domenica 23 ottobre 2016

Il grande Blake. Ken Loach sfida questa Europa



Roberto Silvestri

Dieci anni dopo, ancora Ken Loach. Il più impegnato e drastico politicamente dei narratori europei per immagini, che ha rischiato non pochi guai nella sua carriera, soprattutto per essersi messo contro la sua adorata Inghilterra nella repressione anti-irlandese, ha vinto la Palma d’oro di Cannes 2016 e adesso presenta questo suo nuovo film in Italia, I, Daniel Blake, sul male d’Europa.
La fame nel quinto paese più ricco del mondo. Come si maltrattano i lavoratori oggi. Non solo nelle tasche ma sopratutto nella dignità. Come stia saltando il welfare. Che fu una conquista, non una concessione. Come oggi chi lavora è perduto, soprattutto se si ammala. Come nel mondo dell’1% che ha potere e del 99% che non ne ha, e paurosi spettri di fascismo stiano volteggiando di nuovo nel cielo, e non solo d’Austria, beffando proprio quei lavoratori che il fascismo distrussero (e quel welfare conquistarono battendo i nazi). Senza però mai dire direttamente tutte queste cose. Facendocele entrare nella pelle.
Ken Loach
Si entra proprio nella pelle di Daniel Blake, si gira nei suoi pub, lo si incontra a casa, e si va con lui negli uffici dell’assistenza sociale e a giocare con i figli della sua amica e compagna di sventure, Rachel. Dave Johns, attore, drammaturgo e regista della scena artistica  West End londinese (suo un Qualcuno volò sul nido del cuculo con Christian Slater), nel ruolo del grande Blake, non sbaglia una sfumatura, un fremito, uno sguardo. La piccola (di statura) Hayley Squires, che fa Rachel,  viene come Johns dal teatro londinese e dalle serie tv e il suo accordo con Johns è coreograficamente magico.
Ecco perché il film piace anche a chi non piace Loach. E’ politicamente corretto? No, è obliquamente feroce. Produttivamente si tratta di una triangolazione anglo-belga-francese, alla faccia del Brexit, contro i tagli alla spesa pubblica aumentati con Cameron, e si ispira platealmente ai pamphlet politico-morali rooseveltiani (ma non completamente) di Frank Capra.
Questo Joe Doe però è molto più disincantato. Il tono della tragicommedia, che quasi espelle l’arma operaia micidiale della satira e l’invito alla rivolta collettiva, è infatti più nero e pessimista del solito. Scritto da Paul Laverty, da anni l’alter ego, non sempre in forma smagliante, del regista, racconta le peripezie kafkiane (e soprattutto on line) di un falegname malato di cuore, ma di gran cuore, che a 59 anni è alle prese con l’assistenza sociale che lo deruba dei contributi perché la burocrazia sa sempre come trasformare un invalido (che non conta nulla) in un “non invalido”.

Obbligato a cercare lavoro, salvo sanzioni pesanti, per ordine del medico dovrà rifiutarli tutti, mentre assiste impotente alla disgregazione esistenziale di una amica, Rachel, disoccupata, due figli a carico, sbattuta a 450 km da Londra, sua città natale, per non essere obbligata a entrare in un centro d’accoglienza. Insomma peggio che Equitalia (vedi la scena del computer obbligatorio), anche se quel che resta dell'estrema sinistra italiana infraparlamentare  - ancora sotto shock per il trionfo dei M5S - pensa che sia stato un giustiziere anti-evasori.


L’australiano George Miller e il canadese Donald Sutherland, pilastri della giuria di Cannes 69, amano lo stile sobrio, feroce dentro e l’umorismo nero subliminale di Loach (e di Ozu, Rohmer e Fassbinder). E ben conoscono e temono sia i nefasti intrighi dell’impero britannico che la magnifica vitalità democratica del Regno Unito. Sono stati sicuramente loro i timonieri del verdetto finale di un film che ha perfezionato la tragedia operaia come oggetto contundente e non spettacolare, da anni ossessione unica del binomio “Loach-Laverty” .
Non c’è più l’ottimismo egemone di Riff Raff . Lo sberleffo lascia in campo alla disperazione, però fertile. Ma cambiare è necessario, è ancora possibile. Chissà, se la Scozia e L’Irlanda inita facessero secessione? Daniel il falegname di Newcastle, lascia a Rachel, la sua amica altrettanto tartassata dalle leggi sul lavoro, e altrettanto infuriata, il timone (assieme ai giovani ragazzi west indies che smanettano al computer come dei). Magari Hillary? Magari il Newcastle tornerà grande in Premier League? Bò. La lotta continua. Loach anticipa spesso i tempi. E, a 80 anni, è sempre un neofita.
 

sabato 22 ottobre 2016

La regina punk della notte. Il film su Florence Foster Jenkins di Stephen Frears con Meryl Streep. Incontenibile.

La vera Florence Foster Jenkins (a sinistra) e Florence Meryl Streep


Roberto Silvestri

Il bio-pic sta diventando un genere sovrano. Roberto Rossellini ne sarebbe molto contento. E non c'è solo Lincoln e Leopardi. Alla Festa di Roma abbiamo visto il Fritz Lang, epoca M, il mostro di Dusseldorf, che utilizza brani di repertorio documentaristici o tratti da film di finzione dei primi anni 30, per risparmiare sui passaggi narrativi "morti": il viaggio in treno; il viaggio in autobus; il taxi, la descrizione della Berlino notturna, la guerra di trincea, la folla metropolitana, e ci mostra un Lang (già protagonista di un altro film di finzione, ma sloveno, sul set di La donna sulla luna) dalle qualità di detective degne della signora in giallo e capace di commettere  qualunque infrazione e di autoconvicersi perfino di aver commesso un crimine cruento per dare verità e sostanza emozionale forte al suo primo film sonoro. Che, da degno erede del grande Pabst diventa un film addirittura urlato, ululato. Poi lo Snowden, che è più conturbante del documentario realizzato nell'albergo di Hong Kong con il super hacker americano, perché ce lo indica come il massimo conoscitore dei sistemi di sicurezza digitali e dunque come il probabile stratega dell'assalto Internet anti americano di questi giorni. L'unica cosa che non combacia è relegare il personaggio della moglie a un ruolo puramente decorativo o peggio disturbante (cosa che nel documentario si capiva non esserlo stata affatto). E poi Nat Turner di Birth of a Nation e Powidoki di Wajda, oltre a tre superbi documentari sul più grande vulcanologo del pianeta, sulla più eccitante rock band vivente (i Rolling Stones, in America Latina e a Cuba) e il più grande talento cinematografico di Austin (Richard Linklater) che racconta il prima e il dopo Boyhood...E poi Genius di Michael Grandage, su Mark Perkins,  il celebre editore della della casa editrice Scribner's Sons che ha scoperto e "ottimizzato", senza mai cambiare una riga Scott Fitzgerald, e poi Hemingway e Thomas Wolfe, di cui si narra la lunga e intricata relazione. Cast superbo, con Colin Firth che è Perkins, Nicole Kidman che è la moglie di Wolfe e Jude Law che è Wolfe, la grande scoperta letteraria di Perkins, il narratore che eguaglierà e forse supererà James Joyce, basta tagliare da ogni libro un paio di migliaia di pagine..... Il gioco a due tra Jude Law e Colin Firth, che mette in crisi i rispettivi rapporti con le moglie, si complica non solo eroticamente, ma perfino extratestualmente, perché Law nel Giovane Papa fuma tutto il tempo sigarette mentre Colin Firth, per non essere da meno, qui, non si toglie mai il cappello dalla testa, anche quando è a tavola il Borsalino regna, tanto per far capire che siamo prima dell'epoca John Kennedy. Negli anni trenta. Infine Florence Foster Jenkins quello che sicuramente è il più estroverso, fracassone e acusticamente insolente.

