Mariuccia Ciotta
VENEZIA
Un americano a Parigi o un
francese a Hollywood? Tutte e due. Damien Chazelle, 31 anni, nato a
Providence, Rhode Island, porta il cognome del padre nato in Francia
e studia cinema a Harward dove si insegna Minnelli e il musical
fiammeggiante degli anni 50, a giochi cromatici perfetti (Oscar a
John Alton), con Gene Kelly che piroetta avvinto a Leslie Caron
mentre le fontane zampillano luci e la Senna è un tappeto di acqua
ricostruito in Studio. Los Angeles vista dall'università di Boston
ha gli stessi cieli dipinti, panorami vertiginosi dall'alto di
Muholland Drive e tramonti rossi sul Sunset Boulevard. In questo
cinema “amatoriale” si sente il profumo delle origini, il
silent-movie che piaceva a un altro regista francese, Michel
Hazanavocius di The Artist, tanto che Chazelle usa il
mascherino di Méliès per inquadrare Ryan Goslyng e Emma Stone in La
La Land, musical in concorso che ha aperto la 73ma Mostra di
Venezia.
Valanga di sovrimpressioni con il
musical dalle origini a oggi, mappa delle star per turisti cinephiles
e un po' jezzofili, così amabile e nostalgico da valere un Golden
Globe quasi certo e un Oscar probabile. Fotografia che gioca ai
colori incrociati di Linus Sandgren. Lui bianco lei nera, e viceversa
(come in Grease), lei calda di rosso, lui azzurro cool, e
viceversa... Ma nel dittico Jacques Demy i colori pastello danzavano
liberi, qui le macchie marroni del completo di Goslin imprigionano,
indicano, segnalano la flagranza di una star.
L'entusiasmo prima e dopo la proiezione
risente della passione per i principianti, prediletti anche da
Chazelle, il regista pluripremiato per Whiplash, storia di un
giovane batterista ginnasta e militarizzato, qui sostituito da un
ambizioso pianista jazz, Sebastian (Gosling), quasi un
fondamentalista monkiano, e da un'aspirante attrice del jet set, Mia
(Stone).
Il film inizia su una freeway di Los
Angeles con un numero di ballo collettivo irrealistico e vitalistico
che si rifà ai numeri acrobatici all'aperto, al contagio della joie
de vivre di Cantando sotto la pioggia e prima ancora del
Mamoulian di Amami stanotte, ma finisce come uno spot
pubblicitario della CocaCola con l'orchestrina dixieland in agguato
dentro un furgone.
Chazelle sforna cartoline d'epoca –
abiti e decappottabili sono vintage – da ogni angolo della città e
del cinema, l'Osservatorio di Griffith Park, per esempio, dove
Nicholas Ray inquadrò James Dean e Nathalie Wood. Ambienta negli
Studios Warner, là sotto la finestra di Casablanca, e attenzione al
finale strappalacrime.
In La La Land (La
sta per Ellei) si sente il rumore farraginoso della
macchina da presa che tenta invano la ginnastica ritmica di Stanley
Donen e incolla performance romantiche su paesaggi cine-leggendari,
tipo l'ex locale dei divi, Musso & Frank, sull'Hollywood
Boulevard.
I due cantano e ballano, anche loro
principianti, senza rompere il tessuto narrativo, one show man e
woman, assenti le geometrie corali del musical, assente la jam
sassion contagiosa e collettiva dell'amato jazz. Gosling pensa al suo
locale e alla sua musica e quando si esibisce in una grande orchestra
di jazz rock eretico è solo per denaro. E' l'individuo che deve
farcela, proprio come il ragazzino di Whiplash dalle mani
sanguinanti. Ma musical e jazz richiedono caos multipli e melodie
asincroniche e non l'assolo che porterà la coppia a dividersi. Una
miete successi sotto la tour Eiffel, l'altro strimpella il piano in
solitudine nel club tutto per lui. Un rapido resumé finale ci dice
come sarebbe stata felice la vita di Mia e di Sebastian se a
dirigerli fosse stato un regista che non considera il cinema un gesto
atletico né una marea di citazioni irriverenti... non si esce dalla
sala dove proiettano Gioventù bruciata, anche se a bruciare è
(digitalmente) un fotogramma. Il mondo posticcio di Chazelle, però,
piace per la sua innocente visione del cinema, che fa brillare Los
Angeles e Hollywood di una luce ancor più sinistra del Maps to
the Stars di Cronenberg. E in quanto ex jazzista fallito
(“perciò sono passato al cinema”), il regista si prende la
rivincita e spara il suo jazz light, ammiccante, melodico e
canzonettistisco, come il suo cinema. Niente a che fare con il
plurievocato, dannato Thelonious Monk.
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