Roberto Silvestri
Cannes.
David Lynch
“Amo fare film di guerra perché trattano della morte e la morte mi
interessa molto. È il solo soggetto che intriga tutti, anche se qualcuno
scappa dalla sala. Vanno via, ma gli interessa. Tutti al cinema hanno
paura di morire, non vogliono morire e non vogliono sentire parlare di
morte. Io credo invece che sia un grande soggetto. Neanche io voglio
morire, ma lo amo”.
È l'indimenticabile cineasta americano Samuel Fuller che parla, indicandoci nei film di guerra, pieni di action and motion,
di azioni ed emozioni forti, il cinema per eccellenza, l'anello di
congiunzione tra qualità artistica e commerciale. L'estasi, il cambiar
stato, non è stato, da Eisenstein a Mickey Mouse in poi, l'obiettivo del
cinema, morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo?
Che sia un soggetto molto triste (anche per la scomparsa, proprio in questi giorni di festa del grande attore inglese degli Ivanhoe tv e di Jams Bond,
Roger Moore e di un profugo africano trovato cadavere proprio nella
stazione di Cannes) ma anche nobilmente legato al cinema, lo confermano
alcuni film del concorso di Cannes che hanno più turbato il pubblico e i
critici.
Guerra esplicita (civile, privata, di classe, tra sud
e nord, tra omofobici e tutti gli altri) e cadaveri spettrali sul
grande schermo nei film di Robin Campillo, Sofia Coppola, Michael Haneke
e Kornel Mundruczo e Yorgos Lanthimos. Naturalmente ci sono altre
battaglie campali di grande potere suggestivo che non provocano
necessariamente morti. Ma possono ribaltare radicalmente il rapporto con
il mondo e con noi stessi, fino alla follia, al salto in un'altra
dimensione, surreale, post-reale, o all'ingresso in mondi nuovi, reali o
virtuali.
Ormai pittore fecondo di materica spiritualità, l'americano vero David Lynch torna a Cannes, 11 anni dopo il suo ultimo film (Inland Empire, 2006) e 26 dopo il suo esordio tv, e i suoi 30 episodi griffati ABC, solo 5 diretti da lui, e presenta la serie tre di Twin Peaks (qui
solo le prime due puntate, oltretutto già uscite in Francia il 22
maggio scorso), creata con Mark Frost, per ricordarcelo. E questa volta tutti gli episodi saranno suoi.
“Quando voi mi
rivedrete, non sarò più io”, è quel che ascolta l'agente Fbi Dale Cooper (Kyle Maclachlan) dal nano che lo accoglie nella Loggia Nera, al termine della seconda
serie. Lynch è in perenne metamorfosi, come le sue creature... Avevamo così attraversato gli
incubi mostruosi di Dale/David, approdando in quello spazio/luogo di
morte anche del cinema d'arte, su cui Lynch poneva la definitiva parola fine
accentuando nel rituale macabro alcune segnaletiche che ci sono care,
dal cromatismo scarlatto delle tende cormaniane, alle spaventose e
improvvise metamorfosi sbilenche, alle carrellate schizofreniche e a zig
zag sul pavimento in bianco e nero.
L'intrigo nuovo si situa nella continuità della stagione precedente
e soprattutto di Twin Peaks: Fire Walk with Me (1992), film
estremo e brutale, che era il prequel, i sette giorni prima, ma
successivo di due anni alla prima serie e al ritrovamento del cadavere
di Laura Palmer. Un film fischiuatissimo a Cannes. Un vero trauma per chi, come Lynch, credeva particolarmente nella versione su grande schermo del suo lavoro più intenso e profondo.
