sabato 10 giugno 2017

The Beguiled, la vendetta delle vergini suicide e di Sofia Coppola



Premiato a Cannes 70 (migliore regista Sofia Coppola) il film uscirà in Italia il 14 settembre

Mariuccia Ciotta

Cannes
Le querce della Virginia aprono varchi nebbiosi mentre l'inquadratura scivola in basso sul sentiero dove una bambina con le treccine e un cesto in mano cammina lentamente nel bosco. Cappuccetto rosso incontrerà il lupo nelle vesti del caporale nordista John McBurney che nell'immaginario ha il volto di Clint Eastwood, il Jonathan della notte brava di Don Siegel, anno 1971, accolto ferito nel collegio femminile durante la guerra di secessione, 1863.
Sofia Coppola firma sceneggiatura e regia del remake The Beguiled (concorso) e sceglie Colin Farrell, oggetto erotico meno potente di Eastwood, nelle vesti blu dell'uomo ferito alla gamba e trovato tra l'erba dalla dodicenne Amy (Oona Laurence), per spostare l'attenzione sulla algida e spettrale Nicole Kidman, nel ruolo perverso che fu di Geraldine Page. Sguardo affilato anche su Elle Fanning, Carol, la Lolita, e su Kristen Dunst, Edwina, la romantica sessualmente repressa. Donne-stereotipo che Coppola esplicita nel suo southern gothic, statuine in abito bianco che esploderanno in una vulcanica rappresaglia contro il maschio creatore di gender. Eredi di The Virgin Suicides.
Allevate al ricamo dai punti perfetti, alla cucina impeccabili e alle buone maniere, le signore del collegio in stile neo-classico riproducono, potenziate, Le piccole donne di Louise May Alcott, ragazze del New England, nordiste, anche loro in piena guerra civile e alla ricerca di uno spiraglio contro il destino di femmine docili e vittoriane. Joe ci riuscirà con i suoi romanzi e Beth con l'esodo più radicale, la morte.
Ognuna di queste “vergini” isolate nel tempio immerso tra gli alberi ha un conto aperto con il soldato bugiardo e mercenario, che le blandisce a seconda del loro “tipo”. Ad Edwina, insegnante di francese, dirà che la ama, ad Amy, fotocopia della piccola, sensibile Beth, che si prenderà cura della sua tartaruga, prima di scagliarla per terra in uno scoppio d'ira. A Martha, la Madame, farà intendere quel che sognava la Geraldine Page di Siegel, una visita nella sua camera da letto. Ma sarà Carol a perderlo. Il caporale precipita dalle scale, spinto da mani deluse, perché sorpreso tra le gambe della ninfetta. Il gioco è smascherato. I candidi angeli ricoperti di trine e merletti si mutano in Erinni. Il corpo desiderato del caporale sarà spartito in brandelli metaforici.
Sofia Coppola costruisce un film rarefatto, elimina quasi tutto il contesto storico - Eastwood compariva in flash-back feroci sul campo di battaglia, e le fotografie dal fronte del pioniere Mathew Brody dominavano i titoli di testa - e i retroscena narrativi - il passato incestuoso di Martha con il fratello - e si immerge nella nebulosa gotica, candele e pianoforte, fruscio di abiti, sensualità vellutata e scale a chiocciola.
Un'opera horror e non più il western anomalo di Don Siegel, consacrato all'epoca autore per un film considerato “europeo”, flop al botteghino. Qui le manine delicate cuciono squarci sanguinolenti, tagliano gambe in un rituale sacro, e rispondono alle accuse di misoginia rivolte negli anni Settanta al regista di Dirty Harry ('71, stesso anno). Alle critiche di The Velvet Light Trap risponderà, solo nel 1998, G. Herring in The Film Quarterly consacrando il film “favola femminista”.
Non sono “cattive” le ragazze del collegio, solo che le dipingono così. E Sofia Coppola ne disintegra il guscio, ne cambia la forma. La metamorfosi è compiuta con la mela di Biancaneve, sostituita dai funghi avvelenati del romanzo di Thomas Cullinan, A Painted Devil ('66) dal quale è tratto The Beguiled (L'inganno, titolo italiano, uscirà il 14 settembre).
Il cerchio si chiude con Amy dal cestino ricolmo di mistero, ombra fatata nel bosco. 




