Vladimir Strizhevsky, attore e regista del cinema muto |
Mariuccia
Ciotta
Quale
immaginazione esportarono in occidente i “russi bianchi”
espatriati dopo la guerra civile che seguì la Rivoluzione d'Ottobre?
Un cinema lontano dall'avanguardia di Eisenstein e Vertov, ma anche
fuori dalla propaganda della Russia imperiale, come è il caso di un
regista eccentrico, Vladimir Strizhevsky, nato nel 1892 a
Yekaterinoslav in Ucraina (allora parte del territorio russo) e
morto nel 1977 agli antipodi materiali e immateriali, Los Angeles.
Uno strano caso di vagabondo dello schermo, passato in Francia,
Germania e Italia prima di approdare in California.
L'aiutante
dello Zar (1929) visto alle Giornate del cinema muto di Pordenone
mette insieme i frammenti di un cineasta tenuto ai margini, eppure
dall'intensità stupefacente che fa a gara con Lubitsch per humour ed
erotismo e con Murnau per incanto e melodramma. La copia proiettata
alle Giornate è l'unica rimasta e proviene dagli archivi danesi,
protagonista un attore dagli occhi magnetici, Ivan Mozhukhin, anche
lui esule in Francia insieme al regista.
Siamo
nel 1912 al seguito del principe Boris Kurbsky proveniente da un
mancato matrimonio e diretto in Russia su un treno sbuffante che farà
tappa a San Pietroburgo. Ed ecco apparire Helena, interpretata
dall'italiana Carmen Boni. Occhioni neri e charme. La seduzione ha
inizio. Ma c'è un losco individuo che segue Helena e che le ruba
borsetta e passaporto alla fermata di confine. L'unico modo per farle
passare la frontiera è che il principe la dichiari sua moglie. Il
gioco amoroso si fa piccante. Gli equivoci impertinenti nello
scompartimento, le allusioni del capotreno, le velature del corpo
nudo di lei dietro la porta a vetri proseguiranno con un ritmo
brioso quando la coppia fittizia arriverà a destinazione. Balletto
di ufficiali maliziosi alla vista della bella moglie straniera,
invasioni festanti nell'appartamento del principe, scenografie
hollywoodiane, brindisi a ripetizione, e frusciar d'abiti di seta e
chiffon... Sembra di stare a Hollywood, invece siamo su un set
tedesco dentro l'obiettivo di un ex divo russo del muto nella parte
dell'eroe romantico, e poi sceneggiatore e regista, prima di fuggire
nel 1923 quando la bandiera rossa con falce martello sancì la
nascita dell'Urss dopo la vittoria sull'Armata bianca.
Ivan Mozhukhin |
Ma
Strizhevsky è davvero un anti-bolscevico devoto allo Zar come il
principe Kurbsky? Secondo lo storico danese Casper Tybjerg, che firma
un commento sul catalogo, sì. “La figura dello Zar è descritta
con reverenza quasi mistica”, scrive. C'è un'ambiguità, però,
che pervade il film, una nebbia emotiva che circonda i protagonisti e
fa luccicare gli occhi chiarissimi di Ivan Mozhukhin, una specie di
Rodolfo Valentino, nel bianco e nero della pellicola. Lo zar è lì
quasi fuori quadro, di spalle, mai visibile da vicino, sghembo
rispetto all'azione centrale, icona dall'alone di morte. L'uomo che
impedirà l'amore tra Helena e Boris, tra la spia e il principe. Già,
perché lei è una Mata Hari, l'agente segreto di un gruppo di
rivoluzionari, un'infiltrata nel mondo dei nobili con la missione di
uccidere lo zar durante una grandiosa festa a corte.
Il
losco individuo che la seguiva altri non è che il capo della “banda”
(Alexandre Granach, anche lui esule), berretto calato in testa, baffi
e barba da carbonaro, crudele e spietato, capace di “soggiogare”
la volontà di Helena, che si difenderà così quando il marito (lo è
diventato davvero) scoprirà il suo doppio gioco. Ora però si è
innamorata dell'aristocratico. E lui della “bolscevica”. Così
dall'effervescente commedia degli equivoci si passa al melodramma con
un rallentamento ipnotico del tempo, macchina fissa sul volto
dell'attore, e azione sospesa sul suo sguardo allucinato, perso nel
vuoto, mentre la “traditrice” si abbandona sulla spalliera del
letto, disperata. Un “fermo-immagine” lunghissimo e inatteso. La
flagrante immagine della Russia spezzata in due.