E pensare che il regista tedesco William Dieterle - fuggito dal nazismo che di Fuhrer ne aveva uno solo, e la storia e la memoria di un altro single doveva essere oscurata dalla anima sacra della razza - ha combattuto tutta la vita dentro lo studio system per poter realizzare (e ha vinto, alla fine degli anni 30) la sua ossessione, cioè i film dedicati alle grandi individualità della politica, dell'arte e della scienza: il Pasteur, il Juarez, la storia del presidente degli Stati Uniti Andrew Johnson, e quella di chi inventò la grande agenzia stampa, Giulio Reuter. Edward G. Robinson interpretò anche il dottor Erlicht, il nemico numero uno della più grave malattia sessuale contagiosa, la sifilide.
Ovvio che proprio questo film di Dieterle venga in mente, assieme a Céline, biografo del dottor Semmelweiss, quando si deve scrivere sul nuovo film di Stephen Frears, il regista britannico che dall'essiccato poema agro My beautiful laundrette si è via via sempre più riconciliato con il grande pubblico, fino al polposo The Queen e a Philomena (controversa e ambigua incursione sulla questione irlandese) passando spesso per Hollywood, ma non perdendo quasi mai il suo sottile umorismo eccentrico bilanciato da una capacità di manovrare emozioni e sentimenti contraddittori, pur di devastare il cuore delle platee.  Perché qui di sifilide, oltre che di bel canto, si tratta.
Fazzoletti a gogo dunque durante Florence Foster Jenkins, che ha portato a Roma la sua interprete, Meryl Streep, in un personaggio canterino, ma fuori dal canone, da premio Oscar fino alla caricatura, perché permette alla mattatrice bionda di Hollywood di gigionare senza limiti e senza pietà, proprio perché obbligata dalla parte a esprimersi una o due ottave sopra il consentito. Peggio che in Mamma mia.
Florence Foster Jenkins (
E più esagera, Meryl, e più forza, e più "rompe" e più funziona. Siamo nel regno del camp, dell'eccentrico, del ridicolo che diventa sublime. Priva assolutamente di dote canore, Florence si esibì perfino in sale da concerto prestigiose e i suoi dischi divennero stracult durante la seconda guerra mondiale, diventando uno dei primi miti della cultura pop. La Elvis Presley del lieder. Qualche anno dopo "rispolverare Shakespeare", sarà la parola d'ordine, spiritosa e sovversiva, di Cole Porter (non a caso fa una comparsata da fan di Frorence, nel film, al fianco di un'altra diva "obliqua" di Hollywood, Tallulah Bankhead) quando trasformò nel 1948 la Bisbetica domata in un musical buffo, Kiss me Kathe!, poi film nel 1953. Dissacrare un mito per accentuarne la grandezza. Si può storpiare addirittura un classico apollineo, di Mozart o di Saint Saens, dimostrando di comprenderne lo spirito interiore, sotto sotto dionisiaco, o facendone una parodia che ne illumini ancor più le virtù (l'Andreotti trasformato in caricatura da Sorrentino purtroppo ha avuto proprio questo effetto, spero involontario).
Avviene quando la mancanza assoluta di talento può trasformarsi in genialità pura e a volte involontaria. Quando si esibisce quel certo non so che degno di encomio artistico che è stato giustamente osannato in alcuni capolavori del cinema moderno, anche questi bio-pic, come Pecker di John Waters, sul fotografo di provincia talmente naif che conquista i critici newyorker più snob, o Ed Wood di Tim Burton, il "peggiore cineasta di tutti i tempi" che ribalta le gerarchie estetiche in un frangente di crisi creativa dello star system e dello studio system da diventare in un certo senso "il migliore", il punto di riferimento di un capovolgimento rivoluzionario delle forme estetiche. Perché è vero, ha cuore, ce la mette tutta, è dissacrante, è sovversivo involontariamente, e comunica cose né sciocche né fatue. Come Sid Vicious quando decompone My way per troppo amore. O Bette Davis in Che fine ha fatto Baby Jane il cui duetto con il pianista squattrinato e inglese Victor Buono sulle arie di I've Written a Letter to Daddy è stato molto studiato da Simon Helberg, in particolare nella mimica facciale sulle stonature.

Florence Foster Jenkins è la storia di una newyorchese dell'alta società che quel morbo, terrificante e allora ancora disintegrante, ereditò a 18 anni per colpa del suo primo marito puttaniere. Si conviveva, nella prima metà del '900 non più di 20 anni con la sifilide, e tra atroci sofferenze, perdita di capelli, articolazioni decostruite e mancamenti continui. Perfino questa donna ricca sfondata, che poteva avere i luminari della medicina ai suoi piedi, non avrebbe vissuto di più, e invece ci riuscì eccome, se qualcosa di davvero speciale non l'avesse sostenuta miracolosamente. Un marito innamorato (con amante "regolare", visto che di rapporti sessuali con la moglie neanche a parlarne), prima di tutto, che fu capace di trovare una ricetta psicologica, e non farmacologica, capace di guarirla. L'affetto totale. E l'amore di Florence per la musica. Sincero, folle, viscerale, totale, sconfinato, assoluto, assurdo. Ma anche assolutamente cieco e perfino sordo (almeno secondo i parametri dei puristi e dei melomani dell'Accademia. Pianista e cantante, ereditata una fortuna l'ha spesa per la musica classica, organizzando concerti, finanziando Toscanini (che dal film viene presentato piuttosto odiosamente, come un freddo opportunista, forse perché italiano? forse perché socialista? forse perché Frears ha preso per buone l'odiosa campagna stampa contro di lui dei nazisti e dei fascisti all'epoca? Toscanini viveva nella lussuosa magione appartenuta a Theodore Roosevelt e Mark Twain e non aveva certo bisogno di 1000 dollari) prendendo milioni di lezioni da illustri maestri e cercando di migliorare le esili - e non migliorabili - qualità di mezzo soprano.


Nel 1944 questa ereditiera, fondatrice a Manhattan dell'associazione Giuseppe Verdi, protetta scientificamente dal suo nuovo marito, St.Clair Bayfield (un Hugh Grant di perfezione mozartiana), arriverà a cantare nel tempio di Mozart e Beethoven, al Carnagie Hall e a credersi una interprete di un certo valore anche perché il suo pianista di fiducia (e culturista a tempo pieno) le dà credito, per soldi, e il marito allontana tutti gli elementi ostili e paga finché può il suo pubblico adorante. Florence diventerà l'idolo delle folle, che la considerano una umorista strepitosa. L'antenata di Jerry Lewis che a lei si ispirerà sempre nei suoi dischi e in Jerry otto e tre quarti. Fino alla lettura della recensione del New York Times  che la ucciderà. E da lì Vincent Price di L'Oscar insanguinato prenderà le mosse per la grande vendetta. Il cocktail di horror, volgarità, bellezza, commozione, comicità è davvero irresistibile. Frears può abbandonarsi al cattivo gusto, finalmente, senza remore e freni. E porta Meryl Streep agli acuti più cacofonici mai concepiti. Si dirà. Nessuno spettatore non specializzato avrebbe mai compreso l'aria del Flauto magico della Regina della notte che è un pezzo di difficoltà tecnica mostruosa, tale da far preoccupare il prussiano concetto stesso di cantante lirica, per esempio nella interpretazione sovrana, quella della mezzo soprano olandese Cristina Deutekom, se Florence Foster Jenkins non l'avesse portato alla notorietà di massa che ha oggi. E dubito che la Deutekom, malata di sifilide, l'avrebbe cantata meglio. E a 76 anni. Quando Florence morì.
Simon Helberg 

