domenica 4 settembre 2016

VENEZIA 73. Il vero Rocky. Bleeder, fuori concorso

Il campione dei pesimassimi Chuck Wepner, il vero Rocky


Roberto Silvestri

VENEZIA


Liev Schreiber non l'ho davvero riconosciuto, se non dopo i titoli di coda, dietro il suo perfetto travestimento anni settanta da baffuto “Bayonne Bleeder” campione di pugilato bianco del New Jersey, categoria pesi massimi. Segno che questo film realizzato con i boxeur, ma non “sul pugilato d'epoca Cassious Clay e Don King”, qualche originalità la possiede, non se la mena coi gadget e la moda anni 70, ancora meno di American Hustle, di cui ruba il luminismo tonale beige freddo con rosse striature, nonostante la grande tradizione, con annessi stereotipi, che collega la boxe al cinema e che in The Bleeder (fuori concorso), vengono ricordati da continui frammenti di Una faccia piena di pugni, l'odissea tragica di Mountain Rivera/Primo Carnera raccontata da Ralph Nelson con Anthony Quinn in un famoso film in bianco e nero del 1962. La gloria e la decadenza. Il circo e la mafia. La criminalità e gli incontri truccati. La famiglia che protegge ma non basta. Perché poi divorzia dalla moglie Phyllis (la mora Elisabeth Moss) sarà con la bionda Linda (Naomi Watts), di cui condivide la passione per l'alcool, da mescere agli altri, che la sua vita finirà. E il manager senza scrupoli. La ricchezza improvvisa e la fama che scodella donne a volontà e che fa vacillare le migliori coscienze. Il tunnel della droga. Ma soprattutto lo spettacolo pugilistico offerto dalla categoria dei boxeur incassatori. Con tanti, benedetti, inestetismi, da arte brut, altro che l'iperrealismo patinato di Toro scatenato. Quelli che sanno resistere, che non crollano (quasi) mai, che finiscono i match in piedi, anche se sanguinanti, che potrebbero morire sul quadrato sono i campioni subliminali del pugilato (Vito Antuofermo, ancor più di Wepner).
Naomi Watts e Liev Schreiber
Il “sanguinante”, questo è il significato di The Bleeder. E questo era il nomignolo (poco gradito) nato nel quartiere che perseguitò a vita Chuck Wepner, un peso massimo che vinceva o perdeva sempre soffrendo e che gli annali ricordano perché fu l'unico sfidante bianco a resistere (in un combattimento avvenuto il 24 marzo 1975 presso Cleveland, a Richfield, e valevole per il titolo mondiale) per quasi tutte le 15 riprese a Mohamed Alì, che Wepner riesce perfino a mandare al tappeto (probabilmente aiutato da un micro sgambetto invisibile). Alì si era appena riconquistato la corona dopo aver battuto tra la sorpresa generale George Foreman a Kinshasa nel 1974. Immagini di repertorio che ovviamente si vedono nel film e che nuocciono gravemente alla credibilità dell'attore che interpreta (riconfigurandolo male, e ingrassandolo perfino) Alì (la stessa caduta di credibilità e verosimiglianza quando un attore cerca di impersonare Stallone...). 
Al canadese francofono Philippe Falardeau, Schreiber affida la regia (pulita, senza fronzoli, dinamica, tonica come quando si è in forma sul ring) del suo progetto che ricapovolge, dalla storia al Mito, e dal Mito alla cronaca vera, l'epopea di Rocky Balboa raccontata da Stallone nel capitolo 1, più volte Oscar nei primi anni 70 grazie a Avildsen. Il vero Rocky era Wepner (anche se, ci dice il film, Stallone e la United Artists non hanno dato neanche un dollaro per comprare la storia al vero Rocky, e forse Cimino l'ha fatta crollare per vendetta). L'eroe che perde, ma resiste. 35 vittore. 14 sconfitte. Due pareggi. Due soli ko in carriera, ma ben otto rotture del naso e 313 punti di sutura. Tra i più spettacolari e feroci incontri della storia, da quando i pugili indossano i guantoni, quello contro Sonny Liston, che lo ha battutto a Jersey City alla 10a ripresa il 29 giugno 1970. Se ne fa solo cenno. Poi, dopo Alì, il declino. Un po' di tempo in galera per spaccio di cocaina. Un matrimonio finito e una totale incapacità di Wepner di vivere al di fuori del quadrato, senza saper distiguere le persone che gli vogliono bene (Phyllis, la moglie, il fratello, la figlia, il nipote...) da quelle che lo sfruttano e lo portano a combattere, a fine carriera, con i campioni di wrestling e addirittura con feroci orsi giganti.  
Il vero Rocky e il finto

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