giovedì 29 settembre 2016

Café Society, gli spettri digitali di Woody Allen



Mariuccia Ciotta
Esordio nel mondo evanescente, Woody Allen si derealizza ancor di più nel suo primo film digitale, prodotto dal colosso del commercio on line Amazon, Café Society, ouverture fuori concorso del festival di Cannes 2016. Quasi uno sberleffo al tempo che corre e travolge quel certo tono di luce e quei certi abiti rosa antico, l’età del jazz e i racconti di Francis F. Fitzgerald.
La voce off del regista avverte che è inutile immedesimarsi nel film. “Mantenete le distanze”, sembra dire. Sono solo fantasmi. Apparizioni della sua epoca preferita, anni Venti, Trenta, Quaranta, non oltre. Dopo, il mondo è stato bruciato, e Woody srotola la pellicola del suo cinema e della sua vita, diserta i tempi moderni e lo fa però con un certo distacco, felice e malinconico di guardare ancora una volta le immagini perdersi in una dissolvenza senza ritorno. Tutto è vagamente posticcio… anche New York. Seguendo il filone Midnight in Paris, entrano in scena controfigure di gangster e orchestrine, di locali alla Marlowe con i divanetti imbottiti e feste fantasmagoriche alla golden age di Hollywood in una sfocatura luminosa, sovraesposizione di luce, aureola di pixel che incorona le figure.

L'incanto della nostalgia è violato da Kristen Stewart, Vonnie, corpo estraneo, spigoloso, contemporaneo che si muove a disagio tra chiffon e abat jour, trine e coppe di champagne, un segno di vita tra spettri. Effetto raddoppiato dal “nerd” Jesse Eisenberg, Bobby, alias Woody, il ragazzo di belle speranze, innamorato di Vonnie, incerta se sposare il maturo e accasato agente di successo Phil (Steve Carell). Lo stesso Phil incaricato di introdurre nella Café Society il timido e ingenuo nipote Bobby, ebreo di Brooklyn, piombato a Los Angeles per conoscere Irene Dunne, Ginger Rogers, Hedy Lamarr. E mentre il goffo Bobby, che fa decantare il vino bianco, va in tour sulle colline di Bel Air e cerca l’amore negli angoli di Hollywood, a Manhattan il fratello bandito, che si diletta a far sparire cadaveri nel cemento fuso, apre un locale di gran moda, così malfamato da attirare il gran mondo, politici compresi.
Woody Allen scorre cinema e memoria, e guarda l’azione da lontano. Prende in giro la moralità comunista, ma poi si chiede “se è giusto ammazzare un vicino di casa solo perché tiene la radio troppo alta”, o friggere qualcun altro sulla sedia elettrica per averlo fatto. Se è giusto lasciare una moglie perfetta dopo 25 anni di matrimonio per la segretaria giovane o sposarsi senza amore… Il senso della vita bergmaniano emerge qua e là, ma Woody non partecipa più, osserva i fotogrammi in bianco e nero di La signora in rosso del francese Robert Florey, 1935, interpretato da Barbara Stanwyck in contropiano con Kristen Stewart, la mezza vampira di Twilight, la “fluid gender” delle cronache rosa sull'amore lesbico, alla quale dedica una battuta maliziosa, “un giorno ti farò avere una lettera d’amore firmata da lei”, da Barbara, promette Bobby, lo spasimante, e non certo da Rodolfo Valentino. Ma ogni promessa si perderà nel vortice del passato, il cambio di stagione ha inaridito cuore e cervello.
Rimpiangere qualcosa che non si è mai vissuto, Café Society ha questo compito, quando “la musica e la moda erano geniali – dice il regista pensando a Rodgers and Hart – e soprattutto quando la cultura americana era al suo apogeo”. Ci sarà Netflix, ci sarà Amazon, ma cosa c’è di meglio di un Martini secco bevuto guardando Manhattan piena di luci, seduti sulla vecchia panchina di Woody Allen?


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