E dunque la vita bizzarra della piccola comunità dello stato
boscoso e montagnoso del Washington, dalle pulsioni anche troppo vivaci e
dalle dinamiche estremamente perverse, continua, con qualche deviazione
di viaggio nel resto degli States (Manhattan, Las Vegas...). Già. “Ci si ritroverà tra 25 anni”,
diceva l'adolescente Laura Palmer, assassinata dal padre incestuoso,
parlando al contrario in quel montaggio di suoni conturbanti specialità della casa. E la ritroviamo spettrale in questo alto gioco di
nostalgia e trasformazione con tanti altri personaggi della serie amata
(oltre a novità lynchiane come Laura Dern, Naomi Watts, Balthazar Getty
o non lynchiane come Monica Bellucci e la grande Jennifer Jason Leigh,
sono ben 207 i ruoli...).
I 17 episodi di questa terza serie, dicevamo, sono tutti firmati
Lynch e il mix selvaggio tra soap opera
e horror, parodia e dramma familiare, umorismo e storia a chiave,
grottesco e stregoneria perfeziona il motore, i cambi e la frizione.
Insomma ormai la rivoluzione tematica e formale di Lynch è diventata la
struttura portante di tutte le serie tv d'autore uscite dopo
(capostipite Hill Street Blues, sempre di Frost). Esplosione
tematica di libertà creativa che restituiva al piccolo (ormai grande)
schermo domestico una sensazione di vita vera scomparsa nei blockbuster
degli effetti speciali. Les Inrockuptibles intervista David Chase, creatore di Soprano,
che ricorda il suo debito di riconoscenza per una serie che “per quanto
surrealista fosse, finalmente dava grandissima importanza alla geografia
di un luogo. I piani sugli alberi piegati dal vento mi avvicinavano a
un sentimento spirituale: credo che nessuno aveva mai visto questo in
televisione: il vento che soffia tra i rami”.
Per non parlare dei
diversi livelli di racconto, del passaggio inaspettato dal poliziesco
all'onirico fantastico, del passaggio tra il mondo reale e quello “che
non c'è”, del sogno, dell'inconscio o del preconscio. Da X-File a Lost è
storia conosciuta. Così come i famosi flash-sideways, che non sono solo
i flash back classici con i quali si torna indietro nel tempo o i flash
forward con i quali si anticipano gli avvenimenti, ma i flash
“accanto”, provenienti da una realtà parallela e misteriosa. Verso Leftovers
e l'esplorazione della vita mentale di personaggi dalle schizofrenie
fluttuanti che sono diventati gli oggetti d'affezione di uno stuolo di
sceneggiatori folli e creativi a cui è concessa qualunque libertà. Il
sistema Lynch. La paura e la morte che aprono tutte le porte, meglio se
dark, e creano un mondo altro da quello reale, da quello
cinematografico, da quello televisivo e perfino da quello web. L'avventura
del XXI secolo. Dopo Antonioni la decostruzione continua, ripetuta e
continuata della lingua, della grammatica e della sintassi del racconto
audiovisivo.
Raymond Depardon
“Morte”
è anche l'ingresso nell'ospedale psichiatrico criminale, passeggiare
negli “shock corridor” dove proprio Samuel Fuller costruì una delle sue
metafore più feroci del sogno americano trasformato in incubo. Una legge
francese recente, del 2013, obbliga il magistrato a confermare, entro
12 giorni dall'ospedalizzazione non volontaria, la detenzione di
chiunque possa costituire pericolo per sé o per gli altri.
Raymond Depardon |
Raymond
Depardon, decano del documentarismo “istituzionale”, e geograficamente
corretto, una sorta di Fredrick Wiseman più cartesiano, con al suo
fianco un musicista come Alexandre Deplat che depura l'emozione Satie da
ogni piacevolezza, isolando solo melodie e armonie conturbanti e
horror, va in manicomio (e non è prima volta perché ha attentamente
studiato la strategia Basaglia e i suoi esiti). A Lione. E in 12 giorni (selezione
ufficiale fuori concorso) registra le udienze di conferma o meno delle
detenzioni “senza consenso” di una dozzina di ricoverati attraverso i
loro duetti coi giudici (che sono attenti solo alla correttezza
procedurale: “noi non siamo psichiatri” ma non chiedono mai
controperizie da psichiatri esterni all'istituzione). Al fianco giovani e
sprovveduti avvocati (evidentemente d'ufficio), mai agguerriti. Primi
piani, campo/controcampo. Tutti i ricoverati coatti sembrano poveri e abbandonati, tutti
chiedono di tornare a casa.
