Roberto Silvestri (*)
In concorso un apologo gelido sulla borghesia francese ed europea mutante e morente, Happy end di
Michael Haneke, che da quando vive e lavora a tempo intero a Parigi e
ha messo in soffitta le sue eccentriche crudeltà carinziane, ha trovato
in Isabelle Huppert una analoga, affidabile macchina delle cattive
passioni, la sua musa, la “Medusa”: basta uno sguardo e impietrisce il
vicinato, avvelenando il nemico.
In realtà qui la sua Anne Laurent è la
compassionevole 'cavaliere del lavoro', rampolla di Georges Laurent (un
Jean-Louis Trintignant gelido, come solo Nicole Kidman oggi sa essere: è
anche lui in “anestesia totale”, come lei nel nuovo Lanthimos), il
magnate, capostipite di una ditta di costruzioni, nella Calais
“intasata” da cittadini africani in cerca di traghetto (e che, rispetto
ai grassi e tozzi e pingui riccastri biancastri della zona fanno la
figura di erotici modelli da passerella), che sta pagando i disastri e
le contraddizioni del neoliberismo globale che tanto li ha arricchiti
nel recente passato.
Jean-Louis Trintignant, nel film Georges Laurent, il magnate |
Ma ora, invece di competere avventurosamente e da
duri, “perché quando il gioco si fa duro ….”, il giochetto espansivo non
sta funzionando più anzi produce crisi a catena e rifeudalizzazione.
Così le ditte tutte vanno in pasto ai giganti planetari (finanziari o
meno) che aspettavano al varco. E non a caso Isabelle Huppert è ormai
costretta a sposare un partner made in Usa per resistere, con villa e
servi e tutto, nel mondo che cambia, mentre il fratello, responsabile di
disastri cruenti nei cantieri e il figlio, fuori di testa perché non è
cieco e indurito nell'animo, devono essere bloccati e messi in grado di
non nuocere, seguendo il “manuale Agnelli”. L'eliminazione dei deboli.
Isabelle Huppert e gli altri |
Trintignant, che qui riprende, come fosse in un serial, il suo
personaggio di marito caritatevole di L'Amour, decide così di
suicidarsi, non perché è in preda a invincibili sensi di colpa (per aver
soffocato la moglie troppo sofferente), ma perché è ormai convinto di
aver trovato nella nipotina dodicenne, più cinica, consapevole e acuta
di tutti, una affidabile ereditiera della dinastia. E' vero che non si
assiste a scene insostenibili, questa volta (a parte l'happy end,
finale). Ma il congegno narrativo, come al solito spietato e senza
orpelli, non è appariscente né autogratificante, come se Haneke,
riguardo alla segnaletica autoriale, avesse intrapreso un percorso di
semplificazione e annullamento.
Il giorno dopo di Hong Sang-soo
Molto stilizzato invece il sudcoreano Il giorno dopo (Geu-Hu), del beniamino di Cannes e della critica francese Hang Sangsoo un cineasta che affascina sempre per l'equilibrio con il quale amalgama immagine visiva con immagine sonora (e infatti qui anche la responsabilità delle musiche è sua). Bianco e nero. Macchina fissa.
Interni quasi tutti uguali. Un tavolo in mezzo e la cinepresa che si
sposta da destra a sinistra a inquadrare due soli personaggi che
parlano.
Lui e lei. Sempre lui e un'altra lei. Sempre lui e una terza
lei. Piccolo editore di narrativa e saggistica nella Seoul di oggi,
Bongwan, sposato con figlia, ha un'amante. La moglie sospetta. Quando ha
la prova, finalmente, entra in campo e schiaffeggia, in casa editrice,
una ragazza sbagliata. Incolpevole. E' Areum, appena assunta e nel suo primi giorno di
lavoro. Ed ecco che tutto crolla. Lui avrà il coraggio finalmente di lasciare la
moglie e mettersi con l'amante, salvo poco dopo restare solo, con la figlia. Solo grazie a Areum scopriremo tutto quel che è successo, il momento magico della rottura, che è fuori film... Ma la
continuità temporale del racconto è sconvolta da un montaggio e da una
musica asincrona che ci introduce in un puzzle sofisticato, che dobbiamo
ricostruire da soli, reso ancora più interessante dal gioco
performativo dei quattro attori, tutti superbi: Haehyo Kwon (Bongwan), Minhee Kim (Areum), Saebyuk Kim e Yunhee Cho.
Tutto un mettere in primo
piano (e non c'è un solo primo piano nel film) attraverso i movimenti del
corpo, delle mani e del viso, le emozioni più sottili, anzi le sotto, le micro, le quasi emozioni. Il regista che in qualche modo si identifica con l'editore
trova nella macchina da presa l'alter ego che lo psicoanalizza. L'atto
psicoanalitico entra in funzione. Si chiama cinema. In giuria il collega di Hong Sang-soo, Park Chan-Wook, potrebbe avere vita facile anche se il quoziente di originalità di trama richiesto da un intreccio di passione d'ufficio è più alto (dopo 50 sfumature di grigio e di nero) di un raffinato e acuto esempio di cinematografia bressoniana.....
Pubblicato il su Alfabeta2
Nessun commento:
Posta un commento