonazione delle scene celebri, assieme a una band raccogliticcia:
due vicini di casa, i giardinieri della villa, Frank, anziano vedovo,
e Tom, giovane sposato a una più anziana Parker Posey (mozzafiato),
e un ospite provvisorio (il padre di un suo allievo modello) che si
riveleranno tutti attori eccellenti, di professione o “naturali”.
Il quartetto riuscirà a produrre materiale tale da mandare in
visibilio i critici d'arte più snob del mondo, quelli di Manhattan.
E qui siamo nei territori, e raggiungiamo le altezze camp, di A
Bucket of Blood di Roger Corman, Fuori orario di Scorsese
o Pecker di John Waters. Ellie Shine è l'alter ego
imperfetto, sfocato, a sua volta inimitabile, dell'artista
newyorkese, geniale fabbricante di giocattoli pop, microscenografie,
innesti improprii e marionette ventriloque, Laurie Simmons che
scrive, dirige e coproduce (assieme a Andrew Fierberg, ricordate
Secretary?) questa storia, My Art, che non è il suo
primo film perché nel 2006 Simmons firmò The music of regret,
con Meryl Streep,
proprio mentre tanti altri
artisti visivi (pensiamo a Julian Schnabel, Cindy Sherman) compivano
il grande passo warholiano di diventare registi e le gallerie d'arte
cominciavano ad appendere sempre più immagini in movimento alle
pareti.
Il merito dell'operazione va in larga parte al direttore
della fotografia, Tom Richmond, che effettivamente riesce a
riprodurre quel che non è riuscito a Chazelle. Il gioco delle luci
anni trenta (von Sternberg) quaranta (William Powell in Il
signore e la sirena di Irving
Pichel, 1948) cinqanta (Joshua Logan) e perfino quello cool degli
anni sessanta, by Richard Quine. Al gioco partecipano Barbara Sukova (anche nelle vesti di cantante), Lena Dunham (artista), Robert Cohessy, John Rothman, Josh Safdie.
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