sabato 1 ottobre 2016
Sognando Hollywood sul Tevere. La Festa del Cinema Roma anno XI dal 13 al 23 ottobre
Roberto Silvestri
Poco prima dell'On the Road Film Festival del Detour, sempre a Roma, City of Cinema secondo la designazione (forse perfida) dell'Unesco 2015, arriva la Festa del Cinema. Che promette discontinuità rispetto ai dieci anni passati. Si aprirà per l'occasione addirittura un drive in temporaneo, per 100 automobili, con hamburger e cocacole di fronte al Palazzo dei Congressi all'Eur. E si allestirà la mega arena più glamour del mondo a Trinità dei Monti (sarà per soli Vip?). Parole guida del direttore: "qualità e varietà. Eleganza. Internazionalità".
Speriamo che ci sia anche la quinta parolina, discontinuità, perché bisogna sempre sorprendere, e poi perché ai romani, almeno a metà dei romani, la Festa continua a stare antipatica. Forse perché l'Auditorium è fuori mano ed è stato visto, fin dall'inizio, come un giocattolo privato, dal carattere introverso, per gli amici melomani di Veltroni. Qualche settimana fa, però, un indimenticabile concerto horror e semiclandestino di John Carpenter e della sua band avrebbe restituito gli spazi metafanstascientifici di Renzo Piano alla Roma civile, se Roma, ancora in vacanza, se ne fosse accorta.
Il prezzo dei biglietti di ingresso alla Festa è contenuto, varia dai 6 ai 25 euro (per l'inagurazione). Si promettono decentramento e rapporti fecondi con le scuole, autobus veloci e efficienti che collegano il centro della città al palazzetto dello sport. Si mangia, speriamo bene, a Foodopolis (pugliese) e alla Caffetteria Corsini. Saranno presenti per la prima volta i critici del New York Times e del Los Angeles Times, impegnati perfino in un incontro con Sesti e Crespi sul destino della vecchia critica cartacea dopo la rivoluzione copernicana della critica on line.
E all'evento (13-23 ottobre) si arriverà attraverso ben 5 tappe di avvicinamente. Al cinema Barberini il 3 ottobre American Pastoral, di e con Ewan McGregor. Il 9 ottobre La guerra dei cafoni, commedia salentina di Davide Barletti e Lorenzo Conte, alla Casa del Cinema che ospiterà anche, il 10 ottobre, il musical cult Singin' in the Rain, di Stanley Donen, con Gene Kelly, che è il simbolo danzante di questa edizione. L'11 ottobre al Madza Cinema Hall Inferno di Ron Howard con Tom Hanks (il premio alla carriera di questa edizione) e il 12 all'Auditorium Parco della Musica In guerra per amore di Pif.
Ma. La Festa non sfonda, finora, anche perché Roma è la città del ministero. E il ministero continua a sfornare leggi cinema inadeguate (anche la prossima, by Franceschini, se l'iter è quello annunciato, e nonostante qualche soldo in più, sembra punti a confermare per i cineasti indipendenti lo status di dipendenti famelici). Inoltre. Il cinema è "un'invenzione senza futuro" là dove la serie tv regna. Ma qui è il destino di tutti i festival che potrebbe essere segnato. Se funzionano solo i blockbuster nelle sale che bisogno c'è dei festival? Un festival può trasformare un film d'arte se non in un blockbuster in un oggetto d'affezione popolare? In Francia ci riescono, in Italia per niente.
