martedì 17 marzo 2020

Sola al mio matrimonio. Variazione sul format rom movie.









Roberto Silvestri 


"Vorrei imparare bene il francese e poi fare palestra e poi scatenarmi in discoteca (più di Kechiche ndr) e poi diventare poliziotta. Insomma. Prendere a pugni le vere carogne. Ho dei muscoli niente male...". Finalmente una "wonder woman" rom. O quasi. Si chiama Pamela e, coerente con una storia millenaria di avventura e fantasia nomade, non sopporta il fatto di rimanere ancorata ai propri set mentali e immaginari. Fugge dalla Romania verso l'Occidente, ma non riuscirà a far deragliare l'occidente latino nell'oriente latino... 


Alina Serban, Pamela, protagonista di "Sola al mio matrimonio"



E' uscito nelle sale il 5 marzo, ma le sale non si riaprono e non si torna al cinema, Sola al mio matrimonio. Film di alta qualità belga del 2018 ambientato nella Liegi mista, vallona ma anche un po' fiamminga, diretto dalla documentarista all'opera prima di fiction Marta Bargman, fotografato da Jonathan Ricquenbourg (Banat, Sherazhade) e musicato impeccabilmente dal rumeno Vlaicu Golcea, è un'opera che si adegua al format collaudato del rom/sinti movie civile e responsabile, da finanziamenti pubblici euro doc, attento al conflitto responsabile ma anche all'incontro sano tra culture ibride. Cioè al modello love story plausibile ma impossibile tra noi e loro. 122 minuti di tentativo di relazione sentimentale frustrata, di nozze quasi sfiorate, tra Alina Serban, nel ruolo di Pamela, una bella e sanguigna ragazza madre rom di villaggio, che abbandona in Romania alla nonna (superba cantante di strada) e a un amico teenager la figlioletta (ma tiene segreta la cosa), e Bruno (Tom Vermeir), un gadjo cittadino, benestante, impiegato, lavoratore ma sbiadito e impaurito dall'altro sesso, conosciuto via internet attraverso le agenzie matrimoniali web, attratto da un legame che lo metta meno in crisi perché si tratta di approfittare di una superiorità culturale, linguistica e sociale. Noi sopra loro.




Come in tanti altri melodrammi simili, di Soldini, Zangardi, Bellocchio o Sally Potter per esempio, vivificati dal sub plot interraziale appassionati, le emozioni sgorgano forte, anche se interiori, ma la visione inguaribilmente e inevitabilmente è monoculare. Quando una madre si sgancia così facilmente dal proprio pargolo per la nostra cultura iconica si prova un insopprimibile e definitivo brivido di orrore, che Bargman, pur dando prova di eccellere in quella che Pasolini chiamava "ideologia formale", controllo poetico-politico dei procedimenti narrativi e stilistici, non li utilizza per criticare l' "ideologia politica" imperante e un po' razzista nell'eurozona. Viene sempre in mente il bellissimo e dimenticato film di John Badham Floating away (1998) dove sul tabù della maternità come astrazione si costruisce un teorema del tutto storicizzato. Immaginatevi Madonna, bimbo e bottiglia di whisky, per avere un'idea della sequenza più insostenibile di quel film che è costato l'espulsione di Badham dal grande giro. E di Rosanna Arquette, soprattutto. 

Il masnifesto di Floating Away di John Badhan (1998) 

La dozzina di film, e oltre, di Toni Gatlif, invece, antropologicamente corretti perché diretti da un cineasta francese colto, sofisticato e indocile allo stato di cose presente, non solo rom ma anche capace di maneggiare meglio la complessità degli sguardi divergenti sul mondo, ovviamente ci offrono squarci di 'realtà' più conturbanti, vertiginosi, anche irrazionali e meno per bene. Hanno funzione devastante non corroborante, per l'immaginario. E' Gatlif che smaschera film dopo film la miseria dello sguardo unico e di mercato rapace sul mondo così come le ingiustizie passatiste dell'ideologia tradizionalista. E ci invita a trattare le istanze conflittuali di indios stanziali e indios vaganti in stato di allarme come modelli di comportamento e percezione delle cose più scientifici e innovativi che stereotipatamente fantasmatici. Ma non è questo il punto. 