Festa di Roma. I film delle star 2. Il capolavoro di Tsui Hark e Tung Shin Yee, The Sword Master. L'importante è perdere

Il poster di The Sword Master


Roberto Silvestri

Un dato davvero negativo e grave per le giornate all'Auditorium Parco della Musica e per il suo pubblico è il successo di pubblico di un modesto filmetto che prende in giro la controcultura, Mister Fantasy e l'insuccesso, i pochissimi biglietti venduti dalla Festa di Roma per due degli appuntamenti più interessanti in cartellone. Segno che il pubblico romano, e quella parte di pubblico romano che è asiatica, non certo meno incompetente di quello di Rotterdam o di Londra, di Tokyo e New York, volta pregiudizialmente le spalle alla manifestazione (che oltretutto ha attuato una politica dei prezzi non disastrosa, il biglietto costava 6 euro). Va ricucito il rapporto con il pubblico più competente, con le strutture vivaci del territorio, con il Detour e con il clan ghezziano, per esempio, e va riaperto (e ben sostenuto finanziariamente) il gioiello perduto del Filmstudio (che almeno l'Oriente è rosso lo programmava, e anche La linea generale, i pilastri dello scarno cinema cinese maoista durante la grande rivoluzione culturale proletaria) e il Nuovo Cinema l'Aquila e ridato a chi lo ha reso importante: è un po' merito loro se Gianfranco Rosi sta seguendo le orme, anche Oscar, di Oppenheimer. Se no invece di dieci anni ce ne vorranno 20 per far decollare la Festa. I due fiaschi (solo al botteghino, perché sono capolavori assoluti) di cui parliamo sono stati 1. il magico japan-cartoon Kubo di Travis Knight, genio del passo uno e rampollo della famiglia Nike, quello delle scarpe sportive (sezione autonoma Alice in città), in uscita italiana tra qualche settimana e 2. Sword Master3D, l'ultimo sorprendente parto della Tsui Hark Factory che invece dubitiamo uscirà mai doppiato.

The Sword master, la regina cattiva
Eppure il primo era oltretutto impreziosito dalle voci magnetiche di star come Charlize Theron e Matthew McConaughey. E il secondo, in prima mondiale assoluta, è diretto da Tung Shing Yee (americazzato in Derek Yee), attore e divo del genere honkonghese del "wuxia", il filone prestigioso della "cappa e spada" cinese, che a 59 anni ha trasferito in un 3D più che sensato, romantico e sensuale, dopo una quarantina di regie, la classica produzione Show Brothers di Chor Yuen Death Duel (1977), tratto dal romanzo di Lung Ku, dal titolo originale San shao je de jian. Naturalmente ben riorchestrata per adeguarla alla sensibilità sovversiva e divertente di una ricezione occupy wall street, rap e street art (e non per mettere in formine di fatua bellezza la nostalgia, come ha fatto il calligrafo Ang Lee, disastrosamente, anni fa). Insomma prodotti da superstar, blockbusters, non noiosi film d'autore veleno al botteghino (Kubo ha raggiunto i 50 milioni di dollari di incassi, finora solo in Usa). Quel che inebria il direttore artistico della manifestazione, discepolo poco zen di Veltroni-Franceschini, non è proprio confermare (più che creare) lo star system, avere live o non live più Benigni, Streep, Bertolucci, Stone, Kidman e Affleck possibili? Una idea forza comprensibile, visto il taglio, che si vuole popolare, dell'evento (anche se non tutti sono Nicolini). Dunque la debacle è stata autarchica. Soprattutto se si va a leggere su Imdb l'unica recensione negativissima del film (by Quinlan).

The Sword Master, la prostituta buona
Di Kubo scriverà Mariuccia Ciotta, mentre non si può non ammirare nel remake dei buddy buddy Derek Yee e Tsui Hark, cosceneggiatore e produttore (che si è dedicato soprattutto al lato tecnologico-sperimentale dell'impresa), al solito, la stupefacente ritmica della narrazione visuale, cioé quello che Eisenstein chiamava il "montaggio verticale", un dominio psicotecnico a zig zag, sempre imprevedibile, del materiale sonoro, musicale, acustico, performativo, conscio, bisexual, inconscio, politico e preconscio, che rende sorprendentemente "ricca" la superficie spazio-temporane della singola inquadrata e del suo montaggio interno e in sequenza; veloce e dinamico il piacere cromatico e coreografico dell'immagine e quasi tossico ciò che rende spasmodico - per esempio il gioco di spade, ora prospettico, ora cubista, ora surrealista ora di umorismo Dalì o il duello dei colori bianchi dei cattivi contro i neri e i nerissimi, anche maleodoranti, dei buoni - il desiderio dell'inquadratura successiva e di come si sviluppa la storia dentro quel piccolo rettangolo bidimensionale che, per magia, è trasformato in mito e realtà 3D nello stesso tempo.
The Sword Master in persona
Buchi, deviazioni e strappi di sberleffo punk inclusi. Improvvisi voltafaccia umoristici che rilanciano le avventure di questi due nostri cavalieri solitari e visionari, il Terzo Maestro, diventato un pacifista pulisci cessi e lo Sword Master, frustrato nel suo desiderio di diventare il number 1 del duello di spade, e del "combattimento assoluto", che si rinchiude, con gesto autonecrofilo degno di Christopher Lee, nella propria tomba, anche perché è stato male informato sul suo stato di salute dal solito medico obiettore di coscienza dell'epoca. Due Don Chisciotte e Sancio Panza rovesciati, troppo valorosi, troppo saggi, troppo vincenti per vincere. Una cosa che scandalizza i giovani cinici rottamatori diventati manieristi adoratori del politicamente scorretto. Due Gilbert & George, invece, capaci di cogliere nel brillare del gesto, della luce, delle materie formali, delle invenzioni stilistiche la miseria del potere e di un dominio che si affida per combattere l'1% di strapotenti dominanti non sui leader, ma sulla sgageeza e l'organizzazione popolare. In questo caso l'orrore del bordello e chi lo usa. Metafora del capitalsimo, che schiavizza il mondo.

Gli innamorati
Già. Sapete, per esempio, da dove vengono i soldi di Mister Trump? Chi glieli ha lasciati in eredità? Ce lo ha raccontato alla Mostra di Venenzia un atteso film di Bill Morrison, Dawson City Frozen Time. Il nonnetto, sfruttatore della prostituzione nel Klonkide, all'epoca del Gold Rush. Questo per far capire meglio la politicità dell'operazione che è sicuramente ignorata da chi si occupa solo di green screen ed è cieco rispetto agli omaggi subliminali a Brandon Lee, come la maschera "che terrorizza tutto l'occidente" e Wall Street, ma non i bimbi cinesi. Frammenti di saggezza zen, poi, sparsi ovunque. Ma mai come forzature di dialogo letterarie.  Un cinema che si fa a stretto contatto con gli esiti più sconvolgenti dell'arte visiva vivente. Così come Corman maneggiava l'action painting, Carmeron la "macchina celibe" di Duchamp, antidoto al dominio delle macchine sull'uomo, perché l'occhio fiammeggiante rosso rubino di Terminator, quasi schiacciato, insegue atti d'amore, come Rothko,  fino alla fine e ama la ragazza che deve uccidere. Sono questi i segreti di Tsui Hark, ben più profondi dell'aderire o meno agli sterotipi del genere Wuxia e al Wire Work, di cui non esiste al mondo esporto maggiore di questo erede diretto e degno allievo di King Hu. Più di John Woo. Altro che Ang Lee e (il pur grandissimo) Zhang Yimou. 