E poi. Non siamo stati forse diffidenti della Camera di Commercio come producer principale (e privato) di un avvenimento culturale? L'esperimento comunque è fallito, e adesso chi co-finanzia di più è di nuovo il ministero, oltre agli anti locali. Ma i "poteri forti" tipo Rai, Cinecittà e Luce non riescono a lanciare neppure il Mercato, che fiancheggia le proiezioni e serve anche a promuovere anche la film commission locale. L'affare cinema in Italia, trent'anni fa all'avanguardia, è crollato, di pari passo con il decrescere degli investimenti su istruzione e ricerca e con la bassa qualità delle sale, della burocrazia e dei servizi rispetto agli altri paesi europei. E se i fari sono rivolti proprio a Roma lo spettacolo non è proprio edificante. Anche se Franceschini assicura che " l'XI edizione della Festa del Cinema arriva in un momento di forte dinamismo per il panorama cinematografico nazionale" e promette risorse per 400 milioni l'anno, forti incentivi per giovani autori e un aumento dei finanziamenti del 60% per sostenere il cinema (e la televisione, e il web). ma io vedo ancora i talenti scappare dal nostro paese, Minervini e non solo lo dimostrano. La loro energia sprecata o umiliata.
E poi. L'Estate romana nicoliniana era davvero un grande Party popolare e sexy, mentre la Festa non seduce, non è virale, forse perché non sa ottimizzare le risorse creative di chi il cinema inebriante (vecchio e nuovo) lo sa scoprire, dal basso e per tutto l'anno - certi magazine on line radicali o il cineclub Detour oggi, come l'Occhio l'Orecchi e la bocca allora - rischiando di persona (*).
Il mix annunciato da Detasise/Monda tra red carpet e documentari impegnati, tra sperimentalismo e film di ogni genere (attenzione all'horror-zombies ecologico Busanhaeng, di Yeon Sang-ho, Corea del sud, 453 km in treno per scappare, da Seul a Pusan, inseguiti dai morti viventi), tra master class e divismo, tipico ormai di quasi tutti i festival (comprese le 24 opere sbandierate "in prima mondiale assoluta) non garantiscono la riuscita di una Festa.
Nella conferenza stampa di ieri, venerdì 30 settembre, il presidente Piera Detassis ha voluto definire l'evento una "Festa Mobile", operativa 365 giorni all'anno. Questo anche grazie al collegamento con centri permanenti culturali come il Maxxi e la Casa del Cinema e ad una programmazione annuale di proiezioni, incontri ed eventi che dovrebbero interessare l'intera regione Lazio. Bene, ma le star le grandi manifestazioni mondiali le costruiscono, non solo le ereditano. Ed ecco riaffiorare costantemente la soddisfazione di aver lanciato ne 2015 Lo chiamavano Jeeg Robot. Gabriele Mainetti. E la promessa: "ci saranno futuri premi Oscar in cartellone, quest'anno".
Bene. Chi vede dietro le star delle macchine attoriali o pensanti di devastante potere destabilizzante, ha sempre apprezzato lo sforzo della Festa romana, dall'epoca Di Caprio/Kidman in poi, passando per Hunger Games, Spike Jonze, i Coen... E osservare frotte di ragazzini delle scuole gioronzolare incantati tra la sala Petrassi e la Santa Cecilia a caccia di autografi è stato sempre gratificante. Qualcosa si muoveva. L'energia fa un festival. Marco Muller, poi, ha cercato di innalzare la Cosa e ha portato un po' di cinema vivo e indigesto, non solo carino e spettacolare, dalle parti del villaggio olimpico (muovendosi però, politicamente, come un elefante tra i cristalli. Chi frequenta il diavolo si guasta, è un problema di neuroni specchio). Però le cifre sbandierate allora parlarono chiaro (ammesso fossero vere): da 600 mila si passò a 80 mila spettatori. Antonio Monda, al secondo dei tre anni di mandato, ora che è "nel mezzo del cammino" cerca di posizionarsi a metà tra il solo glamour e grazie ai magnifici sette selezionatori (tra i quali anche Alberto Crespi, Mario Sesti, Giovanna Fulvi) traghettare da Manhattan, il che è educativo, un po' del coraggioso mondo intellettuale new yorker (ci si deve fidare del braccio destro Richard Pena, ex festival di Chicago, ex festival di New York, ex responsabile del Lincol Center, un curriculum da far girare la testa ai 5 Stelle), capace di tenere testa ai continui attacchi dinamitardi, tipici delle presidenze democratiche fastidiose. Secondo anno su