Il regista francese Toni Gatlif

E' sempre stato divertente notare come la critica cinematografica occidentale sia rimasta scandalizzata, tra gli oltre 1000 film di finzione e di non finzione dedicati all'argomento rom sinti e camminanti (la dizione istituzionale che non nasconde lo stereotipo e che identifica zingaro a nomade), davanti alla spy story hollywoodiana di propaganda Amore di zingara di Mitchel Leisen (1947), dal titolo originale molto più poetico e sineddochico, Golden Earrrings, orecchini d'oro, perché la love story in quel caso funziona davvero. La gitana Marlene Dietrich e l'inglese Ray Milland alla fine riusciranno a far funzionare il "sistema idraulico ed elettrico" della loro relazione grazie all'incorporamento in rom di un gadjo obbligato professionalmente alla metamorfosi (è una spia! deve imparare per dovere e per lavoro e per non soccombere  cos'è la passione fiammeffiante e il ritmo flamencante, a leggere le mani, a usare la frusta, a prevedere il futuro, a  cambiare look...). E se è vero che gli zingari rubacchiano (in fondo sono artisti e danno nuova forma spettacolare a ciò che vedono davanti a loro, risparmiandoci solo l'ipocrisia borghese e succedanea), è ancora più esilarante (soprattutto pensando al mezzo milione di vittime rom nei lager già pronti) che sarà proprio Ray Milland, addestrato dalla "strega", a rubare nel 1939 un gas (!) segreto al III Reich. Purtroppo non tutto. Forse è per questo che molti, inconsciamente reazionari e razzialmente correttissimi, lo considerano il più stupido dei rom movie mai concepiti. Agli antipodi dalla verità amara di Carmen, anche di Saura e Rosi.  Trovo invece che passare dalla porta secondaria della pura immaginazione di un mondo che non c'è ancora  ma è del tutto plausibile e agognato, che ci fa attraversare la mascherata carnevalesca di enorme cattivo gusto, visto quel che succedeva in quel momento (la Dietrich ha annerito il volto proprio come Al Jolson), sia stata una delle stilizzazioni culturali più potenti e conflittuali dell'operazione di Mitchel Leisen. Già.       


Marlene Dietrich in "Amore gitano" di Mitchel Leisen
Alla faccia di Hitler, dei sovranisti, dei cacciatori di streghe, del Giornale e di chi gli vuol male ci sono ancora 4 milioni di rom e sinti (i rom del nord) in Europa, nomadi e sedentari, discendenti molto ramificati di quei “domba” del Kashmir, casta umile di musici e danzatori erranti che si spostarono in diecimila, dietro invito regale, nella Persia medioevale, anche lavorando il metallo, commerciando in cavalli e predicendo il futuro, quando cultura e scienza araba erano all’avanguardia nel mondo. Cittadini italiani o no, 'rom, sinti e caminanti' sono circa 200 mila, mentre solo 40 mila sono ospitati nei campi nomadi. Lo 0,15 della popolazione che vive in Italia è capace però di meritarsi alla bisogna zoomate impietose e gigantografie da panico.  Democrazie moderne, meno formali dell’italiana, ne tutelano molto meglio i diritti, linguistici e civili. Austria, Finlandia e Macedonia, Germania, Olanda e Svezia, per esempio. Ma l’Urss e la Jugoslavia si estinsero. Così non si insegna più nelle scuole publiche il romanè (o romané chib, lingua dei rom), né si traducono più in quelle lingue i racconti, anche zingareschi, di Puskhin e Tolstoj, come avveniva, a partire dal 1925, a Mosca, in Siberia e nelle altre repubbliche socialiste. La presunta “asocialità zingara”, quella indisciplina totale al lavoro salariato che Lombroso chiamava la “piaga zingara” cioè che i rom delinquono perché sono naturalmente inclini a farlo, e che a noi non dispiace affatto perché indica la strada della fuga dal lavoro salariato, vennero sistemate “scientificamente” come tare genetiche dalla scienziata del III Reich Eva Justin che programmò lo sterminio nei lager nazisti di questi anticapitalisti spontanei e naturali, inventandosi il concetto di istinto al nomadismo Wandertrieb, e imparentandoli ad altri “delinquenti naturali”, ebrei, comunisti, omosessuali e democratici di ogni risma bastarda (il 27 gennaio ci dimentichiamo di questi 500 mila corpi). Quello che imbarazza e terrorizza nel profondo l’inconscio Occidentale, a disagio di fronte al rom, è il fatto di trovarsi di fronte un popolo non guerresco ma secolarmente coriaceo e inestinguibile, impermeabile perfino al Coronavirus?, che non ha e non vuole avere una nazione né fare guerre di conquista o di difesa, che è rimasto molto ben ancorato al passato ancestrale ma che, nello stesso tempo, è molto incline alla più completa contaminazione socioculturale e al rapporto integrale con l’altro da sé. 
Rubano? Vogliamo parlare di Amuchina?  
I bambini? Dal 1985 al 2006 sono stati adottati da italiani non rom quasi 300 bimbi rom. Non saremo un po' noi i veri rubacchiotti ?      