Strizhevsky
resta ambiguo sulla natura politica dei rivoluzionari, che nel 1912
potrebbero essere anarchici o nichilisti, anche perché la pratica
dell'attentato e del tirannicidio era del tutto estranea ai
bolscevichi. Mentre nel ruolo dell'aristocratico innamorato di una
rivoluzionaria ci potrebbe essere un'allusione al principe Kropotkin,
cadetto dello zar e poi teorico insigne dell'anarchismo
rivoluzionario e amico di Lenin...
Certo
è che L'aiutante dello zar sotto la patina filo-zarista
distilla dolore, disillusione e indifferenza al fascino dell'impero,
anche quando il principe con uno sguardo glaciale ferma la mano di
Helena affondata nella borsetta, pronta a impugnare la pistola. “La
politica della Russia zarista finisce fatalmente per distruggere il
vero amore” ammette Tybjerg che vede nella “tenace lealtà” del
principe la causa della sua solitudine, quando “si trova infine
solo, su una buia piattaforma ferroviaria, a fissare con gli occhi
pieni di lacrime un treno che scompare tra sbuffi di fumo nero,
portando via nella notte sua moglie”.
Nonostante
l'ammirazione, lo storico danese definisce il film “non un
capolavoro” e inferiore all'opera di Alexandre Volkoff, un altro
esule russo, del quale le Giornate hanno presentato, tra l'altro, il
notevole Kean ou désordre et génie, sempre
con Ivan Mozhukhin (Francia, 1924). Strizhevsky,
invece, ha una forza straordinaria nell'orchestrare le emozioni
cangianti, e salta da un'euforica scena di raptus amoroso con Boris
che fa volteggiare Helena – gli ha appena detto che lo sposerà –
in una danza vorticosa stile Fred Astaire, alla straziante
consapevolezza dell'addio.
Il
regista russo merita attenzione nel suo girovagare di paese in paese,
inseguito da un sé rimasto nella Russia ancora piena di speranza,
prima della repressione stalinista. Infatti, nel 1917, l'anno della
rivoluzione, esordisce nella regia con Chernaya lynbov (Amore
nero), dove recita e condivide la sceneggiatura insieme a Lev
Kuleshov, pioniere della scuola sovietica del montaggio, quello che
affiancando al primo piano di un attore in alternanza una scodella di
zuppa (fame), un cadavere (tristezza) e una bambina giocosa
(felicità), dimostrò il vuoto di un piano isolato.
Strizhevsky
nel '23 si trasferì in Germania dove girò Tarass Boulba
tratto da un racconto di Gogol, e ambientato nell'Ucraina del XV
secolo devastata dai tartari. In Francia, passato al sonoro,
dirigerà, tra l'altro, Delitto e castigo di Dostojevskij, e
avrà grande successo con Les Bataliers de la Volga ('36),
titolo della canzone russa contro lo sfruttamento dei marinai
tiratori di ormeggi nella Russia imperiale. Simbo della lotta per la
liberazione dalla tirannia padronale, è anche un dipinto del russo
Ilia Répine esposto all'Hermitage. Paradossi del “russo bianco”.
Tarass Boulba fu anche diretto da Cecil B. DeMille tre anni
dopo, nel '26 con il titolo The Volga Boatman. Una storia
molto simile a L'aiutante dello zar, con le parti invertire,
lui è un bolscevico, lei una principessa, ed entrambi difenderanno
il loro amore dai fronti contrapposti.
Strizhevsky
gira il suo ultimo film in Italia, La carne e l'anima con Isa
Miranda e Massimo Girotti, e, altro paradosso, il film vien bloccato
nel '43 dai tedeschi e distribuito solo alla fine della guerra, nel
'45. Si è rivisto al festival di Locarno 2014 nella retrospettiva
dedicata alla Titanus.
L'ucraino
Vladimir, che condivideva con Lenin soltanto il nome, se ne va alla
fine a Los Angeles, carico di molti pseudonimi e di un cognome spesso
storpiato, e, si dice, diventò un collezionista di registrazione
sonore di carattere storico. Un'altra magnifica assurdità per un
attore e regista del silent-movie.
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