Periferie al cinema, L'intrusa e Cuori puri

Mariuccia Ciotta

Cannes

Tripletta italiana alla Quinzaine, produzione Rai Cinema, tre sfumature di un cinema energetico e scintillante. Dopo A Ciambra di Jonas Carpignano e le sue 'ndrine calabresi e zingare, arriva la camorra di Leonardo Di Costanzo, L'intrusa, e la piccola criminalità della periferia romana di Roberto De Paolis, Cuori puri.
Vincitore del David di Donatello e del Gran premio della giura del Golden Globe, Di Costanzo ha incantato Venezia con L'intervallo (Orizzonti, 2012) primo lungometraggio del regista nato a Ischia nel '58 e allevato al documentario. Ancora la Napoli con addosso l'odore camorrista, ma al centro l'esile Raffaella Giordano, danzatrice e coreografa di Pippo Del Bono, Pina Bausch, Carolyn Carlson, nei panni di una educatrice volontaria alla guida di un centro per bambini disagiati, marmocchi scatenati che dipingono scenografie, costruiscono lucertoloni giganti di cartone e macchine celibi fatte con ruote di biciclette.
Di Costanzo è attratto dalla realtà dell'esperienza e vira verso il materiale no-fiction con lunghe digressioni su giochi e feste in giardino. Più lontano, nel prato interno della comunità c'è una casetta, set del cinema febbrile del regista che sa creare thriller fiabeschi, ombre, presenze e agguati onirici.
Sarà la moglie di un camorrista arrestato per l'omicidio di un passante, Maria (Valentina Vannino) con la sua faccia di pietra e gli occhi fissi, a rievocare quel cinema dove lo spazio disegnava traiettorie misteriose, la grande casa vuota, il giardino selvaggio, l'attesa, l'intervallo... Dalle fessure della baracca, Maria spia il mondo altro, il fuori senza camorra, insieme a una bimbetta imbronciata che come in un Twin Peaks di casa (e cosa) nostra osserva tra i cespugli la mano ingrigita di un uomo, scarto umano, segnaletica e presagio.


Cuori puri di Roberto De Paolis (figlio di Valerio, produttore) è l'adrenalinico psicodramma d'amore di Agnese (Selene Caramazza) e Stefano (Simone Liberati), sequestrati da opposte “sette” integraliste, ognuno proteso verso l'altro, corpi desideranti e in fuga. La pulsione a divincolarsi dall'abbraccio mortifero di enclave intolleranti attraversa, oltre a L'intrusa, anche A Ciambra, e qui si presenta nelle vesti di una madre ultrareligiosa (Barbara Bobulova) che prega e dorme insieme alla figlia diciottenne e, complice un simpatico pretone, le fa promettere di arrivare vergine al matrimonio.
Il film ricorda La ragazza del mondo di Marco Danieli, lì i testimoni di Geova, qui un Gesù che chiede di “onorare il sacro”, cioé di fare sacrifici in cambio della salvezza. Ma Agnese è già stata salvata da Stefano, che non la denuncia per furto di un cellulare (la tremenda madre ha requisito il suo) nel supermercato dove lavora alla sicurezza. Licenziato. Guardiano in un parcheggio che confina con un campo rom, Stefano sarà combattuto tra le malefatte della sua gang di quartiere - spaccio e rapine ai danni di immigrati - e la parte di sé che non venderebbe mai droga a un dodicenne, e mai accuserebbe ingiustamente uno zingaro di stupro, nonostante la scuola del disprezzo anti-rom. Agnese dovrà liberarsi dall'intrusione mentale di una madre ossessiva. Cuori puri nel suo sbandamento drammaturgico - incerto su dove andare, tra i nomadi o da Romeo e Giulietta - è un esordio carico di sensualità, tensione e suspense, un cinema di cui si attende il seguito.