Mancanza-Purgatorio di Stefano Odoardi. Riproposto dalla piattaforma web cinema Indie, gratuitamente per tutto il periodo di emergenza


Roberto Silvestri 



Robert Wyatt, genio della scuola di Canterbury, diceva di Phil Miller, chitarrista e compositore fusion, che in un assolo preferirebbe sbagliare una nota piuttosto che ripetere una nota suonata da qualcun altro. 
Ebbene parafrasando Wyatt si potrebbe dire lo stesso di Stefano Odoardi, un artista visivo pescarese oggi cinquantenne che, come molti altri italiani che vivono e sperimentano all’estero, è residente e operante più in Olanda che in Italia. L’originalità, l’unicità, l'ereticità del suo cinema imperfetto e obliquo, che ama sconfinare (anche nelle sue istallazioni) in territori pittorici, plastici, etici, letterari, politici e musicali, lo rendono impermeabile al manufatto industriale e postindustriale che si pretende geneticamente “puro”. 

Stefano Odoardi
Il suo ultimo lungometraggio, seconda parte di una trilogia dantesca, Mancanza-Purgatorio (84’) in video HD e Super8, uscito nelle sale italiane meno conformiste nel novembre del 2016, ma appena riproposto gratuitamente, proprio oggi alle 12 alle 12.25 dalla piattaforma web di cinema Indie, contributo la lotta contro l'emergenza coronafirus, è stato girato quasi completamente in bianco e nero dopo un lungo e accurato soggiorno-casting nel quartiere di Sant’Elia a Cagliari (antico e isolato borgo di pescatori, storicamente disagiato, “modernizzato-disumanizzato” negli anni 70 dai palazzoni periferici che cementificano ovunque la vita di proletari e sottoproletari). La prima metà dell’opera è bloccata dalla macchina fissa (non fosse per movimentati zoom) su un terrazzo che simula uno spiazzo portuale  e la seconda metà è girata sul mare, aperto e mosso, via col cargo (1). 
Nella prima parte 17 uomini e donne (più un cane), coi giubbotti di salvataggio (sinistra icona del presente olocausto) che vengono indossati e poi tolti, parlano a turno, confessano e analizzano le loro (probabili) colpe e mancanze, rassegnati al futuro minaccioso e indefinito che li aspetta, ma che forse non è la loro meta definitiva. 


Nella seconda parte gli uomini della terra non ci sono più e su una nave da carico deserta, ma non di container, solo una donna erra sul ponte in lungo e in largo, passeggera di un bianco vascello fantasma che solca il mediterraneo senza apparente ciurma né capitano né altri passeggeri, prigioniera attonita e semi-catatonica dei flutti, quasi fosse Ulisse prima di affrontare le sirene (è l’attrice italo francese Angélique Cavallari, nel ruolo dell'Angelo meditabondo, quasi una Anna Karina rediviva che cannibalizza “di fianco” il suo personaggio, quasi quel che Margherita Buy chiede ai suoi attoniti attori in Mia madre, 2015). Samuel Butler non rivendicava forse proprio a una donna, forse al cenacolo di Saffo e non a Omero, la composizione del primo, celebre poema on the sea sul più astuto, femmineo e meno casalingo dei guerrieri? 
E la direzione di questa amazzone dagli occhi prensili e assenti nello stesso tempo? Ignota. L’accompagna inizialmente la voce off di Sebastiano Filocamo, un cut-up letterariamente suggestivo che diventa monologo poetico della donna, sinuosamente avviluppata alle elaborate armonie di Andrea Manzoli e al sound desinger Kamila Wójcik come l’Odisseo all’albero maestro. 
Una serie di acquerelli astratti, opere di Odoardi, sono stati utilizzati durante le riprese e poi nella fase di montaggio e di scrittura delle musiche non come story board ma come effettiva partitura visiva di un film senza copione e aleatorio sull’errare, nel doppio senso appunto del vagare verso l’ignoto, della mancanza di una meta e dello sbagliare. L’inquadratura a colori, con le pennellate di giallo e blu che si incrociano nell’arancione finale, riassume metaforicamente la bipolarità ricomposta del film. Ma non è arancione pop. E’ l’arancio di Guantanamo e dei salvagenti incollati in scultura gigante da Ai Wei Wei. 

