sabato 22 ottobre 2016

Festa di Roma. I film delle star 2. Il capolavoro di Tsui Hark e Tung Shin Yee, The Sword Master. L'importante è perdere

Il poster di The Sword Master


Roberto Silvestri

Un dato davvero negativo e grave per le giornate all'Auditorium Parco della Musica e per il suo pubblico è il successo di pubblico di un modesto filmetto che prende in giro la controcultura, Mister Fantasy e l'insuccesso, i pochissimi biglietti venduti dalla Festa di Roma per due degli appuntamenti più interessanti in cartellone. Segno che il pubblico romano, e quella parte di pubblico romano che è asiatica, non certo meno incompetente di quello di Rotterdam o di Londra, di Tokyo e New York, volta pregiudizialmente le spalle alla manifestazione (che oltretutto ha attuato una politica dei prezzi non disastrosa, il biglietto costava 6 euro). Va ricucito il rapporto con il pubblico più competente, con le strutture vivaci del territorio, con il Detour e con il clan ghezziano, per esempio, e va riaperto (e ben sostenuto finanziariamente) il gioiello perduto del Filmstudio (che almeno l'Oriente è rosso lo programmava, e anche La linea generale, i pilastri dello scarno cinema cinese maoista durante la grande rivoluzione culturale proletaria) e il Nuovo Cinema l'Aquila e ridato a chi lo ha reso importante: è un po' merito loro se Gianfranco Rosi sta seguendo le orme, anche Oscar, di Oppenheimer. Se no invece di dieci anni ce ne vorranno 20 per far decollare la Festa. I due fiaschi (solo al botteghino, perché sono capolavori assoluti) di cui parliamo sono stati 1. il magico japan-cartoon Kubo di Travis Knight, genio del passo uno e rampollo della famiglia Nike, quello delle scarpe sportive (sezione autonoma Alice in città), in uscita italiana tra qualche settimana e 2. Sword Master3D, l'ultimo sorprendente parto della Tsui Hark Factory che invece dubitiamo uscirà mai doppiato.

The Sword master, la regina cattiva
Eppure il primo era oltretutto impreziosito dalle voci magnetiche di star come Charlize Theron e Matthew McConaughey. E il secondo, in prima mondiale assoluta, è diretto da Tung Shing Yee (americazzato in Derek Yee), attore e divo del genere honkonghese del "wuxia", il filone prestigioso della "cappa e spada" cinese, che a 59 anni ha trasferito in un 3D più che sensato, romantico e sensuale, dopo una quarantina di regie, la classica produzione Show Brothers di Chor Yuen Death Duel (1977), tratto dal romanzo di Lung Ku, dal titolo originale San shao je de jian. Naturalmente ben riorchestrata per adeguarla alla sensibilità sovversiva e divertente di una ricezione occupy wall street, rap e street art (e non per mettere in formine di fatua bellezza la nostalgia, come ha fatto il calligrafo Ang Lee, disastrosamente, anni fa). Insomma prodotti da superstar, blockbusters, non noiosi film d'autore veleno al botteghino (Kubo ha raggiunto i 50 milioni di dollari di incassi, finora solo in Usa). Quel che inebria il direttore artistico della manifestazione, discepolo poco zen di Veltroni-Franceschini, non è proprio confermare (più che creare) lo star system, avere live o non live più Benigni, Streep, Bertolucci, Stone, Kidman e Affleck possibili? Una idea forza comprensibile, visto il taglio, che si vuole popolare, dell'evento (anche se non tutti sono Nicolini). Dunque la debacle è stata autarchica. Soprattutto se si va a leggere su Imdb l'unica recensione negativissima del film (by Quinlan).