Okja, il superpig di Cannes 70

Mariuccia Ciotta

Cannes
Il festival cambia “format” e genere, Okja (concorso) del coreano Bong Joon Ho, prodotto da Netflix, è una commedia per bambini. Cose insolite per Cannes. Ma c'è qualche problema. La proiezione del film alle 8,30 del mattino è andata avanti per 8' con il mascherino sbagliato taglia-teste tra urla e battimani di protesta e altri 10' ci sono voluti per studiare il caso e riprendere il film dall'inizio. La colpa sarà probabilmente attribuita all'operatore internet che non sa cos'è il cinema, e che comunque ha deciso, dopo l'accesa querelle dei giorni scorsi, di distribuire Okja in Corea, Stati Uniti e Gran Bretagna. Che la Francia aspetti, vista la guerra aperta a colpi di “eccezione culturale”.
Dopo Wonderstruck, questa fiaba viene dalle lussuose foreste sudcoreane dove vive una ragazzina, Mija, e la sua creatura, Okja, un animale geneticamente modificato, un superpig destinato, secondo la Mirando Corporation, a “sfamare il mondo”.
Okja - orecchie da maiale, corpo grigio da ippopotamo e muso da cane - ha negli occhi, però, il luccichio dell'intelligenza. Mija si arrampica sul corpaccione della sua compagna di giochi, che ricambia gli abbracci e la stringe a sé. Potrebbe essere la sorella coreana del giapponese Totoro, marchio Miyazaki. E al contrario del mostruoso anfibio mangia-uomini di The Host, record di incassi di Bong Joon Ho, Okja è un “animale da compagnia”, solo un po' ingombrante.
I due esseri, risultato della creatività digitale, non esistono, ma entrambi sono metafore della cupidigia del mercato, che qui si materializza in una fenomenale Tilda Swinton, look da Barbie, volto della corporation ereditata da un padre orrendo, inventore del napalm. Le fa da spalla un altrettanto strepitoso Jake Gyllenhaal, vanesio e queer conduttore tv.
Sul tono di una slapstick comedy con il bestione che travolge gli stand dell'aeroporto in una corsa fracassona e invade le strade di Seoul, il film sul “rapporto tra l'uomo e l'animale”, come dice il regista, vira verso un cupissimo epilogo, dentro un vero mattatoio-lager dove i superpigs vanno al macello consapevoli. Qualcosa tra John Berger e Alberto Grifi.

In scena, anche un gruppo di animalisti svitati che sostengono Mija nel recupero dell'animalone. L'ombra di King Kong si profila insieme allo skyline di New York dove Okja viene trascinata in catene per un finto concorso di bellezza. Netflix scommette sul gran successo di pubblico nelle sale e in rete, mentre Cannes non può che accogliere il simbolo della metamorfosi del cinema, sempre che azzecchi il mascherino. 

Il film del momento. Sieranevada di Cristi Puiu




Sieranevada, di Cristi Puiu

Roberto Silvestri

Sieranevada di Cristi Puiu (Romania)

Pithecanthropus erectus è il titolo di un famoso album anni cinquanta di Charlie Mingus che rendeva omaggio al nostro antenato di Giava, non proprio wasp, capace però di camminare già su due piedi. Avesse avuto anche una cinepresa in mano l’avrebbe probabilmente utilizzata “ad altezza d’uomo”, tanto per marcare qualche differenza di sguardo con gli altri primati, non umani.


Ma il numero dei neuroni interconnessi del suo cervello non era ancora, come adesso dieci alla decima, dieci miliardi circa. Ma solo dieci alla nona……Si viveva nella natura e non secondo se stessi e il proprio estro. E all’inizio lo smarrimento doveva essere stato immenso. Paura da intelligenza eccessiva. Non ci sarà per caso in giro, in questi tempi, un desiderio di regressione che ci porta tra le braccia di Orban o di Trump, della May o di Erdogan, vista la difficoltà di comprensione del mondo, complicatissimo, di oggi?
Esce in Italia un anno dopo aver aperto la competizione di Cannes 69, un film rumeno caratterizzato proprio dalla collocazione “umanista”, in senso fisico, della cinepresa (o della telecamera), fissata come è al soffitto di un appartamento nel centro storico di Bucarest come se fosse il periscopio di un sommergibile, che da lì controlla tutte le stanze dell’appartamento e assiste senza nevrosi alla chiusura e apertura delle porte, facendo non poca ironia sulla sophisticated comedy hollywoodiana.


