giovedì 1 giugno 2017

Cannes 70. Il sistema Lynch: paura, morte e il vento tra i rami. Depardon e Pedro Pinho


Roberto Silvestri
Cannes. 

David Lynch
 “Amo fare film di guerra perché trattano della morte e la morte mi interessa molto. È il solo soggetto che intriga tutti, anche se qualcuno scappa dalla sala. Vanno via, ma gli interessa. Tutti al cinema hanno paura di morire, non vogliono morire e non vogliono sentire parlare di morte. Io credo invece che sia un grande soggetto. Neanche io voglio morire, ma lo amo”.
È l'indimenticabile cineasta americano Samuel Fuller che parla, indicandoci nei film di guerra, pieni di action and motion, di azioni ed emozioni forti, il cinema per eccellenza, l'anello di congiunzione tra qualità artistica e commerciale. L'estasi, il cambiar stato, non è stato, da Eisenstein a Mickey Mouse in poi, l'obiettivo del cinema, morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo?


Che sia un soggetto molto triste (anche per la scomparsa, proprio in questi giorni di festa del grande attore inglese degli Ivanhoe tv e di Jams Bond, Roger Moore e di un profugo africano trovato cadavere proprio nella stazione di Cannes) ma anche nobilmente legato al cinema, lo confermano alcuni film del concorso di Cannes che hanno più turbato il pubblico e i critici.


Guerra esplicita (civile, privata, di classe, tra sud e nord, tra omofobici e tutti gli altri) e cadaveri spettrali sul grande schermo nei film di Robin Campillo, Sofia Coppola, Michael Haneke e Kornel Mundruczo e Yorgos Lanthimos. Naturalmente ci sono altre battaglie campali di grande potere suggestivo che non provocano necessariamente morti. Ma possono ribaltare radicalmente il rapporto con il mondo e con noi stessi, fino alla follia, al salto in un'altra dimensione, surreale, post-reale, o all'ingresso in mondi nuovi, reali o virtuali.


Ormai pittore fecondo di materica spiritualità, l'americano vero David Lynch torna a Cannes, 11 anni dopo il suo ultimo film (Inland Empire, 2006) e 26 dopo il suo esordio tv, e i suoi 30 episodi griffati ABC, solo 5 diretti da lui, e presenta la serie tre di Twin Peaks (qui solo le prime due puntate, oltretutto già uscite in Francia il 22 maggio scorso), creata con Mark Frost, per ricordarcelo. E questa volta tutti gli episodi saranno suoi. 


“Quando voi mi rivedrete, non sarò più io”, è quel che ascolta l'agente Fbi Dale Cooper (Kyle Maclachlan) dal nano che lo accoglie nella Loggia Nera, al termine della seconda serie. Lynch è in perenne metamorfosi, come le sue creature... Avevamo così attraversato gli incubi mostruosi di Dale/David, approdando in quello spazio/luogo di morte anche del cinema d'arte, su cui Lynch poneva la definitiva parola fine accentuando nel rituale macabro alcune segnaletiche che ci sono care, dal cromatismo scarlatto delle tende cormaniane, alle spaventose e improvvise metamorfosi sbilenche, alle carrellate schizofreniche e a zig zag sul pavimento in bianco e nero. 


L'intrigo nuovo si situa nella continuità della stagione precedente e soprattutto di Twin Peaks: Fire Walk with Me (1992), film estremo e brutale, che era il prequel, i sette giorni prima, ma successivo di due anni alla prima serie e al ritrovamento del cadavere di Laura Palmer. Un film fischiuatissimo a Cannes. Un vero trauma per chi, come Lynch, credeva particolarmente nella versione su grande schermo del suo lavoro più intenso e profondo. 


