Roberto Silvestri
Un padre e una figlia. Di Cristian Mungiu (Romania, 2016)
Non c’è sfumatura narrativa
nei drammi di Cristian Mungiu che non abbia una meticolosa spiegazione. Non c’è
comportamento secondario che non abbia una visualizzazione psicologica
appropriata. Non c’è intenzione, anche la più oscura, che non venga illuminata
dall’azione. Il realismo è full frontal,
totale, completo, perfino infinitesimale, quasi in odorama, ancora più
implacabile che in un dramma televisivo nordamericano anni 50 alla Paddy
Chayefsky. Ma dove iper-realismo regna o si aggredisce con il falso organizzato
(Tarantino), politicizzaando l’arte, o si mistifica il vero, articistizzando la
politica, come avviene in Un padre e una
figlia, la nuova impresa di Cristina Mungiu.
Il montaggio di Mircea
Olteanu, poi, si occupa di rendere concreto, quasi brutale, il passaggio tra
quel che si vede e ciò che si rimugina, tra i dialoghi della storia raccontata
e il monologo interiore del protagonista che li interpreta, diversificando le
piste acustiche: quella mentale (attraversata da settecentesche sonate celesti)
e quella “in presa diretta” (rigonfie di cacofonie metropolitane dark). Un
grande lavoro, tanto di cappello. Il cinema rumeno per questo motivo è
originale e in Europa è il più estremo analizzatore delle forze secolari sotterranee
che tengono in pugno un paese, forze religiose,
linguistiche, politiche, morali, generazionali, mitiche, di sangue, e non lo
fanno cambiare mai.
Cristian Mungiu, tra i
novissimi di Bucarest, è con Puiu colui che indica, con più animosità e con il
dito continuamente, dove è il marcio, ciò che è materia di scontro tra bene e
male. Non si sfugge ai suoi elzeviri. E’ un vero Pope, o quasi Pope, o anti-Pope.
A seconda delle ricezioni. Non si sfugge alla giustizia di Mungiu.
E’ ancora nelle sale italiane
(dal 30 agosto scorso) il suo film che ha vinto il premio per la migliore regia
a Cannes 2016 e ha sfiorato quello per il migliore attore protagonista, grazie
alla performance di Adrian Titieni, veterano del palcoscenico e dei set
illustri di Lucian Pintilie e Dan Pita.
È lui il protagonista della
storia, Romeo, cinquantenne, chirurgo modello di una città in Transilvania,
marito in crisi, un’amante segreta e incinta (la donna non si farà troppi problemi
ad abortire, questa volta, a differenza che in 4 mesi 3 settimane e 2 giorni, del 2007) e padre troppo apprensivo,
molto appiccicoso, della diciottenne Eliza (Maria Dragus, già battezzata da
Haneke) in partenza per Londra e
l’Università cool, appena avrà il diploma in mano. Lei preferirebbe restare a Bucarest,
accanto al suo ragazzo, ma il padre sa cosa è giusto fare. E cosa si può
opporre all’Esperienza, alla consapevolezza, così canuta, della vita?
Il paese è marcio. Che i
giovani scappino! Le raccomandazioni per ottenere qualunque cosa, perfino
un’operazione chirurgica senza aspettare tre anni, o per corrompere magistrati,
poliziotti e membri delle giurie d’esame, sono d’obbligo, anche per la
generazione che è passata da Ceausescu a Iliescu (come in Italia dalla prima
alla seconda repubblica). Si va di male in peggio.
E gli adulti adorano togliersi
i giovani dalle scatole. O li mandano in guerra, o li inducono alla ribellione
senza speranza così se ne vanno in prigione o li massacrano psicologicamente
portandoli alla droga pesante e alla morte prematura. Insomma. Gli anziani sono
(in questi ambienti transilvanici, in particolare) dei veri Vampiri che giocano
sporco con la pelle dei loro figli per opportunismo, anche se lo mistificano,
utilizzando tutte le armi del sentimentalismo. E non si fanno scoprire o non se
ne rendono conto.
Romeo, come tutti i padri che
si rispettino, ha infatti l’illusione di allevare la figlia in modo che non
commetta gli stessi errori che ha commesso lui. Così spiega il film Cristian
Mungiu, già autore di Racconti dell’età dell’oro (2009) e Oltre le colline (premio per la migliore
sceneggiatura a Cannes 2012) e aggiunge: “Tutti noi siamo il risultato delle
decisioni che abbiamo preso nella nostra vita”. E chi l’ha detto? Dalla
generazione punk (che forse non ha mai contagiato Bucarest?) in poi sappiamo
che non è così. E anche da prima. Chi ha visto il bel documentario di Ron
Howard sui Beatles e sulla loro parabola dal Cavern di Liverpool 1961 al 10
aprile 1970, sa che i teenager sono il risultato delle decisioni che hanno
preso gli altri sulle loro vite (anche il doc estremo Liberami è su questo orrore).
Si vedano le manifestazioni di giubilo isterico e di pianto convulsivo,
degne delle tarantate, delle teenagers sui palchi del rock mentre rompono in
diretta la corazza, sessualmente repressiva, che le ha imprigionate da piccole
e non per loro decisione. Please please me…. Help me… furono scatole erotico-orgoniche di immensa potenza. Nel
socialismo reale arrivarono di striscio.
Già. Non si cresce, non si
diventa adulti se non si urla da pazzi. Se non si capisce che bisogna prendere
il mano il proprio destino, a costo di essere sfrontati, egemoni e irridenti
come i Beatles, e di far scandalo, di rompere i ponti, di rabbiosamente deviare
dal “giusto cammino”, aggiungendo all’esperienza ereditata di papà, un’esperienza
in più, quella beat della contemporaneità, che gli occhi vecchi non sanno osservare, perché non colgono la modificazione
continua dei dettagli del mondo.
Adrian Titieni (a sinistra) e Maria Dragus |
Ed ecco che parte la banalità
del corrompere tutto e tutti moderno. Lì come qui. E noi che ci identifichiamo
con Romeo finiremo in un incubo di coscienza senza fine.
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