La macchina da presa del regista dalla grinta rinascimentale è usata come arma deterrente di difesa per tenere a distanza i comportamenti semi-umani, meno umani, preumani e postumani, o le manifestazioni ferine che si moltiplicano attorno a noi. Perfino durante le feste di Natale. E la cinepresa registra anche le risposte alla domanda: “come fa l’uomo, oggi, ad adattarsi ai cambiamenti vorticosi del mondo circostante?”
Ci vuole creatività, rispondono. Creatività non è roba metafisica, slancio extravitale. Ma. Dominio delle regole. Per saperle scavalcare, superare. Essere capaci di eseguire mosse sorprendenti, se il gioco è già noto, oppure saper ideare giochi del tutto nuovi. E poi. Rifiutare la “professionalità” perché la competenza professionale che si richiede è per viaggi in territori sconosciuti, che portano ai confini dei propri set mentali. Dunque l’avventura estetica è assicurata. Se siamo ancora curiosi abbastanza.


Però, basta prendere le cose un po’ alla larga e si può perfino parlare della rappresaglia nazi-islamista contro Charlie Hebdo. Lo fa il film rumeno Sieranevada, scritto proprio così con una erre di meno, per evitare che nel mondo si cambi il titolo, già storpiato a bella posta, del film, ispirato alla neve e alle catene montuose iberiche, ma anche alle orribili e gelide case grigio cemento che edificò Ceausescu negli anni 60-70.

Un ex medico di 40 anni, che preferisce vendere farmaci perché oggi è più redditizio, passa un sabato sera in famiglia, coi fratelli, i nipoti, la mamma, i vicini di casa, per commemorare il papà, defunto quaranta giorni prima. La tradizione rumena vuole che al termine del rito l’anima del defunto che gironzola ancora nella casa finalmente lasci questo mondo, e il suo vestito migliore venga indossato da un erede (con le necessarie modifiche, in questo caso). La scena si svolge attorno e davanti a una tavola che verrà presto imbandita, ma solo dopo che il Pope, che si fa troppo attendere accentuando un nervosismo già esplosivo, avrà compiuto i riti e i canti greco-ortodossi prescritti, e davanti alla tv, poche ore dopo l’aggressione squadrista al giornale satirico parigino. Di cui si discute, mescolando questioni rimosse e persino drammi di famiglia con la guerra nell’ex Jugoslavia; la recita in costume della figlia con il ruolo equivoco di Iliescu, comunista, nella caduta di Ceausescu, comunista; l’intrusione improvvisa di una ragazza estranea, drogata, croata con il ruolo benefico che può esercitare, per la Romania, Obama rispetto al pericoloso Putin. 


Ma soprattutto con quella libagione rituale sempre rimandata (eppure cosa c’è di più caratteristico nel cinema balcanico e dell’est della tavola imbandita a cementare antiche comunità patriarcali? Kusturica non ne è lo specialista?). E ci si concentra su un doppio accapigliarsi acceso sia sulla storia del comunismo reale (i suoi alti meriti, le sue basse miserie) sia sull’11 settembre (è stato o no un complotto di Bush per alterare l’ordine mondiale?) che degenera presto in violento litigio, un tutti contro tutti che finalmente può essere il preludio alla nascita di un individualismo non celibe ma democratico. Mentre una colonna sonora superba riassume il meglio della civiltà musicale occidentale dal settecento a De André, da Blondie a “Il capitalismo dà di matto” di The Mighty Sparrow, star del calypso trinidadiano…


Una baruffa autobiografica analoga è proprio all’origine del film che l’esponente più laico della nuova onda di Bucarest, sulla soglia dei 50 anni, porta a Cannes, dove è stato scoperto dalla sezione Un Certain Regard nel 2005, ed è tra i migliori discepoli del capofila della nouvelle vague anni 70 di Bucarest, Lucien Pintilie (qui produttore, e da cui Puiu eredita una sapiente direzione degli attori, già impeccabili per conto proprio). E’ la quarta sceneggiatura e regia di Cristi Puiu. L’opera è una coproduzione a 5, Romania, Francia, Croazia, Bosnia e Macedonia.




