Mariuccia
Ciotta
Esordio
nel mondo evanescente, Woody Allen si derealizza ancor di più nel
suo primo film digitale, prodotto dal colosso del commercio on line
Amazon, Café
Society,
ouverture fuori concorso del festival di Cannes 2016. Quasi uno
sberleffo al tempo che corre e travolge quel certo tono di luce e
quei certi abiti rosa antico, l’età del jazz e i racconti di
Francis F. Fitzgerald.
La
voce off del regista avverte che è inutile immedesimarsi nel film.
“Mantenete
le distanze”, sembra dire. Sono solo fantasmi. Apparizioni della
sua epoca preferita, anni Venti, Trenta, Quaranta, non oltre. Dopo,
il mondo è stato bruciato, e Woody srotola la pellicola del suo
cinema e della sua vita, diserta i tempi moderni e lo fa però con un
certo distacco, felice e malinconico di guardare ancora una volta le
immagini perdersi in una dissolvenza senza ritorno. Tutto è
vagamente posticcio… anche New York. Seguendo il filone Midnight
in Paris,
entrano in
scena controfigure di gangster e orchestrine, di locali alla
Marlowe con i divanetti imbottiti e feste fantasmagoriche alla golden
age di Hollywood in una sfocatura luminosa, sovraesposizione di luce,
aureola di pixel che incorona le figure.
L'incanto
della nostalgia è violato da Kristen
Stewart, Vonnie, corpo estraneo, spigoloso, contemporaneo che si
muove a disagio tra chiffon e abat jour, trine e coppe di champagne,
un segno di vita tra spettri. Effetto raddoppiato dal “nerd”
Jesse Eisenberg, Bobby, alias Woody, il ragazzo di belle speranze,
innamorato di Vonnie, incerta se sposare il maturo e accasato agente
di successo Phil (Steve Carell). Lo stesso Phil incaricato di
introdurre nella Café Society il timido e ingenuo nipote Bobby,
ebreo di Brooklyn, piombato a Los Angeles per conoscere Irene Dunne,
Ginger Rogers, Hedy Lamarr.
E
mentre il goffo Bobby, che fa decantare il vino bianco, va in
tour sulle colline di Bel Air e cerca
l’amore negli angoli di Hollywood, a Manhattan il fratello bandito,
che si diletta a far sparire cadaveri nel cemento fuso, apre un
locale di gran moda, così malfamato da attirare il gran mondo,
politici compresi.
Woody
Allen scorre cinema e memoria,
e guarda l’azione da lontano. Prende in giro la moralità
comunista, ma poi si chiede “se è giusto ammazzare un vicino di
casa solo perché tiene la radio troppo alta”, o friggere qualcun
altro sulla sedia elettrica per averlo fatto. Se è giusto lasciare
una moglie perfetta dopo 25 anni di matrimonio per la segretaria
giovane o sposarsi senza amore… Il senso della vita bergmaniano
emerge qua e là, ma Woody non partecipa più, osserva i fotogrammi
in bianco e nero di La
signora in rosso del
francese Robert Florey, 1935, interpretato da Barbara Stanwyck in
contropiano con Kristen Stewart, la mezza vampira di Twilight,
la “fluid gender” delle cronache rosa sull'amore lesbico, alla
quale dedica una battuta maliziosa, “un giorno ti farò avere una
lettera d’amore firmata da lei”, da Barbara, promette Bobby, lo
spasimante, e non certo da Rodolfo Valentino. Ma ogni promessa si
perderà nel vortice del passato, il cambio di stagione ha inaridito
cuore e cervello.
Rimpiangere
qualcosa che non si è mai vissuto, Café
Society
ha questo compito, quando “la musica e la moda erano geniali –
dice il regista pensando a Rodgers and Hart – e soprattutto quando
la cultura americana era al suo apogeo”. Ci sarà Netflix, ci sarà
Amazon, ma cosa c’è di meglio di un Martini secco bevuto guardando
Manhattan piena di luci, seduti sulla vecchia panchina di Woody
Allen?
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