a un metro di distanza.... 
“Il di/segno del Cinema” era il titolo di una mostra cagliaritana che ha esposto nel 2016 anche gli acquerelli realizzati per Mancanza-Purgatorio dalla mano calda di Odoardi. Più che di/segno, però, si potrebbe parlare di im/segno. Il mondo nel quale ci conduce questa volta Odoardi, come un Virgilio neanche troppo silenzioso dietro la cinepresa, nella sua trilogia dantesca, dopo la prima parte del trittico, Mancanza-Inferno (2014, 70’, colori), un oratorio terragno ambientato a L’Aquila tra le macerie del centro storico e tra i terremotati seguito da questo dittico acquatico Mancanza-Purgatorio e dal prossimo venturo, presumibilmente incandescente e luminoso Mancanza-Paradiso, è completamente “disarmonico”, “stonato” e “fuori fuoco” rispetto al flusso emozionale omologato delle immagini di genere o d’autore. In Mancanza-Purgatorio l’angelo benjaminiano scaraventato da un vento incontrollabile verso il futuro, ma con gli occhi fissi sulle distruzioni catastrofiche del passato di Mancanza-Inferno, si fa notare qui per la sua inquietante mancanza di intenzionalità. Del resto anche in Klee. 
Angelique Cavallari, protagonista di "Mancanza-Purgatorio"
Ma cos’è la nota nel cinema, l’im-segno, direbbe Pasolini, se non l’intenzionalità, che viene rivendicata dall’attore o dal documentarista, come centro magnetico delle sue azioni, interiori e esteriori? E’ come l’unità minima di comunicazione cinematografica, priva di significato (come il fonema e il morfema in linguistica) se non entra in un circuito combinatorio con altri im-segni. La lingua scritta della realtà ecco che trova la sua doppia articolazione e l’unità minima di seconda articolazione. Il reale è in qualche modo codificabile e diventa quello che i filologi chiamano realtà, ovvero il reale scannerizzabile in unità discrete. C’è un cinema che, come nel gioco del calcio, arriva al morfema, all’azione, al goal, all’happy end, anche tragico, grazie a un collegamento, a una filiera di intenzionalità. In questo film senza im-segno, però, come in Beckett, non si è succubi di un destino ineluttabile. Ma è proprio il campo di verità costruito che coinvolge più intenzionalità possibili in una stessa persona e in uno stesso angelo. Fino alla paralisi. Più finzioni plausibili affollano l’immaginario dello spettatore che, come nell’opera concettuale, sono obbligati al finish creativo. Più i destini possibili. Come i ricordi, per Beckett: “Che disastro, i ricordi… non bisogna pensare a certe cose che ci stanno a cuore… anzi bisogna pensarci giusto un po’, tutti i giorni e parecchie volte al giorno, fino a che non li ricoprano un inesorabile strato di melma”. 


(1) Anche grazie ai pirati somali la nave merci sta diventando una protagonista dell’immaginario contemporaneo, e non pensiamo solo a Captain Philips di Paul Greengrass (2013), ma a Cargo (2006) di Clive Gordon; al fantascientifico Cargo spaziale (2009) di Ivan Engler e Ralph Etter; Cargo (2011) di Yan Vizinberg; Life of Pi (2012) di Ang Lee; La resa dei conti ovvero Precious Cargo (2016) di Max Adams; Cargo (2017) di Kareen Mortimer e a una serie di documentari di profondità sulla centralità della comunicazione via mare e delle rotte commerciali atlantiche e mediterranee (Interporto, 2009, di Marco Santarelli).