venerdì 9 giugno 2017

Nessuno ci può giudicare, il musicarello rock. Silvia Toso, Alberto Crespi e Stefano Della Casa. Hollywood Party passa alla Storia



Roberto Silvestri



"A ben riflettere, mi sembra che uno storico debba anche necessariamenteessere poeta, giacché solo i poeti possono intendersi di quell'arte che consiste nel raccordare abilmente i fatti" (Novalis) 





Dalle parti di Hollywood Party, programma di Radiotre Rai ideato da Silvia Toso nel secolo scorso, c’è tanta voglia di raccontare non solo quotidianamente e in diretta aneddoti e storie, ma anche la Storia. Certo. In maniera diversa, senza freddezza accademica o paternalismo didattico. Efisio Mulas, proprio come Melies o i Lumiere, infatti, non gradirebbe.
Raccontare la Storia del cinema, ovviamente e prima di tutto. Vedi il libro collettivo, truffauttiano e interattivo I 100 colpi di Hollywood Party, ovvero, a 100 anni dal primo lungometraggio, quali sono stati, fino al 2015, i migliori cento film italiani, e qualcuno di più (Eri editore). E ha vinto, grazie ai voti degli ascoltatori del programma in onda ogni giorno dalle 19 alle 19.45, tranne sabato e domenica, C’era una volta in America, di Sergio Leone, che è il meno italiano, e il più cosmopolita, di tutti….

E proprio Silvia Toso, poi, con Evelina Nazzari, in Fratelli d’arte (edizioni Sabine 18 euro), prefazione di Goffredo Fofi (che delle storie oblique è il decano e il teorico), ha voluto cucire e imbastire una multistratificata storia familiare del cinema italiano, dal muto ad oggi, raccogliendo le testimonianze segrete, comiche, commuoventi, o diversamente professionali dei figli e delle figlie di star e registi del nostro cinema le cui carriere si sono incrociate con quelle degli amici, e nemici sullo schermo, Amedeo Nazzari e di Otello Toso. I loro papà, divi adorati del cinema popolare tra fascismo e postfascismo che hanno lavorato sia con i pionieri dell’epoca muta (Blasetti, Camerini), sia con i giovanissimi cineasti che avrebbero “inventato” un altro cinema (Rossellini, Lattuada, D’Amico, Zampa), un altro teatro (De Filippo, Dapporto, Foà, Ninchi, Gassman) e la televisione “leggera” (Panelli, Pisu, Togliani) e sia con registi e attori e attrici che avrebbero conquistato di nuovo, come all’epoca di Cabiria, una supremazia mondiale (De Sica, Mastroianni, Loren). 

Evelina Nazzari e Silvia Toso a Hollywood Party 
Ne esce una densa e profonda incursione negli interni domestici, psicoanaliticamente scorretti e serenamente giocosi, di artisti fuori dalla scena; e una lettura spregiudicata e disincantata, di tipo decostruttivo, di circa trenta genitori “pesanti” visti all’opera dai propri cuccioli, spesso colpevolmente trascurati da un lavoro assai poco casalingo.  Interviste che ci invitano a entrare nel mondo mitico e inaccessibile del cinema di una volta, quello classico e con l’aura dei nostri nonni e genitori, soddisfacendo la curiosità fertile dello studioso e quella futile del fan. Dove futile non è da intendersi se non, filologicamente, come l’acqua che fuoriesce dal vaso crepato, come fuga ribelle dal luogo comune (il volume può essere ordinato inviando una mail con i dati personali a ordini@edizionisabin)


 Ma non solo. Si vuole raccontare anche la storia-storia, visto che da oltre un secolo il cinema, questa “finestra sul mondo” di tecnologica complessità, magica duttilità e aptica qualità ha cambiato la visione e il senso delle cose e l’incidenza degli artisti non solo sull’industria specifica degli audiovisivi ma sulla vita, sui comportamenti di tutti i giorni e sulla politica (per esempio Nanni Moretti e Grillo hanno inciso profondamente sul sistema dei poteri nazionale e Bernardo Bertolucci, e più ancora Pier Paolo Pasolini ne sono stati vittima).


