Roberto Silvestri
Festa di Roma, primo
bilancio. Dispiace per il palinsesto, organizzato malissimo, con
sovrimpressioni di film (anche quattro contemporaneamente) alla stessa ora per
gli accreditati e la stampa, messi nella situazione di depennare (a casaccio)
alcune proiezioni, e di non parlare di film forse meritevoli, perché non sempre
recuperabili successivamente, nelle affollate repliche per il pubblico. Oltre
tutto i documentari e i film delle retrospettive non hanno repliche… Certo. Il
taglio di budget spiega, in parte, la cosa. Non c’è più lo spazio autonomo e
separato di Alice in città e molte proiezioni di quella sezione sono perciò ospitate nelle sale
dell’Auditorium Parco della Musica che è dunque intasato e non permette
repliche. Però molte ore sono vuote (le ore 13, le ore 15). Strano. Dispiace
perché la prima parte della festa di Roma è stata abbastanza festosa. Film
interessanti come The Birth of a Nation
di Nate Parker, Snowden di Oliver Stone, Manchester by the
sea di Kenneth Lonergan, Sole cuore amore di Daniele Vicari con una gigantesca
Isabella Ragonese, e anche il documentario su Richard Linklater e quello sui
Rolling Stones in America Latina, hanno costruito una geografia immaginaria
degna di un festival metropolitano dignitoso, accompagnato da un buon movimento di pubblico non
accompagnato però da un dispiegamento di servizi (ristoranti, bar, posti di incontri…)
adeguato. Il ristorante grande, allestito negli anni scorsi, ora è chiuso
rendendo problematico il soggiorno al Villaggio Olimpico. Passiamo ai film.
E iniziamo dalla fine.
Da Werner Herzog, tedesco di
Los Angeles, presumibilmente fresco della rilettura del romanzo Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, che
ci porta in giro per il mondo scalando i più devastanti vulcani attivi, e pericolosissimi,
fin sulla cima degli altissimi coni pronti a esplodere in Into the Inferno. E’ un
film impressionante, e non solo perché ci fa toccare con mano cos’è un flusso
piroclastico, correnti di lava gas e lapilli che possono raggiungere chiunque
gironzoli attorno ai fratelli maggiori dell’Etna, alla velocità di 100 miglia all’ora
e a 800 gradi Farenheit. Molti studiosi e specialisti, nonostante le
attrezzature adeguate, sono morti cercando di effettuare incontri ravvicinati e
riprese mozzafiato di questi flussi, come i due celebri scienziati francesi che
vediamo all’opera e nonostante le loro tute tecnologicamente all’avanguardia.
Impressionante, il film,
anche perché fa capire che sotto di noi, sotto gli oceani e la crosta terrestre,
il fuoco primordiale non smette di muoversi e di provocar terremoti e maremoti,
e minacciare costantemente il pianeta da 100 mila anni, già quasi estinguendoci
75 mila anni fa, nonostante i secolari riti e le sacre offerte dei sacerdoti di
tutte le religioni o la fiducia incondizionata che riponiamo, più recentemente,
nella nostra scienza d’avanguardia.
Quelle bocche di fuoco
magmatiche rosso assoluto eruttanti all’improvviso lava e lapilli, viste così da
vicino sembrano proprio invitanti per una vacanza agli inferi. Naturalmente
Herzog col passare degli anni è diventato meno incosciente e pazzo, non è più
l’alter ego di Kinski, non si butta sui declivi, a portata di lava, aggrappato
a una fune, solo per fare riprese mozza fiato e giocare a Guerre Stellari.
Herzog utilizza molto il
teleobiettivo, l’elicottero e materiali di repertorio drammatici e si occupa
più del rapporto tra le popolazioni locali e le mitologie arcaiche o post
moderne annesse (si veda il brano degno di Bombolo e Cannavale più che di
Jacopetti sulla popolazione selvaggia del Pacifico che ha creato la religione
John Frum, dal nome di un soldato americano che planò in elicottero promettendo
beni di consumo a iosa per tutta l’isola, che sta ancora aspettando) e alla relazione,
sublime, tra natura possente e indifferente e “insulsi esseri umani” che
cercano disperatamente e inutilmente di catturarne i segreti o di dominare con
la magia forze cosmiche devastanti e incommensurabili.
Come si fa, allora, a vivere
sotto un vulcano pronto a seppellirti di cenere in un attimo? C’è chi lo fa
tranquillamente, anche se tutto intorno è stato abbandonato ed evacuato. Herzog
lo trova. Lui dormicchia tranquillamente e davanti all’obiettivo canta. E’ un
contadino, ma sembra un poeta beat o un artista suprematista dell’arcipelago
Vanuatu. Per lui la vita non è collegata alla sua sopravivvenza. Al suo utile.
Non pensa neppure alla vita. E’ già luce cosmica. Il suo rapporto con
l’assoluto è a prova di prete, scienziato e artista. Herzog, umiliato, smette
di riprenderlo. E fugge. Inoltre ha al suo fianco uno scienziato amico,
conosciuto in Antartide, che ci ragguaglia costantemente, sulle tecnologie oggi
usate per il monitoraggio e la prevenzione delle eruzioni. E così si completa
la triangolazione “magica” tra religione (il vulcano è sede di dei e demoni),
scienza e arte. Gli dei con i loro devastanti e misteriosi disegni, la
conoscenza che cerca di decifrarli e l’arte che almeno vuol catturarne la bellezza.
Il vulcanologo britannico si chiama Clive Oppenheimer e inquadra la storia
geologica di ciascun sito, ed è impressionante sapere che il più gigantesco
vulcano spento ha formato in Indonesia un lago enorme dopo aver devastato
l’intero emisfero con eruzioni della potenza di 100 mila bombe atomiche. Il
film è co-prodotto da Austria e Regno Unito e sarà distribuito da Netflix. I
sei luoghi di indagine scelti si trovano in Etiopia, Indonesia, Corea del Nord,
Islanda e Arcipelago Vanuatu (dove sono ben due i vulcani cattivissimi in
azione). Non a caso si dice che Dante Alighieri abbia fatto un viaggio in
Islanda, per prepararsi all’Inferno. La parte in assoluto più sorprendente è
girata in Corea del Nord, al confine con la Cina, dove si trova il Monte Paeku,
un vulcano attivo alto 2744 metri,
responsabile di due tra le più violente eruzioni planetarie degli ultimi 5000
anni, nel 180 a.C. e nel 1815. Ebbene proprio qui, in queste montagne, da
queste eruzioni gigantesche, vicino al lago del Paradiso, narra la leggenda, è
nato il glorioso popolo coreano e il partito comunista coreano ne ha fatto il
centro della propria mitologia propagandistica. Perché proprio su queste
colline c’era il quartier generale della resistenza anti-giapponese guidata dal
futuro presidente e padre (quasi dio) della patria Kim il Sung.
E l’articolo
169 della costituzione coreana – non abrogabile con referendum – definisce il
luogo “la montagna sacra della rivoluzione”. Statue gigantesche di partigiani e
partigiane in lotta, in contemplazione della cima e perfino intenti a suonare
il violino, arricchiscono il sito, meta di turismo obbligato e fonte di
ispirazione per i mega spettacoli da stadio mozzafiato che sono il vanto dell’arte
performativa di massa di Pyongyang.
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