The Sword Master, la prostituta buona
Di Kubo scriverà Mariuccia Ciotta, mentre non si può non ammirare nel remake dei buddy buddy Derek Yee e Tsui Hark, cosceneggiatore e produttore (che si è dedicato soprattutto al lato tecnologico-sperimentale dell'impresa), al solito, la stupefacente ritmica della narrazione visuale, cioé quello che Eisenstein chiamava il "montaggio verticale", un dominio psicotecnico a zig zag, sempre imprevedibile, del materiale sonoro, musicale, acustico, performativo, conscio, bisexual, inconscio, politico e preconscio, che rende sorprendentemente "ricca" la superficie spazio-temporane della singola inquadrata e del suo montaggio interno e in sequenza; veloce e dinamico il piacere cromatico e coreografico dell'immagine e quasi tossico ciò che rende spasmodico - per esempio il gioco di spade, ora prospettico, ora cubista, ora surrealista ora di umorismo Dalì o il duello dei colori bianchi dei cattivi contro i neri e i nerissimi, anche maleodoranti, dei buoni - il desiderio dell'inquadratura successiva e di come si sviluppa la storia dentro quel piccolo rettangolo bidimensionale che, per magia, è trasformato in mito e realtà 3D nello stesso tempo.
The Sword Master in persona
Buchi, deviazioni e strappi di sberleffo punk inclusi. Improvvisi voltafaccia umoristici che rilanciano le avventure di questi due nostri cavalieri solitari e visionari, il Terzo Maestro, diventato un pacifista pulisci cessi e lo Sword Master, frustrato nel suo desiderio di diventare il number 1 del duello di spade, e del "combattimento assoluto", che si rinchiude, con gesto autonecrofilo degno di Christopher Lee, nella propria tomba, anche perché è stato male informato sul suo stato di salute dal solito medico obiettore di coscienza dell'epoca. Due Don Chisciotte e Sancio Panza rovesciati, troppo valorosi, troppo saggi, troppo vincenti per vincere. Una cosa che scandalizza i giovani cinici rottamatori diventati manieristi adoratori del politicamente scorretto. Due Gilbert & George, invece, capaci di cogliere nel brillare del gesto, della luce, delle materie formali, delle invenzioni stilistiche la miseria del potere e di un dominio che si affida per combattere l'1% di strapotenti dominanti non sui leader, ma sulla sgageeza e l'organizzazione popolare. In questo caso l'orrore del bordello e chi lo usa. Metafora del capitalsimo, che schiavizza il mondo.

Gli innamorati
Già. Sapete, per esempio, da dove vengono i soldi di Mister Trump? Chi glieli ha lasciati in eredità? Ce lo ha raccontato alla Mostra di Venenzia un atteso film di Bill Morrison, Dawson City Frozen Time. Il nonnetto, sfruttatore della prostituzione nel Klonkide, all'epoca del Gold Rush. Questo per far capire meglio la politicità dell'operazione che è sicuramente ignorata da chi si occupa solo di green screen ed è cieco rispetto agli omaggi subliminali a Brandon Lee, come la maschera "che terrorizza tutto l'occidente" e Wall Street, ma non i bimbi cinesi. Frammenti di saggezza zen, poi, sparsi ovunque. Ma mai come forzature di dialogo letterarie.  Un cinema che si fa a stretto contatto con gli esiti più sconvolgenti dell'arte visiva vivente. Così come Corman maneggiava l'action painting, Carmeron la "macchina celibe" di Duchamp, antidoto al dominio delle macchine sull'uomo, perché l'occhio fiammeggiante rosso rubino di Terminator, quasi schiacciato, insegue atti d'amore, come Rothko,  fino alla fine e ama la ragazza che deve uccidere. Sono questi i segreti di Tsui Hark, ben più profondi dell'aderire o meno agli sterotipi del genere Wuxia e al Wire Work, di cui non esiste al mondo esporto maggiore di questo erede diretto e degno allievo di King Hu. Più di John Woo. Altro che Ang Lee e (il pur grandissimo) Zhang Yimou. 

Nessun commento:

Posta un commento