Moderato (estremista) cantabile. Requiem per Michael Cimino, che coreografò il cielo, il sole e le nuvole



di Roberto Silvestri *



Per motivi opposti - troppa simpatia, troppa antipatia testuale, non politica, non (come si dice adesso) ideologica - è difficile scrivere, senza farsi prendere la mano, sulle opere di due cineasti importanti, morti (e anche vissuti negli ultimi anni) in circostanze poco chiare, e che hanno avuto una concezione visiva del mondo, degli spazi e dei tempi, della danza, del sesso proprio e altrui, dell'azione e delle intenzioni interiori che muovono un racconto, differentemente inattuale, estrema, radicale, perfezionista, misteriosa, anticonformista e originale. Produttori entrambi di immagini sensuali, estatiche, audaci e anche sbalorditive. Ma sono tutti aggettivi che si possono incollare sia all'eresia undeground (da Meaks a Brakhage) che a quasi tutti (non Il silenzio degli innocenti, opera davvero unica) i film ben strutturati ma più che perfetti, “da Oscar”.



Parliamo infatti di quella linea antinarrativa e “panoramica”, a forte tentazione trance, non Balzac, semmai Flaubert, non realista semmai verista e descrittiva, non spaziale semmai temporale, legata sia a Chantal Akerman che a “Michelangelo” Cimino, come amava chiamarsi, nei momenti di rara modestia, il più ambizioso e misterioso regista e sceneggiatore italian-american del cinema industriale (Magnum Force, 1973 con John Milius...) nato nel 1943. O nel 1952. O nel 1939 (depistava sempre i suoi fan, anche biograficamente, Michael).



Il 2 luglio 2016, forse a 77 anni, senza che si conoscano ancora le cause del decesso, è morto l'ex genio, di megalomaniacale presunzione, dunque degno figlio della Hollywood Babilonia che lo aveva svezzato alla fantascienza (Silent Running, 1972, di Douglas Trumbull), ma inspiegabilmente espulso del business, proprio lui che pure fatto un grosso regalo alle majors e alle loro politiche di conquista planetaria dei mercati sia trasformando il flop in strategia di sviluppo e crescita, sia tenendo testa e poi annichilendo, tramite un gigantesco Bomb, un fiasco di bibliche dimensioni, l'unica Major indocile alla globalizzazione (si legga Final cut di Steven Bach, che coprodusse il disastro), cioé la Uninted Artists, indicando, per il futuro, con il suo prototipo I cancelli del cielo, la cifra di 150 milioni di dollari come budget medio di un film da mercato globale, magari da distribuire in Cina. 

Siamo già alla prefigurazione di Transformers e di Ghostbuster all girls. Basterà perfezionarne i dettagli. Per essere molto concisi bisogna infatti girare una scena almeno 30 volte, sperimentare, sprecare tempo e soldi, rifare il set, trattare tutti come pezze da piedi, licenziare i produttori tirchi che non capiscono, rubare le idee agli altri, produrre un sacco di scontrini da sbalordire a morte Di Maio... E poi il digitale non è forse nato grazie alle follie di Cimino, che tutto il girato lo stampava, come suo antidoto? 

Solo così si inventa il nuovo format, la nuova struttura e l'high concept. Non lo capirono subito. E i suoi film vennero visti sempre a uno stadio ancora informale, come work progress. 250 miglia di riprese filmate... Finalmente Criterion ha pubbicato il tutto in dvd blue ray (supervisionato dallo stesso Cimino) e I cancelli del cielo è pronto, dal 2013, al revisionismo critico e alla vendetta dei cinefili. Aprire gli occhi e in questo caso le orecchie è d'obbligo. Coreografare il cielo il sole e le nuvole è possibile. Come un prologo nel cielo trontiano. Già. La working class nordamericana, anche in tutta la sua violenza, rabbia e frustrazione, non è mai stata protagonista esplicita di epopee così lussuose. Pero' si può estetizzare la politica, come fece Cimino pago di descrivere la fragilità e bellezza di specifiche comunità (come farà nell'Anno del Dragone, 1985, esplorando una cultura emarginata come quella cinese, con Mickey Rourke, un altro cineasta fuori schema, che verrà espulso dal grande gioco; e poi in The Sunchaser, 1996, sui nativi d'America, 20 anni fa, l'ultimo suo film), ma è più difficile politicizzare l'arte, che quelle comunità scavalcano in cerca di soggettività non etniche, come chiedeva Benjamin.


Non molto strano dunque che negli Stati Uniti i necrologi sono stati tardivi, imbarazzati e acidi. In particolare Peter Biskind, su Hollywood Reporter. Nessuno ha osato ricordare che Cimino negli ultimi anni aveva cambiato sesso, anticipando i fratelli Wachowski. 
Nessuno ha scritto che Cimino era diventato, anche nei vestiti, ironia psicosomatica della sorte, sempre più simile a una bella signora vietnamita del nord. Proprio lui che, in pieno processo per gli eccidi di My Lai, con West Point distrutta per sempre dopo aver trasformato ufficiali immacolati in atroci macchine criminali, aveva pensato bene nel Cacciatore di capovolgere la storia, anticipando Rambo 2, con la millimetrica precisione di tiro di un genio dello spot pubblicitario (Cimino da lì veniva). 

E così Robert De Niro, americano della Pennsylvania di origini russo-ortodosse, inceneriva, brandendo come Mastro Lindo un lanciafiamme, il milite di Ho Chi Minh che aveva osato sventrare, con una granata, una montagna di donne, vecchi e bimbi sud vietnamiti. Che eroe! Oppure. Che infame! A secondo della ricezione di quella scena. Che io trovavo semplicemente offensiva non tanto per i gloriosi compagni guerriglieri che tutta la gioventù del mondo sosteneva e aiutava con ogni mezzo necessario, ma per Robert Aldrich che, con fulminate dinamismo e secchezza, in I ragazzi del coro (scena del lanciafiamme ammazzacattivi rossi nella grotta) aveva, un anno prima, fuor di metafora, e senza bisogno di roulette russa e nemici esagitati come nel peggior cinema propagandistico, raccontato “cosa l'America stesse facendo ai suoi ragazzi scaraventandoli in un luogo straniero e senza una giustificazione moralmente valida”. 

E la trovavo ancora più rivoltante e obliqua, quella scena, pensando a un'altra sequenza di Aldrich, in La spoca dozzina, quando, per lanciare un'idea a Tarantino (che raccoglierà tanti anni dopo) Lee Marvin e compagni finiscono a brandelli, e con le granate, una grande quantità di gerarchi nazisti riuniti a consesso. Insomma estremismo contro estremismo. E quello di Cimino mi sembrava un po' troppo moderato, un estremismo mainstream, alla Berretti verdi. Ma Joann Carelli, a lungo collaboratrice di Cimino, mi rimprovererebbe. “Non è un film di guerra, Il Cacciatore, ma un film su come la guerra aveva rovinato la vita di un gruppo di amici che amavano l'America”. E il regista stesso, al Los Angeles Weekly che gli chiedeva cosa ne pensasse del pubblico inneggiante e plaudente alla scena del prigioniero di guerra americano torturato, ma che uccide infine il suo aguzzino comunista, rispose: “Chi ama questo paese è stato troppo a lungo sulla difensiva”. 
Già, come diceva in quei mesi il candidato repubblicano alla presidenza Barry Goldwater, ben educato dai Black Panther, “in certi momenti della storia essere estremisti vuol dire essere patrioti”. Sembra una slogan elettorale di Trump (speriamo, così perde anche lui), ma qui mi riferisco al patriottismo cinematografico, al patrimonio di forme ereditato da due tradizioni formali divergenti ma di seme comune, quella europea e quella hollywoodiana. Da cui Chantal Akerman esce per sempre mentre Cimino rientra, e scandalosamente, dopo anni di geniali esondazioni nelle “zone rosse” dell'immaginario e di sperimentazioni “linguistiche” come si diceva all'epoca, new Hollywood. Un materiale immaginario spettacolare sprecato era conservato nelle teste di metà America. Quella “maggioranza silenziosa” dimenticata, evocata da Richard Nixon, “che non urla, non protesta, non dimostra. Non è razzista o psicopatico. Non è colpevole dei crimini che piagano questa nostra terra”. Ma quella America, altro che “immaginario sprecato”, altro che innocente, era quella dominante, ovunque, in ogni ganglio del Potere. E a suon di manganelli veniva raccontata nlle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche e nei Media.