Alcuni sono evidentemente “fuori” di testa,
come il patricida che vuole fondare un nuovo partito (“chiedete a Barnie
Sanders il programma!”) e supplica che si avverta proprio il padre accoppato delle sue
richieste di libertà. Altri (un emigrante angolano, una ragazza madre
maghrebina, una ventenne che si taglia le braccia continuamente e -
dicono ma lei nega – ha tentato ripetutamente il suicidio dopo essere
stata violentata 8 volte) sembrano più intossicati dagli psicofarmaci
che sragionevoli, e si lamentano del trattamento ricevuto senza che il
magistrato decida mai una ispezione o un controllo. Una frase di
Foucault, “a piè pagina” ricorda dopo i titoli di testo, che “la strada
che porta un uomo verso un uomo vero passa attraverso il folle”. Ma né
gli avvocati, né i giudici né i pazienti a forza, sia uomini che donne,
riescono a creare mai un terreno comune di comunicazione. Trasformando
in liberticida una legge libertaria. A nessuno verrà concessa la
libertà.
Pedro Pinho e i giovani portoghesi
Pedro
Pinho ci racconta il nuovo Portogallo - l'unico stato europeo governato
dalla sinistra unita, e con indici di crescita economica che sarebbe
utile per Gentiloni ricopiare, primo ministro il socialista Paulo Costa,
indo-lusitano di Goa - in A Fabrica de nada (La fabbrica del
nulla), selezionato dalla Quinzaine dopo la prima al festival
indipendente di Lisbona.
Sulla sinistra il "grillo parlante" italiano che incita alla lotta |
E attraverso il film stilisticamente ricco di detour e variazioni - si va dal doc militante al musical trotzkysta, dalla
nostalgia per la lotta comunista armata al dibattito teorico sulla crisi
della sinistra europea e del capitalismo reale, dal ritratto alla Toni
Erdmann della miseria della delocalizzazione all'urlo punk della vivace
scena musicale giovanile lisbonese, dall'esempio di gestione operaia
delle fabbriche argentine al contributo delle donne alle lotte, al
miracolo di una commissione d'oro di 3000 ascensori che salverebbe
l'impianto requisito ai padroni fuggitivi - ci parla non solo della morte
della classe operaia coesa e compatta, della nostalgia per l'operaio
massa, soggetto politico forte fino agli anni 70, adesso “robotizzato” e
diventato residuale e sfilacciato nell'epoca del lavoro cognitivo e
dell'operaio sociale. Ma di come trasformare la cooperazione sociale in
arma contro la rifeudalizzazione della società. L'opera (quasi tre ore) è
dedicata a una fabbrica di ascensori che è riuscita ad autogestirsi,
subito dopo il 1974, sopravvivendo per oltre trent'anni prima di
arrendersi alla globalizzazione e al neo-liberalismo (e cioé ai prezzi
troppo bassi degli ascensori cinesi).
Non tutti gli operai sono dunque
luddisti e incompetenti, come li descriveva Manoel de Oliveira nel suo
film autobiografico postumo, quando si lamentava di essere stato
personalmente vittima della rivoluzione dei garofani perché l'impianto
tessile di famiglia, una volta requisito dagli operai, era stato
svenduto, pezzo per pezzo, e poi distrutto. Alle autogestioni operaie e
contadine sono stati dedicati molti film militanti (anche in Portogallo,
per esempio Torremolinos di Thomas Harlan, o in Catalogna, un magnifico
film di Joaquim Jorda) ma qui si produce cinema a tutto tondo, seguendo
la lezione libera e il fraseggio improvvisato e stravagante di Miguel
Gomes. Due, tre, quattro film in uno. Morte dunque come volo della Fenice.
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