tre. Monda ci promette una edizione politicamente impegnata (non solo a sinistra, come insegnano Renzi e Raggi), aperta alle differenze, simboleggiata dalle retrospettive dedicata a Valerio Zurlini e a Tom Hanks ospite d'onore (vedremo 16 dei 20 film che lo stesso attore-regista ha scelto) e dai tanti omaggi: al rinascimento western e relativi punti di riferimento; a Michael Cimino, all'Armata Brancaleone, a Sordi, a Fritz Lang, a Dino Risi e a Citto Maselli (non perdete il suo mediometraggio L'avventura di un fotografo, 1983, uno dei rari brani di cinematografia ispirato a Italo Calvino), a Luigi Comencini fotografo, a Pontecorvo terzomondista, a Gian Luigi Rondi, ovviamente. E dal focus sui film nordamericani che trattano direttamente di politica, di elezioni presidenziali, di scontro tra repubblicani e democratici che non è tra destra e sinistra, come banalizziamo in Europa. Anche se lo è nel caso Hillay-Trump. 16 film e tra questi, oltre ai classici amati di Capra, Spielberg, Ford, Griffith (eh sì, la sua Nascita di una Nazione sarà razzista, ma ha avuto il merito di trattare senza scrupoli l'argomento tabù della "reconstruction era", il terrore che ha spinto i bianchi verso il KKK e verso l'invenzione del montaggio parallelo...), Rossen, Preminger, Stone, Altman, Preston Sturges (The Great McGinty, 1940), consiglio soprattutto i documentari The War room di D.A. Pennebaker e Chris Hagedus (1993) e Primary di Robert Drew (1960), oltre al manifesto grondante ideologia anti-F. D. Roosevelt Young Mr. Lincoln (1940) di John Ford, repubblicano sfegatato come Clint. Prenotarsi, da subito, dunque, anche per gli incontri con le super star, oltre Tom Hanks: Meryl Streep, Dom De Lillo lo scrittore innamorato di Antonioni; Oliver Stone, Daniel Libeskind, l'architetto che ci ha restituito "le torri", David Mamet, Viggo Mortensen (ma il suo film revisionista, e involontariamente comico, sulla cultura hippies Captain Fantastic, in programma, è piuttosto irritante), Ralph Fiennes, Bernardo Bertolucci, Gilbert & George, a cui è dedicata la giornata più interessante, da punto di vista filosofico-concettuale, e radicale, dal punto di vista cinematografico (assieme a Seven men from now di Budd Boetticher e Kubo) sia per la proiezione del magnifico documentario che si sono dedicati The World of Gilbert& George, a 35 anni dalla prima romana del Capranichetta) sia del loro film preferito, Shaolin Martian Arts di Chen Chang; e ancora Renzo Arbore, Andrzej Wajda, Jovanotti, Paolo Conte e Roberto Benigni....
Siamo così all'undecesima edizione della Festa. Ci vuole pazienza e tempo. Cannes ha impiegato 20 anni per il decollo. Ma adesso in Francia guida le classifiche di incasso non un blockbuster Usa ma il nuovo Xavier Dolan, enfant prodige canadese francofono (Proprio la fine del mondo) e sarebbe ridicola una polemica parigina sul Leone d'oro a Lav Diaz, o sulla candidatura agli Oscar di Fuocammare, visto che Lino Brocka, e Gianfranco Rosi e perfino Michelangelo Frammartino e Ciprì&Maresco, e l'intera onda rumena passa in prima serata tv da anni e si mastica tanto cinema quanto calcio. Tokyo, che tra i festival metropolitani, tipo New York o Londra, è la più ambiziosa, ancora non c'è riuscita a compiere il grande balzo in avanti e sfiora le trenta edizioni... Quando a Roma si discuterà nei bar di Toni Endmann almeno quanto di Totti, se ne riparla. Se pensiamo che in tutto il cartellone romano 2016, alla faccia della tanto sbandierata "differenza" e della tensione e pulsione "internazionalista", però non c'è quest'anno un solo film africano e medio-orientale (a parte un palestinese) ed è modesta la presenza asiatica, e perfino di rumeni, citati assieme ai messicani come i più interessanti cineasti del momento, non c'è traccia nel programma, qualche diffidenza resta. Il desiderio malcelato sembra riaprire la stagione di Hollywood sul Tevere. I set di 007 e di Ben Hur (purtroppo è andato male al botteghino) sono stati così salutarmente shockanti che questa sembra la strada imprenditoriale da percorrere. Così metà programma è romano (antico: Sordi, Maselli, Zurlini, Comencini.....), perfino qualche affondo storico indigesto (come il doc su Freddi). Metà nordamericano o comunque di lingua Brexit.