Insomma. Non mi piaceva e non mi piace tuttora quel capolavoro estramista moderato intitolato The Deer Hunter, Il Cacciatore. Nonostante i 5 Oscar (film, regia, montaggio, sonoro, personaggio non protagonista) oggettivamente mi smentiscano. Quando l'ho visto nel 1978, mi è sembrato un'esercitazione militare, leziosa e rococo' come una simulazione bellica, condotta su un copione che, a guerra ormai perduta, ci sbatteva in faccia il punto di vista redneck, operaio, proletario di chi quella guerra l'aveva combattuta davvero, da private Ryan, nel fango, lasciandoci la vita, la testa o qualche arto, alla faccia di quei lavativi di disertori, hippies e maledetti punk figli di papà che l'avversarono ma beneficeranno per sempre del suo “senso profondo”. Liberarci dal “comunismo”, quello reale che non piaceva a nessuno. Va bene. Ma chi scrisse quel copione, sentenza di tribunale, era stato Deric Washburn, scrittore dilettante e falegname di mestiere, oltre che ex reduce. Rubare un copione non è reato, nella logica Studio System. E' patriottismo moderato. 
Divulgare a mezzo mondo di essere stato medico dei Berretti Verdi nel 1968 durante l'offensiva del Tet è patriottico. Ma poi scoprire di essere stato assegnato come medico a una unità di riserva in Vientam nel 1962, tre anni prima che inviassero truppe di terra americane in sud est asiatico, è patriottismo moderato. 

Insomma in quegli anni cercavo di coniugare, come canone, forma-cinema, Corman con Straub, Siegel con Aldrich, de Antonio con Pietro Heliczer, Claudia Weil con Dorothy Arzner, Godard con Rocha, e quelle densità luministiche (Zsigmond ha sempre dichiarato che il suo ostinato regista faceva sempre e solo come gli pareva) e quelle intensità recitative di languida ferocia, quei tempi lunghi che si compiacevano di non finire mai, li trovavo plastica: fasulli, orpellosi, pornografici (come diceva Straub, o “spettacolari” come diceva Debord). Insomma un voler essere Hendrix senza gli Experience e senza Jimi. Di Cimino mi ha sorpreso poi in fondo solo il film Una calibro 20 per lo specialista, con Clint e con la lunga Cadillac bianca, perché perfetto nel format hollywood new hollywood, e il vertice della sua concezione publicitaria (veniva dal regno misterioso degli spot, no?), Il Siciliano, una certa rilettura sovversiva (alla Toni Negri) di Giacomo Leopardi, ben prima di quella, altrettanto affilata, di Mario Martone, sotto uno strato di calligrafismo geniale. E, a proposito di complotti Cia, visto che si parla di Salvatore Giuliano, ho sofferto come se fosse un complotto riuscito della destra americana la dissoluzione della United Artists e del suo meraviglioso gruppo dirigente di creativi produttori (Arthur B. Krim, Mike Medavoy, William Bernstein e Eric Pleskow, poi emigrati alla Orion). E credo che far lievitare il costo di I cancelli del cielo da 7 a 44 miliardi di dollari (che equivale oggi a 140 milioni di dollari) non sia stato tanto una ossessione citazionistica, un omaggio caro a un altro ego smisurato, o un vendetta organizzata in onore di Eric von Stroheim, ma una involontaria, e certo drammaticamente somatizzata, profezia vertiginosa di cosa sarebbe diventato il blockbuster e la sua high art. E come I cancelli del cielo (mi piaceva di più la versione due ore e mezza tagliata dai produttori dopo il disastroso incontro con il primo pubblico di New York, quella vista a Cannes, con una smagliante Isabelle Huppert che in conferenza stampa magnetizzo' chiunque) aveva lo stesso difetto di costruzione, più che di ideazione. Non poteva piacere a tutti i pubblici eppure era fatto per piacere a tutti i tipi di pubblico maschile e femminil, del nord e del sud, dell'est e dell'ovest. Ci volevano più soldi, più investimenti, più perdite. Per ironia della sorte, Ghostbuster 2 non andrà in Cina perché il governo cinese mette il bando a tutti i film sui fantasmi. I cancelli del cielo cos'era se non una magnifica ghoststory che affondava i suoi piedi ben dentro la Storia che non si può ricostruire con efficacia se non falsandola “in meglio”? Il bugiardo che mente a tutti su ogni cosa (la definizione è del nemico Washburn) come sappiamo da Welles può essere un ottimo cantastorie del cinema. Soprattutto quando lo stesso Cimino si definisce “Io non sono chi sono e sono chi non sono” aggiungendo per Vanity Fair (e qui sembra davvero quel moderato estremista di Trump) “Quando io scherzo sono serio, quando sono serio scherzo”.


Non mi piace insomma il cinema di Cimino. Rischio di sbagliare. D'altra parte nessuno è perfetto. Ho polemizzato perfino sul Cacciatore con i miei “maestri”, Adriano Aprà e Beniamino Placido, all'epoca, che di cinema e di cultura profonda dell'America ne capivano più di me. Ma non vedevamo lo stesso film. E loro non andavano al cinema dopo aver vissuto lo stesso lungo, collettivo, planetario (e per una volta, l'unica, vittorioso) combattimento che fu anche generazionale. In quel momento, però, a livello critico, quel film che mi sembrò piuttosto rigonfio di esibizionismo stilistico nelle scene madri (la roulette “russa”), conservatore nello stile (come dire: basta new Hollywood, torniamo a De Mille), di destra nelle intenzioni esplicite (autoconsolazione e leccaggio di cicatrici interiori) e dai sinistri retrogusti, in una cosa è stato davvero una pietra miliare. Ci ha fatto capire che lo strutturalismo aveva esaurito la sua funzione “scientifica” e che senza una solida teoria della ricezione, e del punto di vista, non si riusciva a penetrare il testo e a riscoprire i lati inediti di un contesto. Il sessantotto aguzzava l'ingegno, è per questo continua a far venire il mal di stomaco a chi non lo ha incrociato (dalla parte giusta). Già.



“Le guerre ingiuste non si combattono mai” aveva ammonito l'ex “Big Red One” Sam Fuller. Che sulla Corea aveva aperto polemiche inascoltate. Il Vietnam fu aggredito dagli Usa, come Saddam avrebbe fatto, fotocopiandone anche l'esito, con il Kuwait che faceva gola per il petrolio. Ma non si poteva dire. Tranne i coraggiosi. Emile de Antonio intervista la guerriglia armata d'America (Underground, 1977): “perché mettete le bombe proprio lì o là?”, rischiando la galera o un rigurgito di maccartismo. Ma ai documentaristi tutto è permesso, perché tanto chi li vede? Addirittura un doc anti aggressione Usa in Vietnam vince l'Oscar, e spiega che il razzismo anti giallo (e non solo giallo, anche rosso, nero) è connaturato all'anima profonda di una delle due grandi potenze. A chi “ama l'America”. Hearts and Minds di Peter Davis vince la statuetta nell'indifferenza del mondo occidentale. E allora la giuria dell'Academy Awards mica rispettava le quote di black e di donne. In Italia nessuno ancora l'ha visto. Non deve aspettare il “crollo del muro di Berlino”, come fanno Kubrick e Stone, proprio quando Hollyood era terrorizzata dal trattare in qualunque maniera il conflitto in sud-asiatico. Solo Robert Aldrich, che porta l'urlo e la rabbia delle manifestazioni di tutto il mondo nei cinematografi, rinchiudendole in un film solo, osa. “Nixon boia!”, in versione poetica era L'imperatore del nord (1973) e in versione in prosa era Quella sporca ultima meta (1974). In versione antiCimino sarà I ragazzi del coro: senza amnesie astute o inversioni di fronte. Coming home, 1978. Apocalypse now, 1979, Platoon, 1986, Full Metal Jacket, 1987 e Born on the Fourth of July sono altra storia. Ma io continuo a consigliare Who'll Stop the Rain di Karel Reisz e il primo Rambo, per comprendere come l'altra America, quella proguerra fu torturata nel profondo dalla sua ennesima guerra sbagliata.