E dunque la vita bizzarra della piccola comunità dello stato boscoso e montagnoso del Washington, dalle pulsioni anche troppo vivaci e dalle dinamiche estremamente perverse, continua, con qualche deviazione di viaggio nel resto degli States (Manhattan, Las Vegas...). Già. “Ci si ritroverà tra 25 anni”, diceva l'adolescente Laura Palmer, assassinata dal padre incestuoso, parlando al contrario in quel montaggio di suoni conturbanti specialità della casa. E la ritroviamo spettrale in questo alto gioco di nostalgia e trasformazione con tanti altri personaggi della serie amata (oltre a novità lynchiane come Laura Dern, Naomi Watts, Balthazar Getty o non lynchiane come Monica Bellucci e la grande Jennifer Jason Leigh, sono ben 207 i ruoli...).


I 17 episodi di questa terza serie, dicevamo, sono tutti firmati Lynch e il mix selvaggio tra soap opera e horror, parodia e dramma familiare, umorismo e storia a chiave, grottesco e stregoneria perfeziona il motore, i cambi e la frizione. 
 Insomma ormai la rivoluzione tematica e formale di Lynch è diventata la struttura portante di tutte le serie tv d'autore uscite dopo (capostipite Hill Street Blues, sempre di Frost). Esplosione tematica di libertà creativa che restituiva al piccolo (ormai grande) schermo domestico una sensazione di vita vera scomparsa nei blockbuster degli effetti speciali. Les Inrockuptibles intervista David Chase, creatore di Soprano, che ricorda il suo debito di riconoscenza per una serie che “per quanto surrealista fosse, finalmente dava grandissima importanza alla geografia di un luogo. I piani sugli alberi piegati dal vento mi avvicinavano a un sentimento spirituale: credo che nessuno aveva mai visto questo in televisione: il vento che soffia tra i rami”. 


Per non parlare dei diversi livelli di racconto, del passaggio inaspettato dal poliziesco all'onirico fantastico, del passaggio tra il mondo reale e quello “che non c'è”, del sogno, dell'inconscio o del preconscio. Da X-File a Lost è storia conosciuta. Così come i famosi flash-sideways, che non sono solo i flash back classici con i quali si torna indietro nel tempo o i flash forward con i quali si anticipano gli avvenimenti, ma i flash “accanto”, provenienti da una realtà parallela e misteriosa. Verso Leftovers e l'esplorazione della vita mentale di personaggi dalle schizofrenie fluttuanti che sono diventati gli oggetti d'affezione di uno stuolo di sceneggiatori folli e creativi a cui è concessa qualunque libertà. Il sistema Lynch. La paura e la morte che aprono tutte le porte, meglio se dark, e creano un mondo altro da quello reale, da quello cinematografico, da quello televisivo e perfino da quello web. L'avventura del XXI secolo. Dopo Antonioni la decostruzione continua, ripetuta e continuata della lingua, della grammatica e della sintassi del racconto audiovisivo.





Raymond Depardon

“Morte” è anche l'ingresso nell'ospedale psichiatrico criminale, passeggiare negli “shock corridor” dove proprio Samuel Fuller costruì una delle sue metafore più feroci del sogno americano trasformato in incubo. Una legge francese recente, del 2013, obbliga il magistrato a confermare, entro 12 giorni dall'ospedalizzazione non volontaria, la detenzione di chiunque possa costituire pericolo per sé o per gli altri. 
Raymond Depardon 
Raymond Depardon, decano del documentarismo “istituzionale”, e geograficamente corretto, una sorta di Fredrick Wiseman più cartesiano, con al suo fianco un musicista come Alexandre Deplat che depura l'emozione Satie da ogni piacevolezza, isolando solo melodie e armonie conturbanti e horror, va in manicomio (e non è prima volta perché ha attentamente studiato la strategia Basaglia e i suoi esiti). A Lione. E in 12 giorni (selezione ufficiale fuori concorso) registra le udienze di conferma o meno delle detenzioni “senza consenso” di una dozzina di ricoverati attraverso i loro duetti coi giudici (che sono attenti solo alla correttezza procedurale: “noi non siamo psichiatri” ma non chiedono mai controperizie da psichiatri esterni all'istituzione). Al fianco giovani e sprovveduti avvocati (evidentemente d'ufficio), mai agguerriti. Primi piani, campo/controcampo. Tutti i ricoverati coatti sembrano poveri e abbandonati, tutti chiedono di tornare a casa. 