Però ci saranno, e sono imperdibili, The Birth of a Nation, dalla autobiografia di Nat Turner, leader di una ribellione degli schiavi d'America domata a fatica negli anni trenta del XIX secolo, la risposta african-american e "pugno nello stomaco" a Griffith e alla sua versione Kkk della reconstruction era. Immancabile, soprattutto pensando alla campagna stampa reazionaria e suprematista contro il regista, Nate Parker, che si potrebbe paragonare a quella contro Hillary, "corrotta" e moglie di uno stupratore". Se si ha il potere nei media ogni bugia e calunnia oggi diventa verità. Un Fritz Lang di Gordian Maugg (Germania) dove si vuole far passare il grande regista espressionista per un egocentrico maniaco sadico e uxoricida, insomma Goebbels non era che un dilettante. Into the Inferno di Werner Herzog, viaggio tra i vulcani più arrabbiati del mondo, che sarà adorato da chi ogni tanto tifa per l'Etna in azione. Qualche film addirittura negazionista sullo sterminio degli ebrei, degli zingari e dei comunisti (ma non erano proibiti per legge film simili?). Il documentario di Vanni Gandolfo L'arma più forte, l'uomo che inventò Cinecittà, nella sezione Riflessi, sull'ex gerarca nazi-fascista Luigi Freddi, imprigionato dopo la liberazione e poi graziato, e tornato a far cinema, è interessante perché bisogna fare i conti con un teorico del cinema che non solo fu l'inventore di Cinecittà, ma lo stratega, sconfitto, di un cinema completamente statalizzato, sul modello di Goebbels. E per colpa sua Elsa Morante fu costretta a dimettersi da critica della Radio Rai perché nei primi anni 50 si rifiutò di recensire un documentario da lui prodotto.
Rules don't Apply, il film di Warren Beatty su Howard Hughes, invece, non ci sarà. E' il grande cruccio di Antonio Monda e dei suoi partner. Sarà infatti proiettato in anteprima mondiale e sarà la vedette del festival organizzato nel prossimo novembre dall'American Film Institute di Los Angeles. Roma non ne è ancora una valida alternativa. E patische anche handicap tecnologici. L'atteso film di Jonathan Demme su Justin Timberlake infatti non si potrebbe nemmeno proiettare a Roma. Per carenze tecnologiche sul versante digitale. ?!!?
Però le novità, a parte l'apertura di un Drive in e la serata magica per festeggiare i 100 anni di Gregory Pek con la proiezione di Vacanze Romane in piazza di Spagna, nell'arena più bella del mondo e alla presenza dei due figli del grande attore, l'annuncia Raggi, con toni paternalistico-pariolini: "dobbiamo riportare la cultura nelle perfierie" (chi l'ha mai portata via?), farla scorrere nelle vene della città come capillari che irrorino tutto il territorio". E speriamo non sia una irrorazione tossica.
Insomma non solo l'Auditorium Parco della Musica, ma anche The Space di piazza Esedra e il Farnese, Rebibbia inteso come carcere (e questa è una grande iniziativa, speriamo che facciano vedere i film giusti) e la scuola Di Donato, il Broadway e Cineland. Un giorno in più rispetto al 2015, ma identitco il budget dichiarato: 3,4 milioni di euro (10 milioni di euro se si considerano tutte le manifestazioni cinematografiche dell'anno a cura dell'Auditorium Parco della Musica), sponsor compresi.