* scritto per Sentieri Selvaggi 

venerdì 21 ottobre 2016

Pio XIII, il Papa fumatore. Su Sky la prima serie tv di Paolo Sorrentino


Roberto Silvestri

Fuori gara è passato alla mostra di Venezia e ieri su Sky, ma è ancora difficile da giudicare, anche se comicamente mi sembra perfetto, l'esperimento di Paolo Sorrentino nella serie tv. Cioé le prime due ore di Il papa giovane, che ipotizza l'ascesa al soglio pontificio del primo pontefice nordamericano, ex orfano oggi Pio XIII (interpretato per la verità dalla star inglese Jude Law) che è davvero un "americano" speciale perché fuma sigarette dalla prima all'ultima inquadratura. Deve essere una moda quella del tormentone perché abbiamo visto Colin Firth in Genius, diretto da Michael Grandage, portare il Borsalino anche a letto, per far capire anche ai distratti che stiamo parlando degli anni 30/40 qui e di un sommo pontefice unico e originale lì. Sarà un pontificato rivoluzionario e scandaloso (come sembra dalla prima parte del lavoro) quello del papa furmatore? O solo gesuiticamente più che corretto (come potrebbe far presagire la seconda parte, e i movimenti del pontefice vero?). Pio XIII sarà un santo, un gangster o un giustiziere o un noioso lefevriano? Farà fuori la nomenclatura nera, la curia romana, capitanata da un Silvio Orlando "progressista" (ovviamente), e in grande forma malefica, che da sempre governa il Vaticano e controlla il vertice (o lo annichilisce se necessario o costringe al ritiro)? O saprà solo sostituirla con una struttura più efficace e moderna e dunque reazionaria come va di moda?

Più ancora del Congresso di Washington, del Texas solitario e tenebroso o della sede di un network tv, San Pietro e dintorni è il set prediletto per osservare all'opera il Male (dove il Bene dovrebbe regnare) e i cattivi, dove meno te li aspetti. Ci offre un imbattibile catalogo delle malvagità umane in azione, tra lobby potenti, ipocrisia anche sessuale, mercimonio, gruppi di potere scatenati e in conflitto, spiate in confessionale, coperture di attività criminali e opere pie esenfisco. E caccia a pedofili e omosessuali, visto che siamo sotto un papa di nome Pio. Le vie del Signore sono, infatti, misteriose e dunque, come spiegherà Silvio Orlando piangente, nel ruolo del cardinale più maligno, e ci sembra di sentire Andreotti, “per fermare sua santità sarò costretto a fare cose molto malvagie”. Vedremo quali. L'infallibilità del pontefice ha infatti funzionato finché un papa, Pio XI, definì il duce “l'uomo della divina provvidenza”. Oggi che Francesco apre ai gay, lui stesso si schernisce: “chi sono io per giudicare”? Non siamo più ai tempi del primo papa sciatore e di Papocchio, quando il tono della satira radicale, ma ben al di qua dell'oltraggio, accontentava sia clericani che anticlericali. Fu Woytila la prima super star del Vaticano. Il Santo che ha polverizzato, grazie anche a Solidarnosc, la cortina di ferro e senza nascondersi dietro una maschera, se non di fard, come il suo omologo messicano. Ma i traffici loschi di Marcinkus, la connivenza con Videla e tutti gli anti comunisti del mondo, la rete dei vescovi e dei sacerdoti pedofili, la santificazione di criminali, come il clero latifondista spagnolo durante la guerra civile, hanno via via quasi distrutto la Chiesa cattolica negli ultimi anni e oggi per ridargli dignità e autorità etica c'è bisogno anche di un serio contributo artistico. E chi meglio del nuovo Fellini, diversamente a-clericale, come Paolo Sorrentino potrebbe aiutarla?  Il tentativo è quello di fare una sorta di seriale alla Cattelan, una botta in testa ad ogni luogo comune, come si spiega sui titoli di testa. E di fare l'occhiolino allo spettatore intelligente, come platealmente fa Jude Law. 
 
Cosi il film ricorre a un continuo cambio di registro, passando dal grottesco al gangster movie, dalla satira al giocoso, dal mistico all'onirico, dal femminista (la nomina di Diane Keaton, fumatrice anche lei, a segretario particolare) al morettiano (la partita di calcio delle suore), dal mafia-movie al digitalmente spettacolare (riempire piazza san pietro così è più facile), al Tokyo Decadence Topaz de noantri (quarto episodio), al Cl movie con la comitiva di ragazzi in pullman che si avviano beati verso piazza San Pietro in occasione del primo discorso ufficiale del Papa che, come macchia nera, o meglio Savonarola, fustigherà e maledirà il popolo di Dio che ha dimenticato Dio (secondo episodio). E sembra, il papa giovane e bello, bellissimo, autocompiaciuto come Narciso, un imam dell'Isis. Già. Questo Papa sembra maneggiare tutte le tastiere possibili e immaginabili del bene e soprattutto del male in un delirio (piuttosto alla moda) di politicamente scorretto. Ottimo escamotage per strutturare una serie tv (che di malvagità si inebria sempre) che rispetto al film per il cinema può percorrere nei suoi segmenti variabili sorprendenti, infinite e perfino sovversive, di buon gusto e di cattivo gusto. Mentre il film di due ore obbliga alla sintesi e alla scelta del punto di vista, e un tono di gusto, la serie permette una libertà infinita di fraseggio e di stinature. Vedremo nel prosieguo quale virtuosismi papa Law potrà permettersi. Lui che sembra molto esperto in scienze della comunicazione. Anche se in geografia politica ci sembra mal consigliato (tutto l'episodio con il primo ministro della Groenlandia (quarta parte) è davvero imbarazzante, non sappiamo se faccia la parodia di Berlusconi, di Di Maio o di Crozza.


Il migliore affondo di Young Pope è quando ridicolizza il suo capo marketing, una bionda in carriera che viene da Harward (e giustamente un cattolico prende in giro una università fondata dai protestanti), smaniosa di stampare la sua effigie ovunque, perfino sui piatti, contrapponendole la strategia del mistero di Bansky, Mina, Salinger, Daft punk e Ferrente: più si scompare e più ci si sacralizza. Il subcomandante Marcos (oltre che il lottatore mitico della cultura messicana, El Santo) ne sono i più radicali esponenti. Un solo dubbio. Forse per spiazzarci. Ma davvero le guardie svizzere salutano sull'attenti con la mano sulla fronte come i carabinieri e i corazzieri?      

giovedì 20 ottobre 2016

Festa di Roma. I film delle star. The Accountant, con Ben Affleck


Anna Kendrick e Ben Affleck in The Accountant (la scena della pausa pranzo)
Roberto Silvestri

The Accountant (il contabile), l’high concept dello sceneggiatore Will Dubuque è: costruire un thriller pieno d’azione, anche psicologica, con un commercialista come eroe solitario e misterioso (oltretutto con problemi di autismo, e traumi causati dal padre, in stile Quel fenomeno di mio figlio, con Jerry Lewis), dal lavoro diversamente affascinante, attorniato da personaggi non convenzionali: una funzionaria pubblica ricattata, uno spietato killer, manager sudiste e i peggiori mostri della terra. Soprattutto l'handicap ha bloccato per anni il progetto. "Non funziona". In realtà il film, girato in Georgia, ad Atlanta, ma ambientato in Illinois, ha incassato 44 milioni di dollari negli Usa. Comunque Mel Gibson non lo ha voluto interpretare e i Coen non lo hanno voluto dirigere.