Ha iniziato questo rosselliniano lavoro di chiarificazione, informazione e comunicazione Alberto Crespi con Storia d’Italia in 15 film (Laterza editore), un libro appassionante e di straordinaria scioltezza affabulatoria sull’Italia, da Cavour a Renzi, passando per capitoli raggruppati attorno a 1860; Cabiria e Amarcord (il ventennio), Tutti a casa, Se sei vivo spara (guerra partigiana), C’eravamo tanto amati, Don Camillo, Il sorpasso, Sandokan  (ovvero il 68),  Indagine su un cittadino, Salò, Caimano, Diaz e Carlo Giuliani ragazzo, Gomorra. Film bipolari e in costume che raccontano sia avvenimenti storicizzati, anche se trascorsi da poco, che storia, stile e cultura dell’epoca in cui sono girati.
Il cinema, di genere storico o celato dalla commedia o dal western o dal genere avventuroso, filologicamente corretto o fantasy, di propaganda diretta o indiretta, non ha il compito servile di illustrare e sintetizzare a scopi didattici i fatti che cambiarono il mondo, focalizzandosi sui grandi uomini e sulle potenti donne che hanno il copyright morale o immorale degli avvenimenti clou. Guerre mondiali. Crisi economiche. Passato glorioso imperiale o buio “medievale”. Rinascimento. Risorgimento. Colonialismo. Resistenza, Sessantotto e così via.
usare il western, come fa Giulio Questi, per raccontare la guerra antifascista dei partigiani 
Perché i film stessi sono “mondi” complessi, “corpi” che scendono in campo e contribuiscono a modificare la storia, regalando altre “parole” e luci alla memoria, illuminando cose profonde e dimenticate, resuscitando spettri inquietanti, non rimuovendo traumi opachi e non reprimendo desideri dell’inconscio collettivo. Fanno gigantografie dei dettagli collaterali e utilizzano campi/controcampi di imparziale oggettività che confondono gli storici più profondi e avveduti. Ricordate la polemica di Beniamino Placido con Arthur M. Schlesinger, lo storico accademico e liberal per antonomasia, che in un volumone grande e grosso su F.D. Roosevelt (The coming of the New Deal) si era dimenticato totalmente del cinema, di Forty Second Street, per esempio (anche se i disoccupati non per mangiare ma per andare al cinema spendevano i loro sussidi di disoccupazione), e perfino di film di straordinaria potenza riconciliativa come Via col vento, senza il cui potenziale suggestivo la tenuta del “grande patto” non avrebbe portato l’intera nazione allo sforzo anti-nazista?  I film lottano per modificare la nostra percezione della realtà e inventare un’altra lingua comune, altri simboli, altri linguaggi non verbali.  E non riflettono, in schermi deformanti o agiografici, le cose in sé. Ma ciò che è visto dai mille occhi. Anche da quelli spenti per sempre. E che il cinema resuscita.  

Stefano Della Casa 
E poi c’è Stefano Della Casa. Che usa il cinema per fare Storia e critica della storia e del cinema. Insomma ha realizzato (con la documentarista, antropologa e regista Chiara Ronchini) quel che si chiama un crito-film. Si usano le immagini per fare critica. Adriano Aprà, alla Mostra di Pesaro, dedica per il secondo anno consecutivo, una sezione del festival proprio a questa tendenza che è diventata di punta nella ricerca autoriale (riuscita, come Gus Van Sant che rifà Psycho, Guadagnino che ritorna a Suspiria, o Sofia Coppola che ristudia una pietra miliare della new Hollywood e della guerra di secessione, La notte brava del soldato Jonathan; o non riuscita, come il lavoro grossolano di Hazanavicius su Godard). 