Il tappeto rosso ci sarà, e sarà grandissimo, solcato da "almeno 32 celebrità di primo livello (forse 33). Avrà perfino una appendice in via Condotti. La madrina no, non c'è, e non ci sarà neanche la cerimonia di inaugurazione e finale. Stoccata a Barbera.
In conferenza stampa Piera Detassis che adesso è presidente della Festa (o Festival, ancora ci si confonde), ci tiene a dirlo. Nessun orpello. La politica della Festa è "nicoliniana", ma declinata alla Rondi: "tutti i (tipi di) cinema per tutti i pubblici", insomma nicoliniana, ma alla rovescia. Invece di portare le periferie al centro, creando uno scandaloso movimento imprevisto e antagonista, interferenze promiscue, succhiando vampirescamente la ricchezza della strada, la "cultura invisibile delle masse" si sarebbe detto in quegli anni, la Festa vuole espandersi nelle periferie, e in tutta la regione, irradiando cultura e insegnando cos'è il cinema e quali sono i suoi capolavori nelle scuole. Però la diretta televisiva di un grande avvenimento cinematografico (Golden Globes, Oscar, Cannes, Donatello, Nastri d'argento....), appetibile ormai quasi quanto una diretta sportiva, i Giochi Olimpici o un duello presidenziale, è insomma una macchina per fare cassa molto prelibata. Bisognerà pensarci. Rondi l'avrebbe fatto. Magari facendo coincidere Festa e galà del Donatello.... Solo la sezione autonoma ma fiancheggiatrice Alice nella città, equivalente di Generation 14 a Berlino, ha la sua giuria, con Matt Dillon presidente illustre (e ormai romano, visto il suo fidanzamento con Roberta Mastromichele) e si godrà in prima mondiale l'atteso cartoon del rampollo di Mister Nike, Kubo.
Il bel poster con Gene Kelly e Cyd Charisse in una foto di scena in bianco e nero sul set del sogno di Un Americano a Parigi riassume bene la strategia nostalgico-imprenditoriale di Monda. Mettere insieme quel che Cannes, concorso e Certain Regard, e a Venezia, concorso e Orizzonti, separano. Sperare di azzeccare, più di Toronto, Telluraide e Venezia il futuro film Oscar. Tra i 45 film della selezione ufficiale solo 4 sono italian: Maria per Roma di Karen Di Porto, una piccola grande commedia ci dicono alla Nanni Moretti primo periodo, prodotta da Galliano Iuso. Il documentario di Francesco Patierno Naples '44 tratto dall'autobiografia di un ex ufficilae inglese (John Huston, testimone anche lui dell'orrore insostenibile di Napoli 1944, come Curzio Malaparte, ci metteva però in guardia dai ricordi degli ufficiali inglesi, usi a mentire soprattutto quando si dovevano coprire gli stupri dei loro soldati e incolpare i marocchini). Sole cuore amore di Daniele Vicari con Isabella Ragonese, sull'amicizia tra una coreografa-danzatrice e una mamma casalinga. E il ritrono di Michele Palcido al cinema di combattimento con 7 minuti, che non è il tempo impiegato statisticamente per arrivare all'orgasmo (Russ Meyer docet). Ma quello impiegato da una multinazionale per licenziare tutti gli operai di una fabbrica tessile considerata obsoleta senza che, costituzione italiana alla mano (quella protetta dal No), lo stato fermi il crimine. Il pubblico darà l'unico premio, e si risparmia sugli invitati. O meglio li si usa davvero: Meryl Streep, interrompendo la campagna elettorale al fianco della cara amica Hillary, ha accettato di venire anche per ricordare il caro amico e complice Donad Renvaud.
In studio, a via Asiago, Roma, prima dell'inizio di Hollywood Party, arriva un sms di congratulazioni. Alberto Barbera si complimenta con il direttore artistico Antonio Monda per il programma. E' la fine della guerra tra la Mostra e la Festa. Meno male. Ma di "Festival del cinema" in Italia, dopo la cacciata di Turigliatto/D'Agnolo Vallan da Torino, ne è rimasto almeno uno?