Alcuni sono evidentemente “fuori” di testa, come il patricida che vuole fondare un nuovo partito (“chiedete a Barnie Sanders il programma!”) e supplica che si avverta proprio il padre accoppato delle sue richieste di libertà. Altri (un emigrante angolano, una ragazza madre maghrebina, una ventenne che si taglia le braccia continuamente e - dicono ma lei nega – ha tentato ripetutamente il suicidio dopo essere stata violentata 8 volte) sembrano più intossicati dagli psicofarmaci che sragionevoli, e si lamentano del trattamento ricevuto senza che il magistrato decida mai una ispezione o un controllo. Una frase di Foucault, “a piè pagina” ricorda dopo i titoli di testo, che “la strada che porta un uomo verso un uomo vero passa attraverso il folle”. Ma né gli avvocati, né i giudici né i pazienti a forza, sia uomini che donne, riescono a creare mai un terreno comune di comunicazione. Trasformando in liberticida una legge libertaria. A nessuno verrà concessa la libertà.



Pedro Pinho e i giovani portoghesi

Pedro Pinho ci racconta il nuovo Portogallo - l'unico stato europeo governato dalla sinistra unita, e con indici di crescita economica che sarebbe utile per Gentiloni ricopiare, primo ministro il socialista Paulo Costa, indo-lusitano di Goa - in A Fabrica de nada (La fabbrica del nulla), selezionato dalla Quinzaine dopo la prima al festival indipendente di Lisbona. 

Sulla sinistra il "grillo parlante" italiano che incita alla lotta 
E attraverso il film stilisticamente ricco di detour e variazioni - si va dal doc militante al musical trotzkysta, dalla nostalgia per la lotta comunista armata al dibattito teorico sulla crisi della sinistra europea e del capitalismo reale, dal ritratto alla Toni Erdmann della miseria della delocalizzazione all'urlo punk della vivace scena musicale giovanile lisbonese, dall'esempio di gestione operaia delle fabbriche argentine al contributo delle donne alle lotte, al miracolo di una commissione d'oro di 3000 ascensori che salverebbe l'impianto requisito ai padroni fuggitivi - ci parla non solo della morte della classe operaia coesa e compatta, della nostalgia per l'operaio massa, soggetto politico forte fino agli anni 70, adesso “robotizzato” e diventato residuale e sfilacciato nell'epoca del lavoro cognitivo e dell'operaio sociale. Ma di come trasformare la cooperazione sociale in arma contro la rifeudalizzazione della società. L'opera (quasi tre ore) è dedicata a una fabbrica di ascensori che è riuscita ad autogestirsi, subito dopo il 1974, sopravvivendo per oltre trent'anni prima di arrendersi alla globalizzazione e al neo-liberalismo (e cioé ai prezzi troppo bassi degli ascensori cinesi). 


Non tutti gli operai sono dunque luddisti e incompetenti, come li descriveva Manoel de Oliveira nel suo film autobiografico postumo, quando si lamentava di essere stato personalmente vittima della rivoluzione dei garofani perché l'impianto tessile di famiglia, una volta requisito dagli operai, era stato svenduto, pezzo per pezzo, e poi distrutto. Alle autogestioni operaie e contadine sono stati dedicati molti film militanti (anche in Portogallo, per esempio Torremolinos di Thomas Harlan, o in Catalogna, un magnifico film di Joaquim Jorda) ma qui si produce cinema a tutto tondo, seguendo la lezione libera e il fraseggio improvvisato e stravagante di Miguel Gomes. Due, tre, quattro film in uno. Morte dunque come volo della Fenice.



(*) Pubblicato il  · in alfapiù

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