Il protagonista della storia è Christian Wolff (notare il nome, in fondo siamo sempre in guerra con l’Isis), interpretato da Ben Affleck, che, contemporaneamente, è: portatore di handicap (autistico, appunto), vittima infantile di genitori divorziati, genio intellettuale (matematico), genio militare (lo allenava a forza una sorta di Bruce Lee), genio del male di fuori, ma pasta d’uomo, capace di sentimenti profondi e normali, dentro (molto dentro, e solo con commercialiste).
Infine collezionista d’arte controvoglia. Hobby? Sparare con i fucili mitragliatori da combattimento.

Ben Affleck
Christian concentra insomma tutte le qualità di molti classici nemici mortali psicotici di 007, oggi trasformati dalle serie tv in noiosi super eroi che, più utilizzano ogni mezzo criminale necessario per primeggiare come sparare con maggiore precisione e lottare senza mai subire K.O., e più salgono negli indici di gradimento popolare (come Trump e altri mascalzoni). Per calmarsi Christian non a caso canticchia una filastrocca imparata da bambino su Solomon Gundry, che nei fumetti DC è un nemico di Batman (personaggio che Ben Affleck ha interpretato nel passato). Gavin O’Connor, il regista, però sta facendo cinema e non televisione. Dunque basterà circondare Christian di personaggi ancora più malvagi di lui e diventerà presto, con la complicità di J.K.Simmons (Whiplash) nel ruolo di un alto funzionario del Dipartimento Tesoro, il Giustiziere: della famiglia Gambino, dei feroci cartelli della droga ispanici, dei gruppi terroristi e perfino di una mega compagnia elettronica specializzata in bio-protesi di ultima generazione  (dove c’è qualcuno, John Litgow,  come al solito capace di esprimere almeno sette tipi di ambiguità, che sta stornando miliardi di dollari).     
Nella prima scena Christian, adulto, insegna a una famiglia come frodare il fisco “legalmente” e vivere felici (prendete appunti) ma quell’ufficietto di commercialista di una sperduta cittadina di provincia, è solo la sua copertura… In realtà la casa trabocca di soldi di ogni valuta, di passaporti falsi a volontà, di armi da guerra, di quadri di Pollock e di Renoir (per pagarlo in nero cosa di meglio?) e di un camper attrezzato per la fuga rapida. Lavorare in certi ambienti può provocare seri danni alla salute.  
J.K.Simmons
I cattivi, comunque, divertono. Tutti gli altri annoiano. Sono rock, non lenti (per questo Hillary ha dovuto conquistare gli elettori mettendo in evidenza alcuni suoi aspetti segreti un po’ funesti…fa chic, e se no, non vincerà. In Christian la cattiveria è essenziale come il ghiaccio nel Martini molto secco. Tanto poi si butta via.
Nella seconda scena, in flashback infantile, Christian si agita troppo e comunica nulla. Così il padre, alto militare, lo strappa agli specialisti che vorrebbero proteggerlo dal mondo, lo getta invece proprio nella mischia, e lo addestra, fin da piccolo e più del fratello, ad aggredite per primo coi pugni, i pugnali, le arti marziali, le pistole e i fucili mitragliatori, chiunque gli si metta davanti.
John Litgow, sul retro)
Il titolo del film scelto dalla Wb, poi, è davvero eccentrico e apparentemente poco glamour, “il ragioniere”, “il contabile”, “il commercialista”, cosa c’è di più dannoso al botteghino? Invece questo lavoro è più alla moda di quanto non si pensi, visto che solo di soldi, Pil, scontrini, paradisi fiscali, conti in rosso, Equitalia, come ingannare il fisco e vivere felici, si parla, e da ogni parte della barricata e del mondo senza bravi commercialisti non si organizzano più neppure più le Olimpiadi.
Inoltre il film è un vestito fatto su misura per Ben Affleck, questo Christian dalle molteplici qualità e personalità, che, non più filiforme, oggi è massiccio come una guardia del corpo e vuole far vedere di non essere da meno, come grande matematico, del suo amico Matt Damon. Così se la sua mente conosce pause e vuoti, che il corpo imbolsito rende credibili, ecco che le nuove tecnologie internet lo assistono attraverso una misteriosa partner che lo teleguida via I-phone.  La macchina da guerra con i muscoli di Rambo e il cervello di Einstein, timido e riservatissimo con le donne, non potrà che trovare il lavoro perfetto come free lance là dove camorra e ndrangheta  devono far quadrare i bilanci e cancellare dalla terra chi sgarra.
Dentro una confezione di soffocante perfezione spazio-temporale, ma priva di aria, di sole, di spazi visivi sonori, di movimenti luministici sinuosi, insomma tra ritmi e grafie dinamiche prevedibili anche se di alta scuola, non mancano bagliori di follia, di fuoco, di umorismo e di ebbrezza. Come il rapinatore Walter Matthau, l’ultimo degli indipendenti in Chi ucciderà Charlie Varrick, e in quei thriller liberi e anarchici anni 70 anche Christian sa ridere e piangere sulle miserie del nostro animo, su se stesso. Il duetto in pausa pranzo, poi, tra Ben Affleck e Anna Kendrick varrà il prezzo del biglietto. Che l'università di Chicago sia "la tomba del piacere" come afferma una sconsolata Dana in questa scena pare che sia proprio il motto (non ufficiale) degli studenti dell'Illinois. E, a proposito di umorismo, la super matermatica Dana Cummings saputo che Christian ha cambiato 34 case gli schiede "quante volte ti sei spostato?" E il super matematico non gli dice 33, ma 34....

mercoledì 19 ottobre 2016

Il sibilo della donna obliqua. Maria per Roma. Alla Festa l'esordio nel lungo di Karen Di Porto, con una commedia acida


Gesù in "Maria per Roma"



Roberto Silvestri 

La doppia morale è: Finiremo tutti sotto i ponti? Ma quando si riprenderà il mercato immobiliare? 
Un film angosciato ma ottimista,  girato a basso costo, con gli amici e i colleghi del corso di recitazione affiancati da creativi di alto livello. Prodotto da una forza della natura, Galliano Juso. Libero, anche se finto improvvisato. Un tempo avrebbe sedotto solo festival più off off, visto alcune battute: "Ah Gesù! nunce rompe er cazzo". Ma la qualità della messa in scena e della messa in inquadratura è alta. L’attrice solista e protagonista (che è anche la compositrice e direttrice d'orchestra della suite audiovisiva) regge tutto sulle sue spalle, più di Carla Benedetti in Matilda (di Antonietta De Lillo, 1990) per non andare a Io la conoscevo bene. Il ritmo è griffato Mirko Garrone. E poi questo film ha l’originalità di ripopolare Roma centro dopo che To Rome With Love (che un giorno si scoprirà essere costato 13 miliardi, esattamente quelli finora spesi da Giovanni Malagò per conquistare la candidatura ai Giochi) l'aveva regalata tutta a una manciata di turisti americani.
Già. Ve lo ricordate il film romano di Woody Allen? Avete almeno apprezzato il modo in cui il direttore della fotografia,  Darius Khondji affogò la città in un liquido amniotico dorato-barocco fatato e Allen ha fatto sparire  completamente dal centro storico della città eterna tutti i suoi abitanti?


