martedì 17 marzo 2020

Mancanza-Purgatorio di Stefano Odoardi. Riproposto dalla piattaforma web cinema Indie, gratuitamente per tutto il periodo di emergenza


Roberto Silvestri 



Robert Wyatt, genio della scuola di Canterbury, diceva di Phil Miller, chitarrista e compositore fusion, che in un assolo preferirebbe sbagliare una nota piuttosto che ripetere una nota suonata da qualcun altro. 
Ebbene parafrasando Wyatt si potrebbe dire lo stesso di Stefano Odoardi, un artista visivo pescarese oggi cinquantenne che, come molti altri italiani che vivono e sperimentano all’estero, è residente e operante più in Olanda che in Italia. L’originalità, l’unicità, l'ereticità del suo cinema imperfetto e obliquo, che ama sconfinare (anche nelle sue istallazioni) in territori pittorici, plastici, etici, letterari, politici e musicali, lo rendono impermeabile al manufatto industriale e postindustriale che si pretende geneticamente “puro”. 

Stefano Odoardi
Il suo ultimo lungometraggio, seconda parte di una trilogia dantesca, Mancanza-Purgatorio (84’) in video HD e Super8, uscito nelle sale italiane meno conformiste nel novembre del 2016, ma appena riproposto gratuitamente, proprio oggi alle 12 alle 12.25 dalla piattaforma web di cinema Indie, contributo la lotta contro l'emergenza coronafirus, è stato girato quasi completamente in bianco e nero dopo un lungo e accurato soggiorno-casting nel quartiere di Sant’Elia a Cagliari (antico e isolato borgo di pescatori, storicamente disagiato, “modernizzato-disumanizzato” negli anni 70 dai palazzoni periferici che cementificano ovunque la vita di proletari e sottoproletari). La prima metà dell’opera è bloccata dalla macchina fissa (non fosse per movimentati zoom) su un terrazzo che simula uno spiazzo portuale  e la seconda metà è girata sul mare, aperto e mosso, via col cargo (1). 
Nella prima parte 17 uomini e donne (più un cane), coi giubbotti di salvataggio (sinistra icona del presente olocausto) che vengono indossati e poi tolti, parlano a turno, confessano e analizzano le loro (probabili) colpe e mancanze, rassegnati al futuro minaccioso e indefinito che li aspetta, ma che forse non è la loro meta definitiva. 


Nella seconda parte gli uomini della terra non ci sono più e su una nave da carico deserta, ma non di container, solo una donna erra sul ponte in lungo e in largo, passeggera di un bianco vascello fantasma che solca il mediterraneo senza apparente ciurma né capitano né altri passeggeri, prigioniera attonita e semi-catatonica dei flutti, quasi fosse Ulisse prima di affrontare le sirene (è l’attrice italo francese Angélique Cavallari, nel ruolo dell'Angelo meditabondo, quasi una Anna Karina rediviva che cannibalizza “di fianco” il suo personaggio, quasi quel che Margherita Buy chiede ai suoi attoniti attori in Mia madre, 2015). Samuel Butler non rivendicava forse proprio a una donna, forse al cenacolo di Saffo e non a Omero, la composizione del primo, celebre poema on the sea sul più astuto, femmineo e meno casalingo dei guerrieri? 
E la direzione di questa amazzone dagli occhi prensili e assenti nello stesso tempo? Ignota. L’accompagna inizialmente la voce off di Sebastiano Filocamo, un cut-up letterariamente suggestivo che diventa monologo poetico della donna, sinuosamente avviluppata alle elaborate armonie di Andrea Manzoli e al sound desinger Kamila Wójcik come l’Odisseo all’albero maestro. 
Una serie di acquerelli astratti, opere di Odoardi, sono stati utilizzati durante le riprese e poi nella fase di montaggio e di scrittura delle musiche non come story board ma come effettiva partitura visiva di un film senza copione e aleatorio sull’errare, nel doppio senso appunto del vagare verso l’ignoto, della mancanza di una meta e dello sbagliare. L’inquadratura a colori, con le pennellate di giallo e blu che si incrociano nell’arancione finale, riassume metaforicamente la bipolarità ricomposta del film. Ma non è arancione pop. E’ l’arancio di Guantanamo e dei salvagenti incollati in scultura gigante da Ai Wei Wei. 