Tra le cose sparse da consigliare: Snowden di Oliver Stone che Venezia non è riuscita a ottenere; Afterimage di Wajda, perché si risarcisce il lavoro di un importante pittore dell'avanguardia pittorica polacca, Wladislaw Strzeminski, fondatore della corrente dell'unionismo, molto combattuta dalla corrente body art del partito operaio unificato polacco durante l'epoca stalinista di Bierut (sarcastico); La mujer de l'animal del colombiano Victor Gaviria; The Roling Stones olè olè olè sul tour in America Latina e a Cuba della band di Paul Dugdale; il ritratto del regista di Drugstore Cowboy, Cowgirls e Boyhood, Richard Linklater Dream is Destiny di Louis Blake. Utile infine al ministro Franceschini per rifinire la sua nuova legge introducendo articoli da "adfermative action" a favore degli italiani di orgine extracomunitaria Blaxploitalian 100 anni di afrostorie nel cinema italiano di Fred Kuwornu. E, se non è un errore del catalogo della Festa, la produzione, emblematicamente, non è italiana. Ma è Usa. Extra sezione ufficile anche il montaggio di Cimino delle sequezne di ballo più belle della storia (ma dove l'ho già vista...a Cannes?), Lascia stare i santi di Gianfranco Pannone, sulla devozione religiosa popolare; Le scandalose di Gianfranco Giagni, un documentario sulle donne che uccidono i mariti o i loro uomini, le vendicatrici; il doc di Giovanni Trillo su William Kentridge, l'artista sudafricano che ha cercato inutilmente di rendere preziose le sponde del Tevere; Cinque mondi di Giancarlo Soldi sui nostri premi Oscar recenti. C'è anche Roberto Benigni che ha accettato di tenere una attesissima lezione di cinema.
(*)
Una indifferenza che l'ecumenico Bettini prima di essere emarginato affermava di voler ridurre, ma che adesso in epoca di populismi (quando si enfatizzano le virtù sacre e salvifiche del popolo affinché lo si manovri meglio, e dall'alto) torna sovrana, anche perché la politica da ultrà del pop di Veltroni (ancora operativa in epoca Renzi/Raggi) rischia di enfatizzare e congelare solo l'esistente consacrato dal reference system che si scambia per meritocrazia (è molto divertente, in questo senso, assistere allo scodellamento da ragioniere delle percentuali di biglietti venduti in tutti i festival italiani di cinema, che sono sempre, da Rito, il 7-8% in più dell'edizione precedente, fidarsi sula parola).
Il crollario è sterminare i piccoli festival creativi e fecondi, perennemente in rosso, fare come se I mille cchi di Trieste non esistesse, e strangolare i piccoli, lenggendari cineclub (il Filmstudio è stato di nuovo assassinato, come Marino), pericolosi perché rappresentare l'aborrita Antitesi d'immaginario, e imporre il gusto unico della manifestazione celebrativa a budget degno delle celebrieties da pagare profumatamente (proprio come nelle feste paesane o al Giffoni). "Ma chi so sti Maori?" disse un adepto del veltronismo anni fa alla Mostra di Venezia, visto che per la Rai doveva intervistare un regista neozelandese... e da allora "boiate pazzesche" sono diventate tutte le esperienze schermiche più lisergiche e aliene, da de Oliveira a Weerasetakul, da Hou Hsiao Hsien e Lav Diaz, da Chahine a Gitai, se le gestisca Ghezzi, mai approdino a Sky Cult. E' questo il politicamente scorretto, la dittatura delle minorante, che inebria chiunque ha un briciolo di potere, perfino Pagina99 (con quel titolo!). Tradotto in italiano vuol dire inebriarsi di ignoranza, maleducazione e volgarità. L'1% che si compiace della proprio degradazione e diventa il modello per il 99% restante.
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