Grande, geniale visione, che avrà sicuramente ridestato la fame di Fori Imperiali, S. Ivo alla Sapienza, Colosseo, San Pietro e di Olimpiadi qui in tutto il mondo (non fosse poi per la questione immondizia-puzza, che ha riportato l’Urbe l’estate scorsa sotto Milano e Venezia nel gradimento turistico, e tagliato le gambe alla giunta di “pulizia rapida” del Movimento 5 Stelle, che poi, comunitaristi come sono, l’idea di vedere tutte quelle medaglie d’oro vinte da kenioti ed etiopi a spese dei cittadini Spqr…).
Riportare per miracolo quelle strade e quei palazzi e chiese, ora soffocate da un traffico perverso, all’epoca della pittura e architettura non meno conturbante di Borromini, Bernini e Caravaggio, è stata la finezza di chi considera arte il testo e non il pretesto, non fa mai del pittoricismo, non fotocopia i quadri, non ruba le luci suggestive altrui, semmai fa cultura figurativa ex novo, cattura, per esempio, tensioni interne e scansioni figurative antiche e dimenticate, di epoche rivoluzionarie in fatto di bellezza e di forma. Anche se non piacerà ai cattolici, il cinema è una continua Riforma. Nico D’Alessandria, (L’imperatore di Roma), Stefano Franchina (Morire gratis), Gianni Di Gregorio, Stefano Roncoroni (Giallo alla regola), Stefano Agosti (Quartiere), i Vanzina, Magni, Moretti, Sordi e Antonioni, senza esibire i loro riferimenti pittorici e fotografici, hanno saputo costruire immagini forti su questo luogo dell’arte.  E Maura Morales, che dipinge con le luci, non è da meno nel cogliere quella duplicità, ambiguità, doppiezza “in movimento” di Roma nell’epoca della prima architettura e urbanistica barocca. Quel gioco di interno e di esterno, di naturalezza sbandierata e intimità protetta che è anche il fascino della protagonista del film. Un one woman show movie


Maria fuori dalla Casa del Cinema

Questo ritratto di donna romana di oggi deve molto agli autoscatti in sovrimpressione della fotografa brasiliana Nadia Maria (e soprattutto il celebre doppio primo piano con una Maria che ti guarda diritta al cuore mentre l'altra getta lo sguardo via, fuori quadro, perché il grande sì alla vita più il piacere di un altro sguardo possibile sommati producono il sibilo della donna obliqua).
Ai romani piacerà questa irrealistica visione? Rimasero freddi davanti all’omaggio di Allen, che era più dedicato a Nina di Minnelli che a Visconti e Zeffirelli (nel cinema americano cool l’arte moderna è protagonista, più che altrove), l’hanno giudicata anche imperialista e perfino  da “bomba N”, come ha scritto, soddisfatto e sadicamente ammirato, Goffredo Fofi.
Autoritratto di Maria Nadia
E chissà cosa diranno adesso di questa piccola grande commedia acida e distorta, diretta scritta e recitata da Karen Di Porto, (affermatasi a Corto Dorico con Cesare nel 2012), tutta immersa negli stessi vicoletti pregiati di Roma centro, tra piazza Navona e via Vittoria, piazza di Campitelli e il Grillo, Campo de’ Fiori e piazza di Spagna, via Giulia e il Corso, pullulante di sartine di Emmer e ragazzini di Castellani, prima, e di bed & breakfast oggi, perché solo così i romani  sopravvivono a questi 8 anni di grande crisi, affittandosi le case o facendo come la protagonista del film la keyholder. Chi ti dà la chiave dell'appartamento affittato. E racconta la giornata stressante e frenetica di una giovane donna, Maria (un tempo tutte le ragazze romane si chiamavano Maria), troppo occupata e alienata per essere problematica come la Vitti di Antonioni 50 anni dopo o per affermare la propria maschia impetuosità egemone come Anna Magnani (con cui divide però una passione sfrenata, e disagevole, per i cagnolini da grembo). Maria non ha tempo neppure per essere femminista e politicamente impegnata, ma siamo sicuri che nel fuori campo... E’ rampolla di un ceto medio alto decaduto. Ha amato in vita sua solo il papà defunto (il corto satirico, Nicolino, del 2011, sui fannulloni incestuosi già nuotava nei territori psicotici della famiglia). Il reddito di cittadinanza non l’ha ancora ottenuto. E deve mangiare, contando solo sulle sue caparbie forze (e sulla generosità delle mamme degli amici).
Maria si sbronza al bar della Casa del cinema
Giovane attrice, è in cerca perenne di parti. Ha una tecnica del respiro che farebbe la gioia della maestra britannica Linklater, e della lacrima a comando che neppure Mia Farrow. Gira come una trottola su un vespino col cagnolino di razza vecchio e malandato di cuore nel cestino. Forse con la bici farebbe prima, ma c’è il problema dei casting, a volte fuori porta.
Già tra un provino e l’altro, tra la posa di un corto e una comparsata tv, Maria, impiegata in una agenzia che affitta case e camere, accoglie i turisti, perfino quelli sardi che sono micidiali, controlla le carte di credito, sfonda le porte per i turisti distratti che lasciano le chiavi dentro, porterebbe perfino la carta igienica se a un certo punto non dicesse: no, questo no; fa i contratti, coccola i turisti più indifesi, incassa i soldi; tiene a bada i più spocchiosi proprietari nobili,  costretti a immaginare obesi d’Israele sbriciolare le loro sedie stile impero, e vorrebbero morire; snocciola alle americane dritte sui bar con le migliori margarite e sui ristoranti kosher, e si accolla i bagagli pesanti di un bramino che per religione non può trasportare valige. Litiga con la mamma antiquaria e in bancarotta, che la vorrebbe accasata, incrocia più volte nel corso della giornata un suo amico gentile, ex attore e forse futuro fidanzato, ormai probabile vagabondo, che travestito da Cristo tra i centurioni di stanza al Colosseo, si fa fotografare a pagamento. Forse strapperà quella parte tanto agognata, “finalmente un ruolo di donna a tutto tondo” come se fosse di Monica Strambrini, se solo parteciperà, tacchi 15cm, e vestito da sera nero adeguato, a un party alla Casa del cinema, grondante produttori veri, produttori falsi e produttori  provoloni.    Rischa, paradossi della vita, di non trovare un letto per passare la notte...
Karen Di Porto in "Maria Per Roma" 
L’attesa anteprima mondiale di Maria per Roma, scritto, diretto e intepretato  da Karen Di Porto, la Nanni Moretti d’epoca airb&b, ha stipato la sala gigante (Sinopoli) mentre in contemporanea (il palinsesto è opera di un pazzo furioso) uno stupefacente Kubo (altro che Pets e succedanei) veniva snobbato dal popolo dei web critici, di cui si è parlato proprio ieri in un incontro internazionale tra critici e si è scoperto che i critici non esistono più, e tra chi scrive di cinema sulla carta stampata sindacalizzato (Sncci e Sgci) e chi sul digitale non sindacalizzato l’unica differenza non è più tra tromboni e ultrà, adepti del cinema ascetico e crapuloni fanatici di Stracult solamente, ma è che i primi scrivono, se ci riescono, due righe di critica, spesso consociativa (mi piace, delude, orrendo) sulla carta quotidiana e gli altri quanto vogliono ma nella zona nicchia di  rete. Che tutti sono sottopagati, tranne una ventina, e tutti sono sottomessi al grande ricatto di trattare solo quello che i grandi distributori vogliono, se no niente pubblicità. Qui, in Francia e negli Stati Uniti.      
Karen Di Ponte e Andrea Pianamente (dietro)