a un metro di distanza.... 
“Il di/segno del Cinema” era il titolo di una mostra cagliaritana che ha esposto nel 2016 anche gli acquerelli realizzati per Mancanza-Purgatorio dalla mano calda di Odoardi. Più che di/segno, però, si potrebbe parlare di im/segno. Il mondo nel quale ci conduce questa volta Odoardi, come un Virgilio neanche troppo silenzioso dietro la cinepresa, nella sua trilogia dantesca, dopo la prima parte del trittico, Mancanza-Inferno (2014, 70’, colori), un oratorio terragno ambientato a L’Aquila tra le macerie del centro storico e tra i terremotati seguito da questo dittico acquatico Mancanza-Purgatorio e dal prossimo venturo, presumibilmente incandescente e luminoso Mancanza-Paradiso, è completamente “disarmonico”, “stonato” e “fuori fuoco” rispetto al flusso emozionale omologato delle immagini di genere o d’autore. In Mancanza-Purgatorio l’angelo benjaminiano scaraventato da un vento incontrollabile verso il futuro, ma con gli occhi fissi sulle distruzioni catastrofiche del passato di Mancanza-Inferno, si fa notare qui per la sua inquietante mancanza di intenzionalità. Del resto anche in Klee. 
Angelique Cavallari, protagonista di "Mancanza-Purgatorio"
Ma cos’è la nota nel cinema, l’im-segno, direbbe Pasolini, se non l’intenzionalità, che viene rivendicata dall’attore o dal documentarista, come centro magnetico delle sue azioni, interiori e esteriori? E’ come l’unità minima di comunicazione cinematografica, priva di significato (come il fonema e il morfema in linguistica) se non entra in un circuito combinatorio con altri im-segni. La lingua scritta della realtà ecco che trova la sua doppia articolazione e l’unità minima di seconda articolazione. Il reale è in qualche modo codificabile e diventa quello che i filologi chiamano realtà, ovvero il reale scannerizzabile in unità discrete. C’è un cinema che, come nel gioco del calcio, arriva al morfema, all’azione, al goal, all’happy end, anche tragico, grazie a un collegamento, a una filiera di intenzionalità. In questo film senza im-segno, però, come in Beckett, non si è succubi di un destino ineluttabile. Ma è proprio il campo di verità costruito che coinvolge più intenzionalità possibili in una stessa persona e in uno stesso angelo. Fino alla paralisi. Più finzioni plausibili affollano l’immaginario dello spettatore che, come nell’opera concettuale, sono obbligati al finish creativo. Più i destini possibili. Come i ricordi, per Beckett: “Che disastro, i ricordi… non bisogna pensare a certe cose che ci stanno a cuore… anzi bisogna pensarci giusto un po’, tutti i giorni e parecchie volte al giorno, fino a che non li ricoprano un inesorabile strato di melma”. 


(1) Anche grazie ai pirati somali la nave merci sta diventando una protagonista dell’immaginario contemporaneo, e non pensiamo solo a Captain Philips di Paul Greengrass (2013), ma a Cargo (2006) di Clive Gordon; al fantascientifico Cargo spaziale (2009) di Ivan Engler e Ralph Etter; Cargo (2011) di Yan Vizinberg; Life of Pi (2012) di Ang Lee; La resa dei conti ovvero Precious Cargo (2016) di Max Adams; Cargo (2017) di Kareen Mortimer e a una serie di documentari di profondità sulla centralità della comunicazione via mare e delle rotte commerciali atlantiche e mediterranee (Interporto, 2009, di Marco Santarelli).

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