Della Casa e Ronchini (che ha recentemente montato il Pugile del Duce ed è abituata a maneggiare materiale di repertorio) si concentrano su Lucio Fulci e Piero Vivarelli (a lungo intervistato e sempre provocatorio e sorprendente) e si sono dedicati all’Italia degli anni 50-60, alla gioventù ribelle del beat, al musicarello rock (anche Fizzarotti e Westrmuller), intervistando gli idoli della gioventù ribelle: Shel Shapiro dei Rokes, sempre molto lucido e radicale; Rita Pavone, che diventa it girl dopo aver visto Audrey Hepburn, dispiaciuta di non aver potuto esprimere al cinema tutte le sue doti recitative drammatiche e di non aver potuto partecipare al Movimento, miliardaria com’era; Caterina Caselli, ribelle istintiva e naturale, ma già pronta a capitalizzarsi, più dei suoi manager “arcaici”; Gianni Pettenati, Ricky Gianco. E i cineasti che furono al loro fianco, fiancheggiandoli nella loro ricerca controculturale musicale e cinematografica: come rifare, qui, Elvis Presley e i Beatles, i musicisti che hanno cambiato tutto. Il mondo. La Storia. Stile, vita, abbigliamento, taglio di capelli, ritmo, modo di parlare, di urlare, di amare, di uscire di testa, di recitare. Un’esplosione. Una bomba atomica spirituale di immane potenza. 
 

La tv a colori in Italia arriverà, non senza bocche storte, nell’anno del signore (metropolitano) 1977, ovviamente.
Ma l’intero paese, congelato dalla guerra fredda dopo i beati anni dell’anarchia delicata e ricostituente (1945-1947), era giù passato dal bianco, nero e soprattutto grigio al colore, in un crescendo di cromatismo iridato sempre più gioioso tra i primi anni sessanta del boom e dei socialisti al governo (sgonfiati da figuri inquietanti e ingombranti della politica, come Rumor, Fanfani, Andreotti e Restivo), colonna sonora rock’n’roll (Ghigo, Brunetta, Mina, Celentano, Dallara e Little Tony), fino al decennio rosso fuoco (purtroppo magentato nelle ricostruzioni che se ne fanno oggi, e non solo Mieli… colonna sonora Stratos-Skiantos) vanamente contrastato dalle bombe sui treni e nelle banche che tanto hanno inebriato e ispirato poi Isis e Daesh.


Da Claudio Villa e Luciano Tajoli a Maurizio Vandelli e 24 mila baci il passaggio non fu traumatico solo grazie a una collezione di maschere dell’eterna commedia dell’arte nazionale, da Totò a Fred Buscaglione, da Franca Valeri a Franco e Ciccio, da Sordi a Sergio Leone e i western spaghetti che hanno accompagnato e anticipato, come faranno i comici demenziali inglesi nell’epoca punk, quella ironica voglia matta di Hollywood e di America, di fine della fame atavica e di “consumo zero”, di scatenamento dei sensi della gioventù scatechismizzata e di libertà, che finalmente non si dava limiti che non fossero nei paraggi dell’arbitrio, dello stravizio. E oltre.      


L’Italia andrà insomma su di giri, diciamo almeno a 68 giri (e durerà un decennio), a mano a mano che i ritmi di fabbrica sostituivano quelli della vendemmia, e il paese diventava industriale-agricolo, ma il documentario sul musicarello urlato e rock, le sue origini e consequenze,  Nessuno ci può giudicare (da non perdere prima che lo smontano, a Roma è al Farnese), sottotitolo “un film a 45 giri”, ci racconta il prequel e il senso di quella attesa rivolta ribelle (che la fabbrica e le sue atrocità distrusse, e che contribuì a porre fine all’eccidio nel sud est asiatico, grazie anche a Morandi), per chi c’era, e si illuminerà di nostalgia. E per chi non c’era, e gli sembrerà di esserci stato.
Plumbeo era il mondo prima del beat. Una parola deviata dalla serietà culturale di Ginsberg & co. verso l’effimero musicale più piacevole da Gianni Boncompagni, il nostro compianto Moondog di Bandiera Gialla (il dj dello scatenato programma radiofonico tutto copiato da quelli di Alan Freed) che replicava così quel saccheggio di cover angloamericane che divennero nel nostro immaginario collettivo gli hit originali di Caselli e Pavone, Nomadi e Camaleonti.

