a proosito di quello che succede in Birmania ......
Mariuccia Ciotta
Cannes
La trilogia
del male di Barbet Schroeder, francese,
origine svizzera, si conclude con un inaspettato “cattivo”, Il
venerabile W. Che segue Imir
Adi Dada ('74), sul dittatore
dell'Uganda e L'avvocato del terrore
(2007) sull'avvocato Jacques Vergès, il legale di Klaus Barbie, e
difensore storico di terroristi.
Proiezione speciale per il
grande regista apolide (è nato a Teheran nel '41) simpatizzante
buddista ma qui all'attacco del bonzo Ashin Wirathu, responsabile di
massacri e distruzioni di interi villaggi a danno della minoranza
musulmana in Birmania (Myanmar), i rohingya, profughi del
Bangladesh.
Il “leader spirituale”
che ha la faccia di un bravo bambino (Mandalay, classe '68)
materializza nell'obiettivo di Schroeder la genesi dell'odio etnico
per mezzo della religione. Non diverso dall'Isis, dagli odiati
musulmani che con aria serafica “il venerabile W.” indica come
violentatori di donne birmane, minaccia per l'integrità della razza
(sono solo il 4%), invasori e nemici da eliminare.
Il monaco dispensa i suoi
sermoni ai fedeli e ne accende l'odio verso gli islamici anche
attraverso una cospicua produzione di video dove vengono
drammatizzati crimini in genere inventati. Wirathu è presente
massicciamente sui social media, libero dopo i 7 anni passati in
carcere sui 25 della condanna ricevuta nel 2003 per aver provocato
la morte violenta di 200 mila “kalar” (termine dispregiativo,
equivalente a nigger) e l'incendio di abitazioni e insediamenti
rohingya. Un'amnistia del 2010 gli ha aperto le porte del carcere e
Wirathu ha ripreso l'attività del “Bin Laden birmano”,
immortalato nel 2013 dalla copertina del Time con il titolo
“Il volto del terrore buddista”.
I pacifici monaci, il
popolo devoto al non-dio Buddha, ripresi nel film di Schroeder come
un'orda pronta al linciaggio, avvolti nel mantello rosso bastonano,
sventrano e bruciano corpi vivi spinti dalle parole del soave
venerabile. Nell'inquadratura-santino, però, sul volto dell'uomo
passa, come su quello di Adolf Eichmann, la smorfia psicopatica.
L'immagine contraddice le
dichiarazioni a sua difesa riportate sui giornali in risposta
all'attacco del Time, dove nega ogni responsabilità delle
violenze. Wirathu, sostenuto dall'allora presidente-dittatore Thein
Sein (“è una persona nobile”), a capo della giunta militare,
sbandiera i principi del suo movimento 969 in difesa della razza
contro i matrimoni misti e per il boicottaggio delle merci musulmane,
il divieto di vendere e acquistare case, la limitazione delle nascite
(un figlio ogni 3 anni). Il gruppo oggi si chiama Ma Ba Tha,
associazione per la protezione della nazionalità e della religione.
Ma lo shock del Venerabile
W. deriva dalla folla dei seguaci, dalle donne adoranti, dal
seguito di massa, dai singoli che inseguono una ragazzo e lo
abbattono a bastonate, e accatastano i cadaveri in un rogo
apocalittico.
Sono buddisti. Non da meno
altri integralismi poco spirituali.
Schroeder chiama a
raccolta le voci dissonanti di anziani monaci che “scomunicano”
il predicatore sanguinario. Parla anche l'inviata delle Nazioni unite
Yanghee Lee, definita da Wirathu, con la sua aria diligente, una
“puttana” invitata a “dare via il culo ai kalar”. Fuori
campo, il Dalai Lama consola e dice “uccidere in nome della
religione è impensabile”. Nel 2015 la Lega Nazionale per la
Democrazia di Aung San Suu Kyi vince le elezioni, Wirathu si
attribuisce il merito della “rivoluzione”. Smentito, accuserà la
leader, segregata per anni, di simpatie per i rohingya.
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