Mariuccia
Ciotta
Cannes
Invivibile
Cannes, fuori e dentro lo schermo. Il 70° compleanno assomiglia più
a un requiem che a una celebrazione. E non per l'incapacità di
gestire la massa degli accreditati né per i controlli minuziosi fin
dentro i borsellini né per i vasi da una tonnellata piazzati sulle
strisce pedonali né per le code in entrata e in uscita. Il festival
agonizza perché non ama più il cinema.
La
scelta dei film in gara sembra suggerita da un esercente interessato
a indovinare il gusto medio del pubblico medio. Un esercente
interessato solo ai like, ai giudizi dei festivalieri scritti mentre
scendono le scale del Palais (impedendo agli altri di
passare). Il film è un “capolavoro” o è “deludente”.
Pensiero binario che piace alle produzioni. Basta con la critica, e
basta con Godard, svillaneggiato da quel genio premio Oscar di Michel
Hazanavicius tra il godimento massimo di chi non conosce il dolce
gusto del '68 e batte like a più non posso sulla commedia di gag
conformiste a go-go, Le redoutable. Ma pare che il nuovo
interesse critico si concentri sui dettagli tecnici, per cui quel
film al decimo minuto è troppo lungo, al trentesimo troppo corto, la
trama è un po' confusa, la canzone mal scelta... Allora com'è il
parrucchino semi-pelato e la zeppola in bocca di Louis
Garrell-Godard?
C'è
una sequenza nel film di Amos Gitai, West of the Jordan River,
che segna la distanza con il cinema preferito quest'anno (a parte
grandi eccezioni) dal direttore Thierry Frémeaux, forse spinto da
obblighi superiori, e per questo costretto a escludere all'ultimo
minuto A Ciambra dal concorso con le scuse inviate a Martin
Scorsese (co-produttore) e anche a sbattere Roman Polanski fuori
concorso nell'ultimo giorno del festival per evitare le polemiche di
infima lega (anche recenti) su uno dei più grandi registi viventi.
Il
film di Gitai è passato alla Quinzaine, isola autonoma dove c'è
sempre qualcuno che sale sul palco per parlare di cinema. La sequenza
è quella di un bambino palestinese che cerca di vendere un cestino
di fragole in mezzo a un incrocio stradale. Camion giganteschi,
macchine e pullman lo nascondono alla macchina da presa, il bambino
scompare e poi riappare, “travolto” e poi di nuovo vivo con il
suo cestino che nessuno vuol comprare... non si ferma nemmeno un'auto
bianca dell'Onu, e lui cammina disperato verso lo spettatore, verso
il cinema.
Torniamo
al Palais con il greco Yorgos Lanthimos, beniamino di Cannes, premio
della giuria nel 2015 con The Lobster, fanta-horror
glaciale che si ripete in The Killing of a Sacred Deer
(L'uccisione di un cervo sacro,
concorso) nella forma più estrema del narcisismo estetico. In
ogni fotogramma il regista si specchia come per controllare la piega
dell'immagine. Sceneggiatore super premiato (anche questa volta, ex aequo con Lynne Ramsay), Lanthimos osa ancora una
società di automi nel (solito) mondo dispotico dove un Colin Farrel
barbuto fa il chirurgo e Nicole Kidman la moglie-robot un po' come
in La donna perfetta di Frank Oz. Il film si apre con il primo
piano di un cuore sanguinolento e pulsante sotto il bisturi, visione
materica in alternanza ritmica (rosso/azzurro) con le gelide
inquadrature e i dialoghi straniati. I figli, un bambino e una
teenager, condividono il gioco surreale. Ma nell'universo asettico di
una borghesia stilizzata e sotto ipnosi, Lanthimos introduce
l'incrinatura umana che manda in tilt la perfezione della
comunità/famiglia. Il thriller nero profondo fa crescere la tensione
nell'inquietante presenza di un ragazzino che perseguita Colin
Farrell, ma come in The Lobster l'idea narrativa si suicida
nella ripetizione sgargiante di sé. Senza detour, scarti,
distrazioni, errori.
Il
film non sbaglia operazione, al contrario del chirurgo (il secondo
brillo dopo quello dell'ungherese Mundruczò), ed è sempre
impeccabile e inutile, caricatura di un cinema alla Shyamalan, così
metaforico da farsi irridere perfino dal protagonista dotato di
superpoteri che mentre si addenta il braccio spiega la natura
allegorica del gesto.
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