Chet Baker in un musicarello rock di Fulci e Vivarelli

Stefano Della Casa (che c’era) e Chiara Ronchini (che non c’era) dopo una nuotata rigeneratrice nell’archivio storico del Luce, tra i film di famiglia Superottimisti del Piemonte e in vari fondi privati zeppi di tesori, inanellano alcune interviste e sequenze celebri o rarissime (c’è anche un Giuliano Ferrara scatenatissimo danzerino al Piper, sotto la regia di Tito Schipa jr. o un Renato Zero juniores incredibile) riuscendo a cogliere  le scaturigini, il motorino di avviamento segreto che cambiò, per effetto contagioso e virale, il mondo. Quel passaggio epocale tra disco grande a 33 giri e disco piccolo a 45 giri, che forse non svuotò improvvisamente e immediatamente le chiese e le sue tecniche di imbalsamazione dei desideri, ma certo, parola di Caterina Caselli, accolse finalmente in chiesa donne coi pantaloni aderenti di pelle e uomini coi capelli lunghi sulle spalle, anoressici, vistosamente gay come quel Renato Zero che nel film si vede danzare come un elfo a 17 anni e già idolo lgbtq. Vivarelli ricorda che di musicarelli la storia del cinema italiano è piena. Il primo film sonoro, La canzone dell'amore, lo dimostra. Ma il musicarello rock è stato una svolta rivoluzionaria. Perché, nome a parte, che molto deve a Carosello e alla promozione discografica, il debito va a William Asher e ai suoi rock movies con Funicello e Avalon che incrociavano band e surf band sulla battigia della California e lottavano contro i boss locali oscurantisti e nemici dei nuovi ritmi esattamente come in Ragazzi del juke box, Urlatori alla sbarra e Sanremo la grande sfida, pieni di cantanti e gruppi, erano i notabili dc a censurare e contenere una vitalità e una anarchia gioiosa che si considerava pericolosissima (e si vede in Parlamento un intervento di un democristiano di fede Greggi gettare un anatema come fosse su un pulpito contro la licenziosità e la pornografia che doveva essere cancellata nei cinema. E la coralità che conta nel musicarello rock, l'energia incontenibile che spaventa, non la singola canzone romantica e il cantante melodico di successo da promuovere. Già negli anni 80 i ragazzini cominciarono a ricollezionare i dischi dell’Equipe 84, Ribelli, Clan, De Gregori (“non lo vollero alla Rca perché aveva l’erre moscia, confessa Caselli), a respirare l’aria di “prima della rivoluzione”. La rivoluzione era andata male e bisognava ripercorrerne le tappe, meticolosamente. Le generazioni successive continueranno a ispirarsi a Doors, Hendrix, Pink Floyd come quella. Il motivo è spiegato da una giovanissima operaia bionda e sorridente, intervistata in quell’epoca. “Che ci fai coi soldi che guadagni?” Il 30% va in vestiti. Il 50% in divertimenti e il resto, pochissimo, lo do in casa. Se no perché starei qui a lavorare?



venerdì 2 giugno 2017

Twin Peaks e "l'aura" Palmer


Mariuccia Ciotta

Cannes
L'artista che rende materico il subconscio è tornato con la terza serie di Twin Peaks, già in onda sulle tv via cavo, e non ha perso “l'aura” Palmer, la bella Sheryl Lee, 26 anni dopo le due serie andate in onda sulla rete Abc dal '90 al '91.
Si possono lasciare impronte sulla scena di un delitto soltanto sognato? Anche peggio. Si può parlare all'incontrario con una voce a scatti metallici, seduti sul divano nella sala d'aspetto dell'inferno, con un albero scheletrico che monta una testa-cervello parlante. Sembrano i quadri misteriosi che il cineasta compone nel documentario (nelle sale italiane) David Lynch – The Art of Life, tele appiccicose di plastilina, filamenti e mostri informi.

Le due prime puntate viste al festival, musica di Angelo Badalamenti, create da Lynch e Mark Frost, non rilanciano solo la serie e i protagonisti cult, Kyle MacLachlan, Piper Laurie, Ray Wise, o il pavimento tromp l'oeil e le tende di velluto rosso. I due film di 56' turbano ancora più di allora, e sembrano interrogarsi sugli esperimenti indicibili di laboratori alla Frankenstein, macchine aperte all'aldilà, ectoplasmi elettronici, innesti di materiale organico e artificiale. Tutto nella Loggia nera, in presenza di una testa mozzata di donna che non appartiene al corpo fuori formato di un uomo. Metamorfosi in transito.